di Filippo Casaccia
Massimo Lauria è, assieme a Franco Fracassi, regista di The Summit, un documentario indipendente sui fatti del G8 di Genova, finalmente in sala in questi giorni dopo l’ottima accoglienza alla Berlinale dell’anno scorso. Ci siamo conosciuti in occasione di un festival di cinema, siamo diventati amici e questa è l’occasione per farci raccontare il senso di quest’opera.
Durante il G8, dov’eri?
Allora ero poco più che un pischelletto, facilmente impressionabile. Ho partecipato insieme ai miei genitori e ad alcuni compagni di Rifondazione alle due grandi manifestazioni del giovedì (quella dei migranti) e a quella imponente del sabato, insieme ad oltre trecentomila persone.
Sabato 21 luglio — la sera ci sarebbe stato il terribile raid alla scuola Diaz — mi trovavo in Corso Italia, dopo aver già percorso oltre dieci chilometri di strada. Faceva un caldo incredibile e molti genovesi tentavano di dare sollievo ai dimostranti gettando acqua dalla finestra. In quei giorni le principali stazioni ferroviarie e le uscite autostradali in ingresso a Genova erano state bloccate e la città era stata presa in ostaggio dalle forze dell’ordine. Per cui l’unico modo per raggiungere la manifestazione era quello di scendere alla stazione di Genova Nervi.
Arrivati quasi in fondo a Corso Italia sono cominciati gli scontri. Arrivavano lacrimogeni dall’alto, dalle vie laterali, dal mare e ovviamente anche da davanti al fronte della manifestazione.
La strategia repressiva era chiara: rompere in mille pezzi quel corteo enorme. Era impossibile trovare riparo: ovunque cercassimo di scappare, vedevi arrivare interi battaglioni di polizia o carabinieri. Una vera e propria caccia all’uomo.
Ricordo che accanto a me era stato appena pestato a sangue un signore in carrozzella, che aveva evidenti difficoltà a scappare via. E tutto intorno c’erano genitori con bambini piccoli, spaventatissimi. In molti (e anch’io) abbiamo citofonato a tutti i condomìni della zona, nella speranza di trovare rifugio all’interno dei palazzi. Molte persone erano così spaventate delle conseguenze che avevano paura ad aprire.
Quando hai capito che dovevi fare un film su quanto accaduto?
L’idea è venuta a Franco Fracassi — coregista e giornalista d’inchiesta di lungo corso. Ma il film e l’inchiesta non sarebbero stati possibili senza la collaborazione di un gruppo di giovani giornalisti (Vincenzo Crocitto, Eleonora Ferrazzi, Daniela Mastrosimini, Vincenzo Perrone, Andrea Petrosino, Fabiana Tacente). Quello che non ci tornava nelle cronache dell’epoca — parlo di tutto il team che ha lavorato all’inchiesta —, era la sistematica insistenza solo sulle manganellate e sulla distruzione della città. Ma il perché fosse avvenuto un tale macello, ancora non l’aveva spiegato nessuno. Ma soprattutto nelle pagine dei nostri giornali e nei documentari apparsi per diversi anni, il G8 sembrava una questione solo italiana.
Ovviamente però un evento mondiale — a nostro avviso — si può spiegare solo dandogli il respiro che merita.
Quasi tutti gli arrestati, finiti nella caserma di Bolzaneto, non erano italiani; moltissimi dei feriti provenivano da ogni parte d’Europa. E i poliziotti? Anche tra di loro abbiamo scoperto che un gran numero appartenevano ai servizi di sicurezza dei paesi che partecipavano al G8.
A Genova c’erano oltre 700 agenti dell’FBI, ma anche poliziotti francesi e tedeschi.
Insomma, indagando abbiamo capito che Genova ha rappresentato un’enorme palestra, dove le strategie repressive erano state studiate su tavoli internazionali. L’obiettivo? Quello di frantumare sotto i manganelli delle forze dell’ordine un movimento globale che rivendicava diritti per il 90% della popolazione mondiale, soffocando nei fumi dei lacrimogeni la sua voce che in quegli anni cominciava a spaventare i potenti della Terra.
E per potenti intendo anche le grandi multinazionali, che a Genova hanno avuto un ruolo determinante anche nell’infiltrare mercenari all’interno del movimento dei black bloc, perché eseguissero molte delle devastazioni viste.
Che percorso professionale hai avuto prima di The Summit?
Ho sempre coltivato la passione per il giornalismo e per il cinema. Ma mi occupavo di politica, facendo anche l’amministratore pubblico in Liguria.
Chi ha prodotto il film?
Se sei filmaker e giornalista indipendente, è praticamente impossibile trovare finanziamenti in Italia. Devi far parte di questo o quel “clan”: allora ti imponi in qualche modo, altrimenti resti tagliato fuori. È un po’ la storia del nostra paese, a tutti i livelli.
The Summit (presentato al Ministero della Cultura con il titolo di G-Gate) è stata riconosciuta opera di importanza culturale nazionale, dalla Direzione Generale per il Cinema; nonostante il riconoscimento il lavoro non ha ricevuto un euro di contributi.
Per cui The Summit è una quasi totale autoproduzione, nel senso che i soldi sono arrivati dalle nostre personali risorse, quelle della Telemaco, la nostra piccola casa di produzione. Per fortuna siamo stati supportati per tutta l’edizione da Thalia Group — coproduttore romano — e Video Voyagers di Genova, che ha curato le riprese.
Ma un ringraziamento speciale lo dobbiamo anche alla Genova Liguria Film Commission, che insieme alla Mediateca Ligure ci hanno sostenuti, anche con qualche risorsa economica, oltre che logistica. E poi Minerva Pictures/RaroVideo, con una quota il film e la distribuzione nelle sale.
Chi vi ha fornito i materiali inediti e, più in generale, chi vi ha aiutato e chi ostacolato, durante la realizzazione di The Summit?
Molte persone singole, che erano in quei giorni a Genova e hanno filmato per ore. Molti di questi sono professionisti, altri semplici amatori. Alcune delle immagini presenti nel film arrivano da Indymedia, il network di giornalisti indipendenti che in quegli anni è diventato una realtà molto forte in Rete.
E per la prima volta — in esclusiva — facciamo vedere le immagini del “super video”, definito così da Marc Covell, il giornalista inglese finito in coma davanti alla Diaz per le botte prese.
Queste immagini sono una raccolta impressionante di 47 videotape, mostrate su uno schermo 6 per volta, da prospettive differenti e sincronizzati tra di loro, di quanto accadde fuori dalla scuola Diaz nella notte tra il 21 e il 22 luglio.
Per la prima volta vengono mostrate al pubblico anche le immagini delle famigerate molotov introdotte nella scuola dalla Polizia e non dai manifestanti, come era stato detto all’inizio. Quelle immagini hanno scagionato molte persone dalle accuse loro imputate.
Ci hanno aiutato in tanti: giornalisti, manifestanti, ex parlamentari, poliziotti, esperti di tattiche di guerra informali, un ex generale della Nato e tanti cittadini a cui sta a cuore la verità su quelle giornate. Ma le difficoltà non sono mancate: da parte del Ministero dell’Interno, per esempio, non abbiamo mai ricevuto le autorizzazioni a parlare con singoli poliziotti, che non fossero sindacalisti di polizia.
Che accoglienza ha ricevuto il film?
A Berlino i tedeschi sono stati molto accoglienti e calorosi. Abbiamo registrato il tutto esaurito in sala e gli incontri con il pubblico sono stati partecipatissimi, cosa che ci ha reso molto contenti.
Anche la stampa nostrana si è dimostrata in diverse occasioni molto attenta al nostro lavoro, con picchi di apprezzamento che ci hanno sorpreso piacevolmente.
Molto meno la politica. A eccezione di pochissimi —come Gigi Malabarba ad esempio — la politica italiana non ha ancora fatto i conti con il G8. D’altra parte non è mai stata aperta un’inchiesta parlamentare su quei fatti. E non sai quanto sarebbe necessaria.
Non è stato ancora detto tutto su quei giorni, e credo che sarebbero in molti a dover scontare per le proprie responsabilità su Genova.
Che distribuzione avrà The Summit?
Minerva Pictures/RaroVideo e Cineama si stanno dando molto da fare per portarlo nelle sale italiane. Poi arriverà anche la distribuzione in dvd e in streaming su iTunes.
Per un’opera così, non sarebbe più giusta la tivù, come sbocco principale?
In Italia? Sarebbe una rivoluzione. Mi piacerebbe vederlo in televisione, arriverebbe ad un pubblico molto più vasto. E al di là del valore cinematografico del film, sarebbe fondamentale riparlare di quei giorni, dei diritti civili violati in ogni circostanza, dell’impossibilità di esercitare il proprio diritto a manifestare senza essere picchiati selvaggiamente.
Ma soprattutto sarebbe importante dire che a quel G8, mentre i giornali erano concentrati morbosamente sulle botte, nessuno ha mai raccontato quali decisioni siano state ratificate dentro Palazzo Ducale, dove gli 8 grandi stavano decidendo le sorti del mondo, che si è trasformato in quello che conosciamo oggi.
Cosa ti aspetti che susciti, oggi, The Summit?
Voglia di continuare a lottare per difendere i propri diritti e voglia di cercare la verità, sempre.
Il silenzio sul G8 ha lasciato dei grandi sospesi nella nostra storia di italiani, come soggetti civili e politici. A Genova si sono scontrate due visioni del mondo. L’una ha prevalso sull’altra. Il movimento è stato spezzato e sconfitto. E credo che una parte di quel movimento non abbia ancora fatto i conti con quella storia.
Sapere che cosa è successo, quali sono state almeno alcune delle cause di quella sconfitta, può aiutare a trovare un modo alternativo per non cadere nelle stesse trappole di allora.
E ogni volta che si riaccende il dibattito su quelle pagine dolorose da una parte e orgogliose per altri versi, è un modo per continuare a riflettere sui meccanismi che sottendono le scelte politiche che tutti noi subiamo ogni giorno.
Senti: a che punto è il mercato dei documentari, dopo la sbornia post Michael Moore?
C’è molta fame di documentari. Ma i meccanismi del mercato non aiutano a renderli agevoli al grande pubblico. La tivù — che è ancora il mezzo privilegiato per veicolare messaggi — è orientata su altri sbocchi di intrattenimento e non aiuta ad affinare un gusto e un’esigenza che naturalmente tutti noi abbiamo: quello di capire e conoscere che cosa ci succede intorno. Se non si investe, non si sviluppano nemmeno le competenze, e la qualità del lavoro ne risente.
Le politiche culturali in questo possono fare molto.
Su cosa stai lavorando adesso?
Ho appena terminato le riprese di Roma Kaput Mundi, scritto insieme a Franco Fracassi e Gianluca Curti. Il film racconta lo sviluppo di Roma — in particolare quello urbanistico — degli ultimi quarant’anni, di come in pochi si siano spartiti una torta gigantesca, lasciando a digiuno i molti cittadini, mortificando la vocazione culturale di una più belle capitali del mondo.
E infine una lunga indagine su una delle più potenti organizzazioni cattoliche, l’Opus Dei. Il film racconta la penetrazione della controversa prelatura nel mondo, i suoi molteplici aspetti, che vanno dalla spiritualità alla finanza, fino alla vicinanza con l’estrema destra internazionale.