di Marilù Oliva
Roberto Bolaño, Stella distante (traduzione di Barbara Bertoni, Adelphi, 152 pp., 16 euro)
“Tutto quello che ho scritto è una lettera d’amore e un saluto alla mia generazione, a quelli che hanno scelto la militanza e la lotta e che hanno dato quel poco che avevano, la giovinezza, a una causa che per noi era la più generosa del mondo. L’intera America Latina è seminata con le ossa di questi giovani dimenticati”. (R. B.)
Roberto Bolaño (1953-2003) era rimpatriato nel natio Cile a vent’anni, dopo un soggiorno messicano durato cinque estati e consumato per lo più in una biblioteca pubblica di Città del Messico. Vi era tornato solo per fare la rivoluzione, così aveva affermato precisando la sua posizione: “All’epoca ero di estrema sinistra, vicino al MIR (Movimiento de Izquierda Rivoluzionaria), ma la mia ideologia era trotzkista.” Deciso ad appoggiare, assieme a un gruppo di dissidenti, il progetto di riforme di Salvador Allende, proprio in Cile, alla fine di un estenuante viaggio attraverso l’America-Latina — in pullman, autostop e barca —, aveva trovato la colossale fregatura: pochissimi giorni ancora e il golpe di Augusto Pinochet avrebbe cambiato le sorti del paese. Proprio attorno alla questione del potere — e del sopruso dittatoriale — ruota molta della sua produzione, tra cui il libro pubblicato nel 2012 da Adelphi, Stella cadente (Estrella distante, del ’96, uscito in Italia per Sellerio nel 2007).
Nella pagina introduttiva, tal Arturo Belano — alter ego dell’autore e voce narrante — colloca questo romanzo breve come appendice ed estensione dell’ultimo capitolo de Letteratura nazista in America, precedente raccolta di racconti di cui questo sembra la prosecuzione, sia per la tecnica narrativa che per il richiamo dei personaggi. Del resto l’autore stesso aveva definito un libro il “fratello siamese” dell’altro.
“La morte è amicizia. La morte è responsabilità. La morte è comunione.”
Ecco alcuni dei messaggi schizzati in cielo dall’artista d’avanguardia Carlos Wieder, l’uomo epicentro del romanzo. Si tratta di esibizioni di scrittura aerea, sentenze, poesie, ma anche disegni tracciati sotto le nuvole come la stella eponima del romanzo, “rutilante e solitaria sull’orizzonte implacabile”.
Wieder è ammirato dagli spiriti inquieti e acclamato come avanguardista da un pubblico variopinto pronto ad aprire la bocca di stupore per l’eccezionalità del mezzo espressivo. Non è l’eccellenza che gli garantisce la fama. Il mistero che ruota attorno alla sua figura ne ingigantisce il profilo di tenebra, dai reading giovanili di poesia creativa a Conceptión, fino alla morte.
Pluriomicida coinvolto in inchieste giudiziarie inerenti torture e desaparecidos, fotografo che espone in torbide mostre e infine direttore della fotografia di snuff movie, il pilota lascia trapelare poche notizie di sé. Quello che ci viene restituito è solo attraverso le parole altrui. Le informazioni sono così lacunose e personali che il lettore alla fine dubita della stessa esistenza, tanto più che ciò che rimane, di lui, è impresso solo nei ricordi o nell’arte, forse perché si vuole incanalare verso la più plausibile delle interpretazioni: Wieder non è solo una persona, ma una rappresentazione. Sarebbe banalizzante liquidarlo come emblema del male, perché il personaggio è molto di più: l’impermeabilità alla coscienza, l’indifferenza algida di uno sguardo che non fa trapelare le intenzioni, il controllo della volontà, l’escrescenza del potere, il calcolo del sadismo immortalato con mano ferma, con eleganza, perfino. Ma il male si propaga al consenso, ed ecco che nel 1974 troviamo Wieder sulla cresta dell’onda, reduce dai trionfi in Antartide, invocato nei cieli di tante città cilene come aviatore dell’aeronautica militare FACh, a dimostrare al mondo il connubio tra il regime di Pinochet e l’arte. L’acclamazione lo segue anche al tramonto di ogni carriera:
“La sua opera perdura , alla disperata (proprio come sarebbe piaciuto a lui), ma perdura. Alcuni giovani lo leggono, lo reinvestano, lo seguono, ma come si può seguire chi non si muove, chi cerca, a quanto pare con successo, di diventare invisibile? Alla fine Wieder abbandona il Cile, abbandona le riviste minoritarie dove a firma delle sue iniziali o di pseudonimi inverosimili erano uscite le sue ultime creazioni, lavori eseguiti svogliatamente, imitazioni il cui senso sfugge al lettore, e scompare, ma la sua assenza fisica non mette fine alle supposizioni, alle letture opposte e appassionate che la sua opera suscita”.
Leggere i libri di Bolaño è come partire per un viaggio dove incontri persone vere e atmosfere surreali, ma la sensazione dominante è di essere in balia di un sortilegio. Con uno straordinario artificio narrativo fatto di digressioni, apparizioni, memorie estrapolate dal passato e distese quasi in tempo reale, con un intreccio di racconti che ricorda per certe atmosfere 2666, Bolaño costruisce una vita, quella di Wieder, secondo la tecnica che mi azzardo a definire della “realtà componibile”: procede accostando diversi tasselli, tutti significativi e insopprimibili, e la vicenda prima sfuocata acquista nitidezza man mano che si procede e che nuove testimonianze contribuiscono, appunto, alla costruzione della realtà raccontata. Ma l’ipoteca dell’abbaglio è sempre in agguato. Tanto più qui, dove la metaletteratura la fa da padrona. E allora sono gli autori stessi a tessere leggende e ritratti, le riviste, i poeti, i miserabili che sublimano nell’arte la loro infelicità:
“C’era una volta un bambino povero del Cile… Il bambino si chiamava Lorenzo […] Un giorno si arrampicò su uno di questi pali [dell’alta tensione] e ricevette una scossa così forte che perse entrambe le braccia. Gliele dovettero amputare quasi all’altezza delle spalle. Così Lorenzo crebbe in Cile e senza braccia, cosa che già di per sé rendeva la sua situazione piuttosto svantaggiosa, ma crebbe per di più nel Cile di Pinochet, cosa che trasformava qualsiasi situazione svantaggiosa in disperata, ma questo non era tutto, perché ben presto scoprì di essere omosessuale, cosa che trasformava la situazione in inconcepibile e inenarrabile.
Con tutte queste limitazioni non fu strano che Lorenzo diventasse un artista (Cos’altro poteva fare?). Ma è difficile fare l’artista nel Terzo Mondo se si è poveri, non si hanno le braccia e per di più si è froci. […] Le sue delusioni (per non parlare di umiliazioni, sgarbi, mortificazioni) furono terribili e un giorno — giorno da segnare con un sassolino bianco — decise di suicidarsi. Un pomeriggio d’estate particolarmente triste, quando il sole scompariva nell’Oceano Pacifico, Lorenzo si buttò in mare da uno scoglio usato esclusivamente dai suicidi (e che non manca in ogni litorale cileno che si rispetti)”.
Questo romanzo fa parte del progetto perseguito con ossessione dal 1993, quando i medici gli diagnosticarono una grave malattia epatica e lui si dedicò ad assecondare il tormento di pubblicare un lascito letterario davvero significativo. In questo contesto si inseriscono le opere Los perros románticos, La pista de hielo, La literatura nazi en América sopra citata e Stella distante, nonché la raccolta di racconti Llamadas telefónicas e l’incompleto 2666 (anche questi ultimi pubblicati in Italia da Adelphi), cui si dedicò fino alla morte, avvenuta nel 2003. Per capire cosa avesse in mente per lascito significativo basta che leggiate questo romanzo: la narrazione scorre vellutata tra le cancrene del potere e quelle degli uomini, tra la scrittura come dedizione totale e un concetto plurimo di bellezza. Una bellezza bagnata di arte, una bellezza incostante, effimera, e soprattutto ambigua perché può svelarsi ovunque e, al suo stadio più puro, giungere a toccare perfino il male. E forse oltre a questo emerge il suo messaggio di militante e uomo in veglia: destiamoci dal torpore, ribelliamoci.
Anzi, io toglierei il forse.