di Marilù Oliva
“Perché nella maternità adoriamo il sacrificio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna?”, scriveva Sibilla Aleramo nel 1906 (“Una donna”).
La questione è in parte ripresa nel testo di Loredana Lipperini, ma viene generosamente ampliata. Sto parlando del nuovo libro “Di mamma ce n’è più d’una”, ultimo pezzo della trilogia incentrata sulla donna, dopo “Ancora dalla parte delle bambine”, del 2007, e “Non è un paese per vecchie”, del 2010 (tutti e tre usciti per Feltrinelli).
Loredana Lipperini, giornalista romana che collabora con le pagine culturali di Repubblica, conduce Fahrenheit su Radio3 e porta avanti con successo il blog Lipperatura.it, si interessa da sempre alla questione femminile, non banalizzata come oggi si è soliti fare, ma complicata di tutte le diverse accezioni.
Quest’opera, i cui temi sono dirottati sull’età centrale della vita di una donna — la maternità o meglio: le maternità, analizzate attraverso le loro metamorfosi moderne o le trappole antiche: quando si fanno passi indietro e ricasca nel “gender backlash” — è scandito su sette capitoli più una bibliografia minima con un procedere brillante e acuto, sostenuto da continue sollecitazioni, investigazioni, argomentazioni. La scrittrice non giudica: espone e lo fa con tanto di dati estrapolati dalle sue lunghe ricerche.
“La scelta del materno, in Italia, è una scelta che pesa come un macigno. Eppure l’immaginario ci sospinge verso la madre equilibrista e onnipresente”. La madre-equlibrista, ecco. Un gioco al massacro in cui si deve dimostrare di riuscire a star dietro a tutto, dalla cucina — il livello di manicaretti pretesi in società è molto alto — ai blog, agli impegni fitti fitti dei bimbi.
Moltissimi i miti sfatati: quello della madre moderna, quello della madre sempre buona, paziente, crocerossina. Concediamole qualche imperfezione, a queste icone di santità o dannazione (con riferimento alle madri che uccidono), plasmate dai mezzi di comunicazione di massa o dal nostro retaggio cattolico.
La retorica del materno investe pubblicità, televisioni e si ripercuote sui mercati. Sì, perché la Lipperini tra le altre cose dimostra che è anche una questione di marketing e i modelli propinati si adeguano alle velleità utilitaristiche: ergo i bambini “servono” perché le loro mamme sono in primis consumatrici. Se l’economia italiana si basa sulla famiglia, farne a meno è considerato un delitto o un tradimento. Capita di conseguenza che quelle senza figli vengano considerate meno donne e “sottoposte al fuoco di fila del come mai e dei che peccato”, alla vulgata piace confezionarle nel quadretto di solitudine in cui l’unica consolazione è la presenza sorniona di un gatto.
Questa è anche la nostra cultura e vale la pena di conoscerla bene per cominciare con le prime picconate. Perché qui ce n’è bisogno. Così come sarebbe ora di scalfire anche il mito del figlio ideale e di smantellare le aspettative ansiose con cui lui viene mitragliato. Come chiarisce Gottlieb, citato a pagina 99:
“L’investimento eccessivo sui figli sta contribuendo al fiorire di un narcisismo generazionale che li danneggia. Quella che nasce come una sana autostima può rapidamente tramutarsi in una percezione di sé gonfiata, in un egocentrismo in base al quale tutto sembra dovuto. Di pari passo con l’autostima cresce anche l’incidenza di ansia e depressione”
Le conseguenze sono sotto agli occhi di tutti, basta farsi un giro su internet, spiega la giornalista:
“A chi non è capitato, di questi tempi, di imbattersi in quel rancore sordo di cui la rete trabocca? Un rancore fatto di ambizioni frustrate che si trasforma in odio, subito, al primo rifiuto?”
E, al di là degli investimenti sul figlio, che dire dell’atteggiamento con cui la donna sceglie di affrontare il proprio compito?Alla madre Naturalista (ma con moderazione) e alla madre che usufruisce — a volte con sensi di colpa annessi — dei progressi della scienza e della modernità, si oppone quella Selvaggia, quella che stigmatizza epidurale, pannolini usa & getta e procreazione assistita, perché convinta che la natura abbia già provveduto a tutto e sia empio tentare, ad esempio, di alleggerire le partorienti del dolore. Ma perché la sofferenza a tutti i costi?
Poi c’è la questione — molto interessante — delle famiglie. Quante chances hanno i padri di contribuire seriamente alla crescita del figlio? Quante possibilità lascia loro una società che ha stigmatizzato la madre quale angelo esclusivo del focolare? Ad ogni riflessione segue il correlativo bagaglio di dati e anche quelli sulla famiglia si succedono cospicui, perché si estendono a tutto tondo e coprono le diverse problematiche. Cambiano le famiglie, eppure non cambiano le loro rappresentazioni mediatiche o religiose. Cala il tasso di nuzialità — anche se molti sono disposti a fare follie per esibire una cerimonia matrimoniale extra-lusso — e i figli tendono a prolungare la permanenza sotto al tetto d’origine, ad esempio. A riprova delle mutazioni, Loredana Lipperini segnala un workshop dell’Istat (2011), in cui le metamorfosi del nucleo vengono passate in rassegna punto per punto: “… ci si separa di più (più 37% rispetto al 1998 e una crescita dei divorzi in ragione del 62%), aumenta l’età media alla nascita del primo figlio (da 26,9 a 30) e, attenzione, triplica la quota di nascite naturali: dal 6,5% al 20,4% nel 2009.”
L’intero saggio segue scorrevole, denso di riflessioni meritevoli e di citazioni. C’era bisogno di un lavoro come questo? Molto. In un paese in cui l’occupazione femminile è al di sotto del 50%, in un paese in cui le giovani lavoratrici che restano incinte continuano a subire mobbing, demansionamenti o addirittura ad essere licenziate — magari in maniera infida: basta non rinnovare loro il contratto a termine — forse non ci si dovrebbe nemmeno porre la domanda. Ma va un altro merito, all’autrice: quello di aver scardinato, con questa trilogia — che vi invito a leggere per intero — i tabù femminili in tempi molto duri. In tempi cioè in cui, appena solleciti la questione, vieni additata come “femminista ultrà”, spesso da persone che nemmeno sanno cosa sia il femminismo (né tanto meno immaginano quanto sia stato fondamentale per la nostra evoluzione sociale/civile/giuridica, ma soprattutto dimenticano che si tratta di una parabola storica conclusa), in tempi in cui le tre età della donna (giovinezza, età adulta e vecchiaia) vengono cristallizzate acriticamente in stereotipi consumistici, trascurando lo stato effettivo delle cose: le prime due vengono strumentalizzate dal mercato e dai processi culturali, la terza viene lentamente fatta scomparire.