di Marco Zavagli (direttore di www.estense.com di Ferrara)
“Vi preghiamo, quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Trovatelo strano anche se consueto, inspiegabile pur se quotidiano, indecifrabile pure se è regola”. Trovare l’eccezione nella regola predicava Brecht. La regola si iscrive nella quotidianità quando tutto ormai, nel suo continuo ripetersi, diventa accettato. Ci si abitua a tutto, parafrasa un detto popolare, senza scomodare i drammi didattici del poeta tedesco.
È quello che ho pensato quando una delegazione di poliziotti del Sap ha applaudito all’uscita del tribunale di sorveglianza di Bologna Enzo Pontani, pregiudicato per l’omicidio colposo di un diciottenne, Federico Aldrovandi. È quello che ho pensato quando un altro sindacato, il Coisp, ha girato Ferrara con un camper in segno di solidarietà ai quattro condannati a tre anni e mezzo che ora devono scontare grazie all’indulto sei mesi di pena. Sei mesi per i quali i tribunali di sorveglianza hanno decretato la misura del carcere.
Una scelta, quella di negare l’affidamento ai servizi socialmente utili o ai domiciliari, che stride fortemente con una prassi pluridecennale. La carcerazione per un delitto colposo è un’eccezione. E i sindacati hanno protestato contro un trattamento “degno dei peggiori criminali” riservato a quattro appartenenti alle forze dell’ordine. I giudici hanno motivato i provvedimenti in ragione del mancato ravvedimento dei quattro agenti, della mancanza in tutti questi anni di qualsiasi gesto anche simbolico di scuse verso la famiglia, della volontà emersa già all’indomani di quel 25 settembre 2005 di nascondere quanto era successo.
Rimane il fatto che la detenzione in carcere può apparire misura spropositata. Specialmente ai diretti interessati. Ed esiste il diritto di criticare, in modo civile, anche le sentenze dei tribunali. Di criticare, non di ignorare.
Ma poi è apparso un volantino, a firma del Coisp provinciale, che ha riportato la tragica vicenda di Federico Aldrovandi indietro di sette anni: “questi quattro nostri colleghi — scrive il sindacato di polizia – sono stati condannati e da oltre 7 anni scontano la pena di essere dei poliziotti che una notte hanno incontrato un giovane “drogofilo” (per usare le parole emerse in giudizio), lasciato solo dai suoi amici dopo una serata “brava”, in preda ad una grave crisi di rabbia isterica e per cui si rendeva necessario il contenimento fisico”.
Una versione, per chi non avesse seguito la storia processuale, che ci riporta al gennaio 2006, quando la ragione ufficiale della morte di Federico era ricondotta all’overdose o a un malore fatale. Quando i quattro poliziotti erano intervenuti per fermare “uno che sbatteva la testa contro i pali”. Tutto smentito dalla ricostruzione dibattimentale. Fu allora, in quell’inizio di gennaio del 2006 che la madre del ragazzo, Patrizia Moretti, pubblicò un blog in internet con l’immagine del figlio morto, steso sul lettino della morgue, coperto di lividi e di sangue. Eppure per il Coisp “nessuno dei quattro poliziotti ha mai neppure minimamente pensato di infierire su una persona inerme”. Come se quella foto non fosse mai esistita.
E invece i quattro poliziotti hanno percosso fino a rompere due manganelli una persona ormai immobilizzata a terra, prona, ammanettata dietro la schiena, che implorava di smettere, che chiedeva aiuto. Nelle prime righe della sentenza di primo grado il giudice Francesco Caruso scrisse che Federico sul corpo aveva 54 lesioni, ognuna delle quali potrebbe singolarmente dare corso ad un procedimento penale. Non ho mai pensato che i quattro agenti dal curriculum di servizio immacolato fino a quel momento siano andati una notte in via Ippodromo per uccidere qualcuno. Ma è altrettanto vero che se loro non fossero intervenuti Federico oggi sarebbe vivo. Capovolgere la verità fa male a loro, al Corpo di Polizia, alla famiglia.
Per questo in un editoriale di risposta a quel volantino abbiamo voluto quella immagine che diede vita al “caso Aldrovandi”. Perché non si può accettare che sembri naturale, che diventi la regola, che dei tutori dell’ordine si comportino come se non esistessero tre sentenze di altrettanti tribunali, senza contare quelle del processo per i depistaggi e le omissioni e quelle dei giudici di sorveglianza. L’eccezione, chi sbaglia, non può diventare la regola.
Dal canto suo il Coisp ha reagito segnalando il sottoscritto all’ordine dei giornalisti, per chiedere provvedimenti nei confronti miei e della testata che dirigo (http://www.estense.com/?p=282985). Al sindacato ha risposto il presidente dell’ordine Enzo Iacopino, per ricordare che “noi, anche come giornalisti e non solo come cittadini, non possiamo stare a guardare”, anche se “c’è sempre qualcuno che cerca di dire ai giornalisti che cosa debbano fare, che cosa debbano scrivere e, a volte, che cosa debbano pensare”. Ancora più netta la reazione della Federazione nazionale della stampa, che in una nota congiunta con l’Aser ricorda come “non è cercando di intimidire i giornalisti che si recupera prestigio alle Forze dell’Ordine. Una forza sindacale come il Coisp dovrebbe essere consapevole che non è in questo modo che si tutela il buon nome dei tanti lavoratori di polizia che svolgono con abnegazione ed in mezzo ad enormi difficoltà la loro funzione. La Magistratura ha già deciso. I fatti riportati e commentati da Estense.com sono noti e comprovati. Alla luce di questo fatto iniziative estemporanee come quella del Coisp si configurano come un grave e inaccettabile tentativo di intimidazione”.
E senza quell’editoriale l’iniziativa del camper e del volantino sarebbe passata sotto silenzio a Ferrara. Nessuno ha contraddetto quanto vi era scritto. Nessuno ha trovato “strano anche se consueto, inspiegabile pur se quotidiano, indecifrabile pure se è regola” quanto avvenuto in questi sette anni. Eppure l’eccezione è sempre stata sotto gli occhi. Un’eccezione di 18 anni. Che qualcuno continua a non trovare strano, inspiegabile, indecifrabile che non esista più.