di Valerio Evangelisti
[Pubblico la mia introduzione al libro di Fulvio Massarelli La forza di piazza Syntagma, ed. Agenzia X, 2013, pp. 122, € 11,00. Ne ho espunto alcune parti relative al quadro politico italiano, attuali quando scrissi il testo, ma ora non più.]
Questo libro è importantissimo. Parla di una possibile rivoluzione in divenire, proprio quando le classi subalterne di un paese – la Grecia, nello specifico – sembrano alle corde e prossime al collasso. Ecco che, come in un film della serie Rocky, si rialzano dal tappeto barcollanti e, lucide malgrado tutto, radunano le forze rimanenti per una riscossa. Le troveranno? Non è detto, ma non è nemmeno detto che soccombano. Devono comunque aspettarsi una violenza smisurata. L’aggressore odia senza freni un nemico che, ferito, non si arrende.
Ciò accade in Grecia, in Portogallo, in Spagna, in Inghilterra e un po’ ovunque, nel continente europeo. Il sistema sempre meno elettivo va preservato, mentre adotta misure capaci di estendere il precariato a fette ogni volta più ampie di lavoratori – operai ma non solo: anche studenti senza avvenire, marginali, intermittenti, disoccupati. Se non seguono la disciplina che vuole la loro frammentazione, fino a trascinarli sul mercato quali soggetti singoli, incapaci di rivendicazioni collettive, esistono le forze dell’ordine incaricate di riportarli nei ranghi a manganellate. Certe dell’impunità in Grecia come in Italia, anche quando feriscono, torturano (vedi da noi Diaz 2001) o persino uccidono (Giuliani, Rasman, Bianzino, Aldrovandi, Mastrogiovanni e decine di altri).
E’ un paradigma inaugurato negli anni Settanta, e che oggi celebra in Grecia il suo trionfo. Ha radici ideologiche. E’ del tutto sterile interrogarsi sul modo migliore per uscire dalla crisi, sull’utilità o meno dell’euro (la moneta più fasulla al mondo). Le scelte stanno a monte, e non riguardano l’economia e basta, ma piuttosto i rapporti di forze tra le classi. L’ideologia corrente, fatta propria dall’Unione Europea attraverso una pletora di accordi, costituzioni, trattati, mira alla pura e semplice scomposizione del proletariato, al fine di massimizzare, a beneficio delle classi egemoni, un profitto eroso dalla caduta del suo saggio.
Le origini di questa weltanschauung stanno nel thatcherismo, nel reaganismo; e prima ancora nel premio Nobel a Milton Friedman, meritevole per avere dato vita a una teoria economica priva di basi solide, e tuttavia efficace per la sua portata ideologica. Subito amplificata nell’ideologia e ulteriormente indebolita nella sostanza scientifica dagli imitatori servili di Friedman, i cosiddetti supply siders (economisti dalla parte dell’offerta). Terreno di prova furono Cile e Polonia. Non è un caso se per tanto tempo abbiamo trovato cileni e polacchi a vendere fazzolettini di carta ai semafori.
Ma cosa parlo a fare? Sono eventi sotto gli occhi di chiunque li voglia vedere. […] Il dominio incontrastato del capitalismo è pura violenza, anche quando finge di essere il contrario. Lo Stato è, come è noto, “monopolio assoluto della forza”. Giunge il momento in cui ogni livello sopportabile è superato, in cui l’acqua che ribolle esce dalla pentola. Un intellettuale non asservito può prevederlo e, se ha un tantino di coraggio, dirlo ad alta voce. Il “che fare” però spetta alle classi subalterne.
Abbiamo visto, dopo decenni, movimenti anticapitalistici di massa: “indignados”, “occupy”, presenti in vari continenti. Abbiamo visto riemergere dal nulla una sinistra che si credeva perduta, articolata in mille esperienze di base. Basta tutto ciò? No, per niente. I rapporti di forza permangono intatti. Poco importa che ad assediare i palazzi del potere siano decine di migliaia di persone. Non cambia nulla, le decisioni utili all’atto pratico sono prese nelle sedi deputate. Nazionali e sovranazionali. E’ bello e liberatore fare casino in piazza. Seguiranno l’inevitabile stanchezza, le divisioni, la rassegnazione. L’insorgenza tardo-giacobina ai tempi del Direttorio. Ne nacque il socialismo, ma con una gestazione lentissima.
E’ un destino di sconfitta segnato? Penso di no. Io ho potuto seguire abbastanza da vicino solo una rivoluzione, quella del Nicaragua sandinista. Anni Ottanta, dopo un’insurrezione vittoriosa esplosa nel 1979.
Non è certo un esempio da seguire, specie alla luce di ciò che è il Nicaragua oggi. Tuttavia qualche indicazione di massima è ancora possibile trarne.
Marx, ne Le guerre civili in Francia, rimproverò alla Comune di Parigi di non avere nazionalizzato la banca centrale del paese. Invece, un secolo dopo, il Nicaragua lo farà, senza rinunciare per questo a un modello di democrazia rappresentativa (unito ad altri di democrazia diretta). Perché cito il Nicaragua, paese insignificante? Per avere apprezzato i criteri di fondo di un’esperienza socialista di breve durata (appena un decennio) a suo modo unica.
Quali criteri?
Dopo la vittoria della rivoluzione, guidata dal FSLN (Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale):
– Nazionalizzare i settori strategici: finanza, comunicazioni, trasporti a livello nazionale e locale, assistenza, grande produzione, grande distribuzione, scuola e istruzione pubblica. L’accentramento capitalistico facilita l’operazione, fattibile “con un clic”, o quasi.
– In secondo luogo, creare economia mista e facilitare gestioni cooperative dove la nazionalizzazione non sarebbe stata conveniente, ma la “socializzazione” sì: commercio al dettaglio su larga scala, informazione, cultura, campo agricolo, commercio interno.
– In terzo luogo, libertà “di mercato” a tutto quel che è piccolo e nasce dal basso. Puntare sulle esperienze comunali e territoriali.
Il progetto non fu portato a termine, perché gli Stati Uniti scatenarono contro il Nicaragua sandinista una guerra civile artificiale, da loro finanziata. Una guerra ferocissima, che spossò il paese e ne disastrò il bilancio, fino ad allontanare dal potere i sandinisti, sconfitti in democratiche elezioni. In questi anni di nuovo alla guida, ma cambiati nelle persone e nei presupposti.
Prima della vittoria della rivoluzione:
– Imporre ovunque, dalle fabbriche alle scuole ai campi, organi democratici di gestione e controllo, per qualche verso simili ai soviet, nell’accezione originaria;
– Creare, su questa base, “zone liberate”, autonome e autogestite. In cui è l’assemblea che si fa carico delle principali funzioni statali e gestionali.
– Assumere la padronanza collettiva dei mezzi di produzione.
Post-vittoria, sotto il profilo politico:
– Mantenere il sistema democratico, rendendolo, però, effettivamente democratico. Con elezioni in cui chiunque possa affermarsi a parità di mezzi con i competitori, senza posizioni egemoniche dovute a capitali, controllo delle comunicazioni, capacità di influenzare l’opinione pubblica. Garantire libertà di stampa, però intervenendo quando se ne abusi. Facilitare la cooperazione. Creare organi di decisione dal basso (i Comitati di Difesa Sandinisti). Affiancare all’esercito, modellato sugli anni di guerriglia, milizie territoriali. Smantellare le istituzioni totali, dai manicomi (la cui riforma nicaraguense vide partecipe la figlia di Franco Basaglia) alle carceri, che si provò a trasformare in zone aperte di riabilitazione attraverso il lavoro (non obbligato) del detenuto a favore della società.
Tutto ciò non fu un successo, se non localmente, eppure qualcosa lo insegnò. E’ nel corso della lotta che si forgia la società a venire. Il Nicaragua combattente, nel conquistare terreno, dava forma al Nicaragua pacificato. I CDS esistevano prima della vittoria, le milizie anche. Troviamo linee simili anche in altri quadranti del mondo. L’IRA (parlo della Provisional IRA, non delle imitazioni) seppe trasformare i centri nordirlandesi in cui era impiantata in comunità autogestite. Ne godono tuttora i frutti – sebbene la vittoria vera sia lontana – il partito Sinn Fein e i sindacati.
Potrei portare tantissimi altri esempi. Però l’esempio principe e più attuale è in questo libro: la Grecia. Paese colpito più di ogni altro, in Europa, disprezzato, diffamato, portato a esempio negativo […]. E invece no. Il proletariato greco – lo si vedrà in questo libro prezioso – trova in se stesso la forza di rialzarsi, di farsi centrale anche verso i ceti medi impoveriti, di ricostruire ambiti propri di ricomposizione sociale, di produzione e di vita.
Diceva Lenin che la situazione è prerivoluzionaria quando chi sta in alto non può più comandare come prima, chi sta in basso non obbedisce più come prima e chi sta al centro tende verso il basso.
In Grecia la situazione è prerivoluzionaria. A quando l’Italia?