di Emanuele Manco
Nel 1988 il dittatore Augusto Pinochet fu costretto da pressioni internazionali a promulgare un referendum che decidesse la sua permanenza alla guida del Cile. La popolazione avrebbe dovuto approvare con un Sì o un No la presidenza per altri 8 anni del Generale. Sull’esito della votazione nessuno si faceva illusioni ma per dare una parvenza di democrazia al procedimento venne organizzata una campagna elettorale, fornendo a entrambe le fazioni 15 minuti al giorno per comunicare in TV le proprie ragioni. Era chiaro che il divario tra le forze in campo fosse enorme. Il governo in pratica aveva voce per ben più dei 15 minuti regolamentari. Ma per l’opposizione, quei 15 minuti al giorno per 27 giorni erano di più di quanto avessero mai avuto dall’11 settembre 1973.
René Saavedra (Gael García Bernal) è un giovane pubblicitario la cui vita scorre tutto sommato positivamente. Brillante e molto capace, realizza campagne che strizzano l’occhio al modello consumistico statunitense, mirando a convincere gli acquirenti che bisogni non necessari faranno la loro felicità. Il suo frigorifero è sempre pieno, guida un’auto sportiva europea e vive con figlio e tata in un lussuoso quartiere di Santiago. Non tutto è luce nella sua vita: ha vissuto gli anni della sua infanzia fuori dal Cile, figlio di dissidenti esiliati. La sua ex moglie Verónica (Antonia Zegers) è un’attivista dell’opposizione, avvezza agli scontri e alle rudezze della polizia militare. Per questo, nonostante lavori per un’agenzia pubblicitaria contigua al regime, diretta da Lucho Guzmán (Alfredo Castro), viene contattato dagli esponenti del fronte del No per organizzare la loro campagna.
René è inizialmente riluttante e, come tutti, è convinto che si tratti di una campagna persa. Ma è anche affascinato dall’idea. Dapprima si offre di dare un parere, in qualità di consulente, sul materiale prodotto sino a quel momento; poi, constatato che tale materiale non riuscirebbe a essere comunicativo, decide di accettare e propone una diversa strategia. Sfruttando tutta la semiotica specifica della pubblicità decide di “vendere” il No come se fosse un prodotto. Propone una campagna che più che puntare sulla condanna esplicita delle malefatte del regime punti alla felicità che potrebbe provocare la sua fine. La sua ambizione è veicolare il serio messaggio politico con la leggerezza della pubblicità. Si tratta ovviamente di un cambio repentino che non trova subito accoglienza favorevole presso i committenti. Alla fine le sue idee, mediate e unite alla comunicazione politica, vengono accettate, un po’ per il carisma e la sfrontatezza di René, un po’ perché l’assoluta certezza che il referendum sia già deciso convince il fronte del No che peggio non si potrebbe fare. Come sempre chi non ha nulla da perdere può permettersi di giocarsi tutto.
Come andrà a finire lo sappiamo dalla Storia. Quella campagna pubblicitaria che sembrava fuori contesto stimolò milioni di persone a esprimersi e, nell’ottobre del 1988, il No vinse contro ogni previsione. Pinochet fu costretto a indire libere elezioni nel 1989, lasciando il potere l’anno dopo, pur rimanendo capo delle forze armate fino al 1998.
Il racconto cinematografico non si limita alla descrizione di un momento storico: è la parabola di René, che all’inizio è uno spacciatore di sogni a buon mercato, apolitico, con una coscienza sopita e sonnecchiante. Poi lo muove l’ambizione, più che l’altruismo o la volontà di fare il bene del suo paese. La sua reale motivazione, in contrasto con quella dei suoi committenti e di alcuni dei suoi collaboratori, è di realizzare un’altra campagna di successo che sancisca la consacrazione del suo genio. Gradualmente René si rende conto di avere mosso un meccanismo più grande, di avere toccati interessi forti e che le conseguenze del suo operato potrebbero mettere in pericolo se stesso e i suoi cari. Questo momento di riconoscimento è cruciale, perché lui ha ancora la sua via d’uscita: potrebbe rinunciare e tornare sotto l’ala protettiva di Guzmán. Supera il punto di non ritorno quando comprende che la sua libertà è effimera e condizionata, un’illusione che gli ha dato il benessere, ma che basterebbe poco per perdere: una parola fuori posto, un minimo gesto che venga interpretato come ribellione da un poliziotto di brutto carattere e tutto potrebbe sparire. La bravura di Gael García Bernal accompagna il personaggio in tutta la sua evoluzione. Lo sguardo incredulo del giorno della vittoria del referendum va oltre il credibile o il verosimile, è Vero.
Altrettanto vero è Alfredo Castro, che interpreta Guzmàn. Un uomo solo, ben inserito nelle stanze del potere, ma non come vorrebbe. A differenza di Saavedra è ben radicato nelle sue convinzioni e ambizioni. Un meschino che però non si rende conto che gli oligarchi non lo prenderanno mai con loro, non lo accetteranno mai come uguale, nonostante i suoi tentativi. Rappresenta l’illusione di arrampicata sociale della dittatura, che prosperava vendendo la speranza di diventare ricchi e di successo, poco importa se in una società in cui chi non ce la fa soccombe. Ciascuno dei partecipanti alla grande corsa s’illude che non toccherà a lui rimanere indietro se farà le mosse giuste. Anche questo modello sociale lo conosciamo bene, tele-venduto adesso dai reality show. In fondo anche per Guzmàn una campagna vale l’altra. Specularmente a Saavedra, cerca di vendere la dittatura anche lui come un prodotto, usando lo stesso linguaggio del pupillo diventato antagonista. Meno meschino ma più ideologizzato del Raul Peralta di Tony Manero, più cinico del Mario Cornejo di Post Mortem, con Lucho Guzmàn, Castro – ancora una volta sotto la direzione di Larraín – completa un trittico straordinario di personaggi, espressione delle diverse anime del Cile sotto la dittatura, dando prova di enorme versatilità.
Un tema importante di No è l’allegria e il pacifismo come strumento contro la dittatura. I seriosi burocrati delle opposizioni vorrebbero puntare sul terrore, su una condanna che però verrebbe vista come demonizzazione. Che il messaggio positivo e propositivo sia vincente è una lezione che la politica talvolta ha preso troppo alla lettera. Guardando la comunicazione politica del Cile del 1988 dal nostro punto di vista, non si possono non notare agghiaccianti paralleli. Gli spot del Sì mostrano immagini di benessere opulento di pochi, cieli azzurri e la esaltazione dei valori della libera iniziativa e dell’autorità legittimata per diritto del più abile a prendersela. Pinochet parla alla nazione per proclami con alle spalle uno studio finto come un set. Inni accattivanti vengono cantati da figuranti che dovrebbero rappresentare la nazione produttiva. Non vi ricorda niente?
Certo i prati verdi del fronte del No, il paese dei balocchi descritto da quelle campagne, appaiono come la descrizione di un paese che non esiste. Questo era vero e il suo ideatore se ne rendeva conto. Ma cercava di vendere l’idea di un Cile possibile. Da come descrive il film, la forza della campagna è stata però quella di unire alla comunicazione dell’idea di felicità anche i contenuti, anche contro il parere di René. Le madri dei desaparecidos che cantano e ballano da sole per esempio è una immagine di una allegra tristezza che pur denunciando una vicenda drammatica comunica un messaggio positivo, è uno dei momenti più belli e intensi del film.
Attenzione, però: Saavedra non è un uomo di sinistra, ma il portavoce, più o meno consapevole ma sicuramente intelligente, di un pensiero liberista che rifiuta la dittatura perché toglie opportunità di mercato. La vittoria del No è anche la vittoria di nuovo liberismo, diverso da quello di Pinochet, ma non lontanissimo. Un capitalismo puro, sganciato dalla politica attiva, più immerso nella risposta alla creazione di bisogni primari delle persone. Alla loro pancia insomma. Lo slogan “Sta arrivando la felicità” non ha altre ambizioni, per questo funziona. La sconfitta di una dittatura con i suoi stessi strumenti di manipolazione mass mediatica è da un certo punto di vista un paradosso, dall’altro porta a un abbraccio mortale con altri potentati; anche se questo tema non è stato affrontato dal film, è comunque uno spunto di riflessione interessante.
No – I giorni dell’arcobaleno è tratto da un lavoro teatrale di Antonio Skármeta. Nel portarlo sul grande schermo Pablo Larraín utilizza un misto di girato di finzione e di spezzoni d’epoca per immergere lo spettatore nel racconto di un’epoca. Per togliere la soluzione di continuità tra materiale di provenienza diversa sono state usate macchine da presa Ikegami del 1983 e il formato 4:3. La fotografia sgranata è una vera e propria ribellione nei confronti della dittatura dell’alta definizione, del 3D, degli effetti speciali, una ricerca estrema di verità. La camera a mano restituisce un senso di instabilità nelle scene in esterna, in particolare durante la manifestazioni, mentre i limitati movimenti di macchina degli interni riportano al linguaggio del teatro più che del cinema.
Se Tony Manero (2008) aveva raccontato il momento centrale dell’epoca della dittatura, forse il momento più drammatico e oscuro, e Post Mortem (2010) il suo inizio, No per ora costituisce il completamento dell’ideale trilogia di Larraín, raccontandone il momento che è considerato l’inizio della sua fine. Quello che risulta, accostando i pezzi, è una completa panoramica della violenza dell’epoca, delle battaglie morali, perse e vinte, che l’hanno caratterizzata, delle sue ideologie o della loro mancanza. Uno sguardo che non è quello del testimone partecipe (Larraín è del 1976) bensì quello di chi cerca di ricostruire un’epoca attraverso le sue storie, strappate ed estirpate da una memoria che le vorrebbe frettolosamente seppellire.
No – I giorni dell’arcobaleno di Pablo Larraín, Cile/Francia/USA 2012