di Mauro Baldrati
Max Martirio va in gita
Il grosso autobus a tre assi, istoriato con graffiti dal collettivo artistico del Campo di Rieducazione Milano-Ovest 2, correva sull’autostrada, in direzione Bologna. Stavano oltrepassando l’uscita di Reggio Emilia.
Max Martirio osservava con stupore il paesaggio che scorreva alla sua destra. Mancava dal mondo esterno ormai da dodici anni, da quando era stato destinato, per la prima volta, al campo punitivo. Non ricordava quasi nulla, questa era l’unica spiegazione che riusciva a dare a se stesso. Ma forse era solo un tentativo di giustificare il fatto che non riconosceva nulla.
Il traffico era costituito quasi esclusivamente dalle piccole, lente auto elettriche, e da una quantità di autobus di varie dimensioni. Ma era soprattutto lo scenario che lo impressionava. Aveva percorso decine di volte quel tratto di autostrada, quando era il vicedirettore del personale dell’azienda dei trasporti milanese. Riunioni al ministero a Roma, scambi con altre città, convegni. Ricordava campi arati ma anche molti terreni incolti, capannoni, cascine fatiscenti, cantieri infiniti. Ora dominavano i terreni coltivati, i pascoli e i grandi boschi.
I boschi: ma come erano potuti crescere così in fretta? Sembravano foreste secolari. Conosceva la teoria, certo: durante le lezioni al campo si era parlato spesso della massiccia opera di rimboschimento del governo neocomunista rivoluzionario, ma quei pioppeti giganteschi, quelle querce, quegli intrichi di sottobosco selvaggio erano spettacolari. Nei prati pascolavano mandrie di mucche, cavalli, greggi di pecore. Persone si muovevano a cavallo. A cavallo! Sembrava di essere tornati indietro di due o tre secoli. C’erano anche carretti trainati di muli carichi di legna, di fieno, di ortaggi. I docenti spiegavano che non si trattava di un ritorno all’arcaico, ma di un superamento della cosiddetta frenesia produttiva. Si tornava alla terra, ma con tecnologie avanzate di coltivazione.
L’autobus iniziò la manovra di uscita dall’autostrada. Max Martirio lesse il cartello di Modena.
“Bene” disse la docente, la ragazza che conduceva le lezioni di teoria. Max Martirio aveva una specie di passione per lei: la sua tensione, la sua bellezza apparentemente mimetizzata dalla giacca maoista, abbottonata fino al collo, gli catturavano lo sguardo, l’udito, tutto. L’avrebbe ascoltata per giorni, per mesi. Forse, si sorprendeva a pensare Max Martirio, la sua “presa di coscienza” del nuovo ordine, che stava iniziando a considerare sincera, era dovuta anche alle lezioni della “pantera rivoluzionaria”, come la chiamava.
“Ora faremo la sosta di cui vi ho parlato” disse la pantera. “Visiteremo un’azienda di abbigliamento. Vedrete come si lavora, e capirete perché questo settore ci garantisce dei ricavi così sostanziosi.”
L’autobus imboccò lo svincolo. Dopo circa duecento metri entrò nell’ampio piazzale di una fabbrica a forma di cubo, con numerosi edifici contigui di vari colori, blu, rossi, gialli. Era una delle fabbriche più importanti del vecchio sistema, nazionalizzata come tutte le aziende del territorio italiano. Ai proprietari e ai manager era stato offerto di collaborare alla nuova gestione, mettendo a disposizione la loro preziosa esperienza, ma rispettando la Prima Legge della Nuova Costituzione: “Un cittadino della Nuova Repubblica Popolare Italiana non può diventare ricco, intendendo come ricchezza un guadagno superiore al doppio dello stipendio di un operaio-impiegato, o il possesso di una casa o altro edificio oltre a quella in comodato gratuito dove risiede la propria abitazione, o di un terreno agricolo di superficie superiore a 5.000 metri quadrati, o di beni finanziari per un valore superiore a dieci mensilità”. I due proprietari avevano rifiutato, così era stato loro concesso di espatriare, lasciando però tutti i capitali, mobili e immobili, in Italia. Se ne erano andati in America, probabilmente con un “tesoretto” messo da parte nel tempo. Il direttore generale aveva accettato, ma dopo due anni era stato arrestato perché sorpreso a incamerare fondi neri. Nella sua casa, un bilocale al terzo piano di una palazzina di Modena Est, erano stati rinvenuti 130.000 euro in contanti.
I 63 detenuti scesero ordinatamente dall’autobus, sorvegliati dalle 4 guardie che li scortavano. La docente li precedeva mentre si dirigevano verso l’ingresso. Notarono, con sorpresa, una grande limousine nera Mercedes e due berline dello stesso colore coi vetri oscurati. Un autista in divisa fumava una sigaretta.
“Compratori tedeschi” disse la docente, indovinando i loro pensieri. “Arrivano da noi esibendo i loro antiquati e pacchiani mezzi di trasporto.”
Antiquati. Pacchiani.
Max Martirio ricordò in un lampo doloroso la sua Audi 3000 Black Dog, coi sedili in pelle, il cruscotto in radica, silenziosa, leggera come un hovercraft, con un’accelerazione feroce.
Ma subito si riprese.
Era giusto.
Vecchiume.
Dipendenza dal lusso, per il quale ci si indebitava, si soffriva, ci si rovinava la vita.
L’azienda modello della NPRI
Entrarono in ampio androne, illuminato da grandi lucernai posti sul soffitto. In piedi sul pavimento ricoperto da una soffice moquette verde, li attendeva il direttore. Era sui cinquanta, dai modi vivaci. Salutò la docente con una stretta di mano e un piccolo inchino. Anche lui indossava la giacca maoista, ma perfettamente stirata, di un taglio speciale. Sembrava confezionata su misura. Probabile, pensò Max Martirio, visto che dirigeva la più importante azienda di moda italiana. Chissà se era uno dei manager della vecchia gestione.
“Ora il compagno direttore Forlani ci mostrerà il ciclo produttivo” disse la docente.
Si affacciarono in un open space diviso da alcune pareti attrezzate che creavano degli spazi nei quali erano sedute alcune persone intente a cucire. C’erano ragazze, ma anche alcuni uomini in età matura, seduti dietro a piccoli tavoli con giubbotti e pantaloni sui ripiani. Si alzarono rapidamente in piedi e salutarono i visitatori, poi tornarono al lavoro.
“Questo è il reparto ricamo” disse il direttore. “Alcuni capi della nostra produzione, i capi d’élite diciamo, sono tutti ricamati a mano.” Una ragazza stava ricamando un dragone sulla schiena di un giubbotto corto, di colore azzurro elettrico. Usava del filo dorato, rosso, giallo. L’immagine era quasi completata: le zampe del drago si attorcigliavano intorno alle maniche, e le fauci sputavano fiamme vermiglie. Era un giubbotto molto sgargiante, aderente, con bottoni dorati, il colletto rigido. Max Martirio non aveva mai visto nulla di simile. Sembrava il costume di un film di fantascienza.
“Questo è uno dei capi più richiesti sul mercato mondiale” disse il direttore Forlani, senza nascondere la propria soddisfazione. “Abbiamo commesse per anni, dall’America, dall’Inghilterra, dalla Germania, dalla Russia.”
“Compagno direttore” disse la docente, “forse sarebbe interessante spiegare perché è così richiesto.”
Dandy Communist
“Ma certo!” esclamò il direttore. Si fregò le mani e iniziò la sua esposizione, che sembrava conoscere a memoria. “La moda italiana oggi è tornata all’avanguardia mondiale. Abbiamo creato dei gruppi di studio, che abbiamo inviato all’estero, nei paesi consumisti, dove hanno studiato il loro marketing, i loro media. In poco tempo sono riusciti a creare dei marchi particolarmente glitter, come si dice in gergo. Oggi il Made in the New Popular Republic of Italy è particolarmente ambito. E molto ben pagato, che è l’aspetto che ci interessa. Questo è il nostro marchio, che fa impazzire gli americani, gli inglesi, i russi, i tedeschi.”
Accese un monitor gigante che si trovava alle spalle dei lavoranti, e con un telecomando fece apparire un simbolo rotondo che sbalordì Max Martirio: una falce e martello rossa dentro a un cerchio di fiori multicolori, su sfondo bianco. In basso, una scritta formata da fiori intrecciati: Dandy Communist.
“Questo logo è particolarmente ambito” disse il direttore. “ I nostri capi sono indossati da rampolli di famiglie nobili o alto borghesi, attrici, dirigenti d’industria. E’ curioso” soggiunse il direttore Forlani, mentre la docente, a testa bassa, annuiva impercettibilmente, “quei paesi ci spazzerebbero via in un batter d’occhio. Inondano le loro televisioni di falsità, ci dipingono come comunisti totalitari, come terroristi, eppure i loro cittadini impazziscono per la nostra griffe.” Spense il monitor, esaminò il lavoro di ricamo del giubbotto, scambiò alcune battute con la ragazza e tornò a rivolgersi ai detenuti. “Questi capi sono molto preziosi per il nostro bilancio.”
“Vuole dirci quanto costano compagno direttore? Ai clienti e a noi?” intervenne la docente.
“Ma certo. Un giubbotto come questo viene venduto alle migliori boutiques di New York, Los Angeles, Mosca, Londra, Monaco, a 2.100 euro. A noi, in totale, considerando gli stipendi del personale, il materiale, l’ammortamento delle macchine, e il trasporto, costa 92,33 euro. Per cui abbiamo un guadagno netto di oltre 2.000 euro a pezzo. In un anno ne produciamo 800 esemplari, per un ricavo netto di circa un milione e seicentomila euro. Solo dai giubbotti. Poi ci sono i pantaloni, le camicie, le felpe ecc. Capite quanto viene reinvestito nel nostro servizio pubblico?”
Capisco, pensò Max Martirio.
Capisco, ma c’è qualcosa che non mi convince.
Qualcosa che gira sbagliato.
Somebody to love
Ne parlò con la docente, in autobus. Stavano oltrepassando lo snodo di Bologna. Anche qui il paesaggio era stravolto: boschi al posto dei palazzi che un tempo sembravano rinchiudere l’autostrada come muraglie fortificate. Estesi frutteti, impianti fotovoltaici a castello ai lati della carreggiata.
Raggiunse la ragazza sul sedile anteriore, dove sedeva da sola, intenta a leggere da un visore elettronico.
“Scusa compagna, posso parlarti un attimo?”
Occhi neri si puntarono su di lui.
“Certo, Martirio. Che c’è?”
“Ecco, compagna… la visita alla fabbrica tessile… c’è qualcosa che non mi torna.”
La docente parlò dopo una pausa.
“Davvero? Perché non l’hai detto quando c’era anche il direttore? Sai che avete totale libertà di parola e di critica.”
“Certo, è che… la domanda non mi è venuta. L’ho dovuta… metabolizzare.”
“Capisco. Dimmi allora. Ti ascolto.”
“Posso sedermi?”
Posso sedermi accanto a te?
La ragazza annuì.
Max Martirio si sedette. Avrebbe voluto aderire al corpo slanciato della pantera, ma valutò che sarebbe stato eccessivo. Ma si avvicinò ancora di qualche centimetro.
“Se noi vendiamo i nostri manufatti a prezzi così elevati, sfruttando la propensione dei capitalisti ad avere un’élite che esibisce il proprio privilegio davanti a una massa impoverita, desiderante e invidiosa, ecco… non siamo al loro livello? Non siamo forse come loro? Uguali a loro?”
La docente lo fissò, seria, prima di rispondere.
“Una domanda interessante, Martirio. Ti invito a riformularla al campo, durante le lezioni.”
Max Martirio restò immobile, col fiato sospeso. Era già tutto finito? Ora doveva tornare al suo posto? Non si era mia trovato così vicino alla docente. Gli sembrava di sentire il calore del suo corpo.
“Tuttavia” disse la ragazza, “la tua domanda è così stimolante che cercherò di rispondere, con l’impegno però di riprendere la questione in gruppo. D’accordo?”
Max Martirio, annuì. Intanto si sistemò e guadagnò altri centimetri.
“Noi non siamo isolazionisti. Né autarchici. Non lo siamo e non possiamo esserlo. Abbiamo una delle industrie manifatturiere più avanzate del mondo. Ma siamo carenti di materie prime. Dobbiamo comprarle dall’estero. Inoltre siamo costretti a stare dentro la finanza internazionale, per potere commerciare. E quindi ci dobbiamo adeguare al loro strozzinaggio. Poi stiamo ancora risanando i disastrosi danni ambientali che i regimi precedenti hanno causato al paese: inquinamento, enormi cantieri inutili, dissesto idrogeologico, deforestazione selvaggia. Infine c’è il problema del debito. Ne abbiamo discusso a lungo nei gruppi, ricordi?”
Max Martirio annuì. Il debito era stato oggetto di interminabili analisi.
“I governi precedenti hanno totalizzato un debito di oltre tremila miliardi di euro. Come sapete, dopo lunghe discussioni, abbiamo deciso di non azzerarlo del tutto. L’abbiamo fatto per non arrivare a uno scontro totale, anche se non riconosciamo le politiche di quei governi. Abbiamo solo azzerato gli interessi, e ridotto il debito della metà. Gli angloamericani e i tedeschi ci hanno pesantemente minacciato, ma hanno dovuto ingoiare il rospo, per il motivo che sapete.”
L’arma segreta, certo. Era il motivo di quella gita.
“Ora stiamo pagando venti miliardi all’anno, che contiamo di portare a cinquanta entro cinque anni. Capisci perché abbiamo bisogno di incamerare capitali?”
Max Martirio capiva.
Max Martirio sapeva.
Capiva e sapeva fin dalle prime parole della compagna docente.
“D’accordo Martirio?”
Il che significava: perché ti trattieni ancora? Senza parlare?
Cosa vuoi da me, Martirio?
Voglio starti vicino.
Voglio annusare l’odore della tua pelle.
Perché ho solo bisogno di qualcuno da amare.
“Grazie, compagna” disse, è tornò al suo posto, vicino al finestrino.
Il suo vicino gli passò una pipetta di ganja nepalese, che qualcuno aveva acceso col permesso della pantera. Tirò un paio di boccate, distrattamente.
Sì, pensò, mentre guardava il paesaggio. Intanto l’autobus iniziava la lunga salita che portava a Marradi, sull’Appennino.
Sì. La vita è un martirio.
Boschi selvaggi sembravano volere ingoiare la strada. Grandi schienali delle colline erano coltivati a grano, frutteti, che si alternavano con enormi distese di cannabis.
Ma ce la farò.
(continua…)
[Nella foto: il Merry Prankster Bus di Ken Kesey, guidato da Neal Cassady nel 1964]