di Alessandra Daniele
Di tutte le accuse rivolte all’attuale gestione Moffat della cinquantennale serie sci-fi Doctor Who, la più ricorrente e motivata è quella d’avere un’impostazione reazionaria e sessista, particolarmente evidente in tutta la sua miseria nel pasticciato e truffaldino finale di stagione andato in onda sabato scorso, con l’inetto undicesimo Dottore ancora una volta circondato da un intero gineceo di comprimarie stolidamente adoranti che letteralmente esistono, vivono e muoiono esclusivamente in funzione sua.
Segue spoiler
Una moglie ”confezionata” su misura per lui fin dal concepimento, che dopo avergli sacrificato tutta la sua (breve) vita, ed essere stata messa da parte per anni ”come un libro su uno scaffale” (testuale) non solo non se ne lamenta, ma accetta soavemente di svanire del tutto per far posto alla sua nuova fiamma, che le dice ”Sì, il Dottore m’aveva parlato di te, ma non avevo capito che fossi una donna’‘.
Due lesbiche in abiti vittoriani che hanno il compito di battersi per lui come amazzoni, beccandosi la sua lingua in bocca a forza come ringraziamento.
E una nuova companion che per lui decide di dissolversi nello spazio-tempo, frantumandosi in miliardi di frammenti smarriti, per diventare il suo eterno angelo custode, la sua personale madonna pellegrina – perlopiù invisibile e ignorata – che letteralmente muore e rinasce miliardi di volte solo per proteggerlo e salvarlo.
La narrativa, e a volte anche le stesse dichiarazioni pubbliche di Steven Moffat, showrunner di Doctor Who succeduto al geniale benché discontinuo Russell T. Davies, sono spesso state segnate da un pernicioso maschilismo retrò, fatto di personaggi femminili ridotti a stereotipi di Lolite capricciose o dark lady uterine. Mai però s’era finora raggiunto un livello così grottesco come in questo The Name of the Doctor, finale “preparatorio” dell’atteso – e adesso da molti temuto – special per il 50° anniversario della serie, previsto per il 23/11/13.
L’avere maldestramente aggiunto un soprannumerario Dottore ”segreto” (o forse un impostore) alla lista degli undici Dottori ”canonici” è solo l’ultimo dei suoi difetti.
La gestione Moffat aveva goduto per i primi anni d’un pregiudizio fin troppo positivo da parte di pubblico e critica, derivato dalle buone prove autoriali precedentemente fornite da Moffat sotto la guida di Davies. Ad essere obiettivi però lo scarto qualitativo verso il basso era stato immediatamente evidente, a cominciare da un brutale azzeramento sia di gran parte della complessità e dello spessore umano acquisiti proprio dal personaggio del Dottore nell’era Davies, sia di quelli che già possedeva in precedenza. Un danno grave, impossibile da imputare solo all’oggettiva sproporzione fra lo straordinario talento di David Tennant, e quello molto più modesto del pur volenteroso Matt Smith.
Nelle mani di Moffat, il Dottore è diventato una specie di straniante allegro genocida di alieni, che ogni tanto si ricorda di piagnucolare un po’ d’autocommiserazione sulle ginocchiette delle sue giovani companions, per poi tornare subito a sbavarci sopra.
A peggiorare il danno, l’epurazione censoria compiuta da Moffat che ha sistematicamente espulso dalla serie sia tutte le tematiche sociopolitiche efficacemente introdotte da RTD, che tutti i personaggi da lui creati o anche solo reinventati, dall’adorabile eroe pansex Jack Harkness di John Barrowman, allo stupendo, beffardo, struggente Master di John Simm. L’espulsione del Master, personaggio fondamentale nella mitologia della serie da almeno quarant’anni, è stata in particolare una vera e propria mutilazione inferta da Moffat al canone con l’ipocrita piglio patriarcale-pretesco degno del Rassilon di The End of Time, così accuratamente evocato da RTD in quel finale, che pur con tutti i suoi difetti, oggi sembra lontano anni luce per qualità e intensità narrative, interpretative e produttive dall’attuale teatrino delle ombre Moffattiane.
A incongruenze, forzature e buchi di trama, di cui le inutilmente ingarbugliate storie di Moffat abbondano, lo spettatore di Doctor Who è mitridatizzato da sempre, le regole dell’universo del Dottore vengono riscritte continuamente: se ne potrebbe dire, citando Sartre, che non ha leggi, ha solo abitudini, e può cambiarle domani.
In cinquant’anni però c’è stata una costante irrinunciabile: il personaggio del Dottore, con tutte le sue evoluzioni e involuzioni, ha sempre ispirato abbastanza fiducia e simpatia umana (e aliena) da far venire voglia d’accettare comunque il suo invito a viaggiare con lui nel tempo e nello spazio.
Oggi invece dà la sensazione d’accettare un invito ad Arcore.
[Edit: chi fosse interessato a un mio commento al piccolo vespaio suscitato da questa recensione, lo trova qui: La ragazza che ha aspettato abbastanza]