di Sandro Moiso
Le due foto, che i lettori possono osservare qui a sinistra, appartengono alla storia dell’alpinismo.
Nella prima a sinistra si può vedere l’alpinista austriaco Hermann Buhl, fotografato dal suo compagno di cordata Kurt Diemberger, durante la salita al Chogolisa (7665 m s.l.m.) nel 1957, nella regione pakistana del Karakoram. Nella foto di destra, nota anche come “l’ultimo passo di Hermann Buhl”, si vede invece la traccia lasciata nella neve, sulla stessa cresta precedentemente percorsa, dallo scalatore austriaco durante la discesa, dal colle dove aveva pernottato con il compagno a 6706 metri d’altezza, senza essere riusciti a raggiungere la cima a causa delle avverse condizioni atmosferiche.
Anche in questo caso fu Diemberger a scattare la foto quando, col calmarsi della bufera che lo circondava, si accorse della scomparsa del compagno che lo seguiva, precipitato e mai più ritrovato, a causa di un cedimento della cornice nevosa poche decine di centimetri più a sinistra del percorso da lui seguito.
Ma perché rinvangare oggi la drammatica fine di uno dei giganti dell’alpinismo novecentesco?
Perché oggi, chi voglia guardarsi intorno con un minimo di attenzione, può accorgersi, come Kurt Diemberger, che alle sue spalle e tutt’intorno a lui la realtà del capitale e dei suoi feticci è scomparsa. Sparita in un baratro, sprofondata nel nulla. Nonostante gli sforzi della politica e dei mass media per continuare a tenerla in vita attraverso una rappresentazione sempre più imbarazzante.
La crisi economica, finanziaria, sociale e politica del capitalismo attuale sta portando via con sé tutte le illusorie promesse di un modo di produzione basato sull’appropriazione privata della produzione sociale e i miti più antichi che hanno continuato a sopravvivere al suo interno.
Merce, proprietà privata, lavoro salariato, denaro, stato, parlamentarismo languono ormai al limite delle proprie forze insieme a Dio, patria e famiglia .
La crisi ha determinato un rapido abbassamento dei consumi e, mentre mandrie di bufali impoveriti si aggirano tra le vetrine degli shopping center come zombi in un film di Romero, la merce muore sugli scaffali o negli autoconcessionari nella solitudine del mancato acquisto.
Il mito della proprietà privata, anche quella piccola della casetta acquistata con un mutuo a vita, affonda con gli espropri delle prime case e gli sfratti di chi pensava di aver qualcosa da lasciare ai figli. Senza nemmeno poter lasciar loro un posto di lavoro, occupato anch’esso a vita da anziani non più pensionabili.
Il denaro è semplicemente scomparso: non solo dalle tasche dei lavoratori e dei normali cittadini, ma anche dalle casse delle banche e degli stati. Così mentre virtualmente si parla di cifre impronunciabili per il numero di zeri che le accompagna, manca la liquidità per qualsiasi spesa.
Lo stato è diventato una sorta di ente privato le cui funzioni, però, non garantiscono più alcuna autonomia politica alla sua economia e alcun diritto ai propri cittadini. Come nelle previsioni di Karl Marx si è estinto quasi in tutto se non per le più odiose funzioni repressive.
Il parlamentarismo può mostrare soltanto il suo lato più scomposto e disgustoso, quello dell’asservimento totale alla dittatura del capitale e del “si salvi chi può” portato avanti a colpi di promesse impossibili e fasulle e del ladrocinio individuale. Mentre l’idea di patria affonda, più che mai, tra le frasi retoriche sul riportare a casa i soldati assassini e le mazzette pagate e ricevute per vendere armi ed elicotteri agli stessi stati con cui si finge di essere in conflitto.
La famiglia non sta meglio: rimasta priva di qualsiasi funzione produttiva, chiusa nell’ideale borghese della rispettabilità e dell’autorità, ma condannata a perire per le sue contraddizioni interne e per gli stimoli sempre più prepotenti provenienti dall’esterno di carattere economico, sessuale, sociale e pubblicitario. Resta di essa una sorta di caricatura, in cui la figura maschile continua a recitare una parte che la storia gli ha già negato. Un luogo deputato alla violenza domestica e, troppo spesso, al femminicidio.
Tutti si appellano ai suoi valori, specialmente in un paese bigotto come il nostro, quando è ormai evidente che la funzione educativa e di crescita degli individui può soltanto essere un compito svolto dalla società nel suo insieme. E pensare che lo aveva già capito Saint Just, nei frammenti che ci sono rimasti delle sue “Istituzioni Repubblicane”, durante gli ultimi mesi del governo giacobino, tra l’aprile e il luglio del 1794!
Povera coppia! Esaltata da storie d’amore sempre più lacrimevoli: tra giovani imbecilli e sensuali come bambole gonfiabili, talvolta vivi e talvolta morti oppure diversamente vivi. Da “Twilight” a “Warm Bodies” anche le figure dell’immaginario, un tempo, più trasgressivo vengono oggi ridotte a supporter della sopravvivenza di un’istituzione morta e sepolta.
Insieme all’ingrigimento delle colorate drag queen di un tempo ridotte a semplici ancelle del matrimonio gay, magari celebrato davanti ad un altare!
Trasformando il diritto al riconoscimento di ogni diversità in un puro processo di normalizzazione ed integrazione nel più squallido degli esistenti.
La stessa differenza che corre, insomma, tra il rock delle New York Dolls e un disco del baronetto Elton John.
L’altare, già, proprio quello. L’ultimo dei feticci chiamato ad inabissarsi!
Sprofondano insieme Dio e la sua chiesa, travolti dagli scandali d’oltre Atlantico, dalle lotte intestine per il potere e dai debiti della banca dello Ior, ma i media si sforzano tutti, da sinistra a destra, di convincere il pubblico della santità e del coraggio del papa uscente.
Un autentico modello… sì, per Armani &Co. I cui compiti più importanti sembrano essere rimasti soltanto quelli di nominare il Cavaliere di Malta, e produttore di navi da guerra, Ernst Von Freyberg quale nuovo direttore dell’Istituto delle Opere Religiose e risolvere il problema dell’uso dei bancomat vaticani prima del Conclave.
Così, paradossalmente, lo sterco del demonio, troppo a lungo maneggiato da mani che si credevano sante, si è ripreso la sua rivincita su chi lo condannava nel Medio Evo.
La foto quindi potrebbe ricordare anche l’ultimo passo di Benedetto XVI, se l’accostamento non rischiasse di apparire come un insulto alla memoria di un grande scalatore.
Compensato, però, dal fatto che tra qualche anno nessuno si ricorderà del raffinato teologo, autore di “L’infanzia di Gesù”, mentre intorno ai fuochi dei bivacchi del futuro si narreranno ancora le imprese di un uomo che, in tempi in cui non esisteva quasi alcun tipo di sponsorizzazione, salì, in solitaria e in sole quattro ore, la parete Nord-Est del Pizzo Badile, dopo aver percorso 170 chilometri in bicicletta, e che, dopo aver raggiunto per primo e senza ossigeno la cima del Nanga Parbat (8125 m s.l.m.), passò la notte in parete, in piedi e senza sacco da bivacco, a 8000 metri d’altezza. Tornando al campo base sano e salvo, ma con due dita dei piedi da amputare.
Dell’altro e di quelli che verranno resteranno soltanto pallidi fantasmi destinati ad aggirarsi per le stanze vaticane, come in una casa maledetta degna di American Horror Story, ma con ancor minore credibilità. Eppure, in attesa che il più desiderato dei fantasmi torni ad aggirarsi per l’Europa e per il mondo, nonostante gli sforzi del centro-destra e di tutto ciò che ancora oggi si presenta come sinistra parlamentare di mantenere in piedi quello che resta di un autentico padiglione degli orrori, si può iniziare a pensare, sul filo delle parole di Michael Stipe, che:”E’ la fine del mondo così come l’abbiamo conosciuto…e mi sento bene!”