di Antonino Fazio
Nel corso del lavoro di documentazione legato alla stesura di un romanzo nel quale metto in scena un’improbabile ma suggestiva connessione tra E.A. Poe e i delitti dello Squartatore, mi sono imbattuto in un testo di Paul Begg del 2004, Jack the Ripper: the definitive history, pubblicato nel 2006 da UTET col titolo Jack lo Squartatore: la vera storia. Nel libro l’autore si pone la domanda sul perché la vicenda del Ripper eserciti ancora un così grande fascino. Egli esclude che si tratti dell’attrazione per i misteri insoluti o della pura e semplice brutalità dei delitti, e osserva che la vera popolarità dello Squartatore nasce, in epoca moderna, attorno al 1960 (pag. IX).
Il punto di partenza viene fatto risalire a un giornalista televisivo britannico, Daniel Farson, che in una trasmissione del 1959 parlò di un memorandum scritto da Sir Melville Macnaghten, Vice Commissario Capo del Dipartimento Investigativo di Scotland Yard all’epoca dello Squartatore. In questo memorandum, che era in possesso della figlia minore di Macnaghten, Lady Aberconway, il funzionario citava il nome di tre uomini, sospettati di essere il Ripper, indicando in uno di essi il suo sospetto numero uno. Fu Tom Cullen a rivelare, nel 1965, che il nome del sospettato era Montague John Druitt.
Farson tornò a occuparsi del Ripper nel 1972, ma intanto il dottor Thomas Eldon Stowell, in un articolo del 1970, aveva dichiarato di aver trovato alcuni documenti scritti da Sir William Gull, e in possesso della figlia Caroline Acland, nei quali il medico di corte affermava che lo Squartatore fosse il principe Albert Victor, nipote della regina Vittoria. La tesi, già presente in forma più vaga in un libro del 1962 scritto dal francese Philippe Jullian, si basava su voci che attribuivano al principe una sindrome da sifilide, conseguenza della sua vita dissoluta. Una notizia circolata su di lui era che nel 1889 fosse stato pescato, insieme ad altri gentiluomini, in un bordello per omosessuali, a quanto pare dallo stesso ispettore Abberline che aveva indagato sui delitti del Ripper appena un anno prima.
Nel 1973, sempre in televisione, Joseph Sickert, figlio del pittore Walter Sickert, raccontò che il principe si fosse segretamente sposato con una commessa, Annie Crook. Tra le persone presenti alla cerimonia ci sarebbero state Mary Kelly e altre quattro donne, tutte destinate a essere vittime dello Squartatore. Il movente essendo il ricatto, l’esecutore materiale dei delitti sarebbe stato lo stesso William Gull, su incarico del primo ministro Lord Salisbury, e con la complicità del cocchiere John Netley e del Vice Commissario Capo Sir Robert Anderson.
La storia venne ripresa da altri autori, tra cui Stephen Knight, Frank Spiering, Melvyn Fairclough, e Jean Overton Fuller. Nel libro di Knight del 1976, Jack the Ripper: the final solution, come complice di William Gull viene indicato Walter Sickert anziché Anderson, mentre Fairclough in The Ripper and the Royals (1991) lo individua in Lord Randolph Churchill.
Jean Overton Fuller, in Sickert and the Ripper crimes (1990), racconta una storia che sua madre Violet aveva saputo da Florence Pash, amica di Walter Sickert. Secondo questo racconto, Walter Sickert avrebbe avuto un figlio illegittimo, di cui Mary Kelly si era occupata per qualche tempo come baby-sitter, per poi ricattarlo insieme a un gruppetto di amiche. L’omicida di Whitechapel sarebbe dunque stato lo stesso Sickert, tesi ripresa da Patricia Cornwell nel 2002, in Jack the Ripper: portrait of a killer. Case closed.
Nel film dei fratelli Hughes From Hell (2001), tratto dal fumetto di Eddie Campbell e Alan Moore, viene ripresa la tesi di Sickert, con la variante che al posto di Mary Kelly fosse stata uccisa un’altra ragazza, di nome Ada. L’unico supporto per questa tesi sarebbe il fatto che la vittima era sfigurata, e che un paio di testimoni affermarono di aver visto Mary Kelly davanti al Pub Britannia la mattina successiva all’omicidio. Per il resto il film si discosta parecchio dalla verità storica, a cominciare da come presenta la figura di Frederick Abberline, interpretato da Johnny Depp, che viene raffigurato come un oppiomane dotato di poteri medianici, e fatto morire alla fine per overdose. In realtà l’ispettore si ritirò dal servizio nel 1892, e si trasferì a Montecarlo, dove assunse l’incarico di direttore della filiale europea della famosa agenzia investigativa Pinkerton. Molto più nella parte il Michael Caine del film televisivo di David Wickes, Jack the Ripper (1988), anch’esso ispirato alla tesi della “cospirazione reale”, ma per il resto girato con una certa precisione storica.
Dal precedente riassunto emerge una constatazione interessante, vale a dire che l’immaginario collettivo si è nutrito di una ricostruzione piuttosto intrigante che, pur non essendo in definitiva supportata dai fatti, ha dato l’impressione di essere plausibile. Ma, possiamo chiederci, è la sua plausibilità ad aver colpito, o piuttosto la sua natura di fiction?
Lasciamo per il momento in sospeso la domanda, e torniamo alle tesi enunciate da Begg. La sua risposta al quesito iniziale è «che se Jack lo Squartatore avesse colpito altrove o in qualche altro periodo oggi sarebbe solo una nota a piè di pagina nella storia del crimine» (pag. 6). Questa affermazione sembra togliere importanza agli altri fattori, ivi compresa quella che oggi sarebbe chiamata la risonanza mediatica, cioè il grande risalto che la vicenda ebbe sui giornali dell’epoca. O, per meglio dire, la risonanza viene attribuita non tanto ai delitti in sé, quanto al luogo e al momento storico.
Dico subito che questa tesi non mi convince del tutto. Io non credo che, se lo Squartatore avesse colpito altrove le cose sarebbero andate molto diversamente. La lettera di G.B. Shaw, pubblicata dallo Star il 24 settembre 1888 (e citata da Begg a pagina 4), sottolinea in tono sarcastico il fatto che i delitti abbiano attirato l’attenzione sull’East End e sui suoi problemi irrisolti, ma non dimostra che sia stato il quartiere di Whitechapel a rendere famoso l’omicida, semmai il contrario.
Volendo dunque dare una risposta al quesito posto da Begg, dobbiamo piuttosto puntare proprio sui fattori che lui considera secondari, vale a dire l’efferatezza dei delitti, il sensazionalismo dei giornali, l’imprendibilità dell’assassino, e l’interpolazione di elementi di natura “narrativa”, di certo presenti dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso, ma già all’opera nella cronaca giornaliera sui delitti.
Partiamo dall’efferatezza, esclusa in modo esplicito da Begg nell’introduzione (pag. IX), con l’argomento che la brutalità del Ripper è stata superata da omicidi avvenuti in epoca successiva. Tale argomento non centra il punto, secondo me, perché è evidente che lo Squartatore ha tratto la sua notorietà dal fatto di essere stato il primo a superare una certa soglia di sensibilità, in un luogo e in un periodo che era abituato a delitti gratuiti e feroci di prostitute.
Basterà ricordare che le cinque vittime “canoniche” di Jack furono precedute (e anche seguite) da altre vittime, la cui notorietà, per ammissione dello stesso Begg (pag. 30), è dovuta al fatto di aver funzionato da prologo per la serie dei delitti successivi. Questi omicidi furono piuttosto crudeli nella loro esecuzione. Emma Smith morì il 4 aprile, poche ore dopo essere stata picchiata selvaggiamente e violentata con un bastone, mentre Martha Tabram morì il 6 agosto, dopo aver ricevuto ben 39 coltellate.
L’East End era dunque abituato alla violenza, e ci voleva uno come il Ripper per suscitare un qualche tipo di reazione nella sensibilità intorpidita del quartiere di Whitechapel. Questo punto è cruciale, e verrà ripreso. Per quanto riguarda invece gli altri elementi, essi sono tutti legati a una trasformazione avvenuta nei mezzi di informazione dell’epoca, cioè i giornali. Proprio a ridosso del 1888 infatti, nacque in Inghilterra un nuovo tipo di giornalismo, destinato a soppiantare la vecchia modalità vittoriana di dare le notizie.
Questo giornalismo moderno era il frutto di una combinazione che comprendeva il giornalismo investigativo, la creazione delle notizie, il sensazionalismo, un linguaggio vivace e immaginifico, più una impostazione tipografica fatta per attirare l’occhio. In altre parole il giornalismo come lo conosciamo oggi. Begg ne descrive con precisione le caratteristiche (pagg. 194, 195) e ammette esplicitamente che la leggenda del Ripper fu dovuta quasi interamente a questo nuovo modo di fare cronaca (pag. 193). Aggiunge che Jack offrì ai giornali proprio quello che i giornali andavano cercando: il sensazionalismo (pag. 195).
Ecco dunque che l’apparente sottovalutazione dell’aspetto mediatico si rivela, per l’appunto, solo apparente. Malgrado la tesi puramente “sociologica” avanzata nell’introduzione, l’esame di Begg finisce, com’era inevitabile, per concentrarsi su elementi di natura un po’ diversa. Viene perciò detto chiaramente che un elemento fondamentale fu il nomignolo “Jack lo Squartatore”, un «soprannome agghiacciante» che «conferì all’ignoto assassino l’immortalità come uno dei più grandi cattivi della realtà e della fantasia» (pag. 202, corsivo mio).
Com’è noto, il soprannome comparve in calce a una lettera ricevuta il 27 settembre 1888 dall’agenzia di stampa Central News, che la ritenne una bufala ma la trasmise comunque a Scotland Yard in data 29. Il primo ottobre l’agenzia ricevette una cartolina, sempre a firma Jack the Ripper, in cui si faceva riferimento a un doppio delitto.
A mio avviso, il fatto che nella notte del 29 settembre fossero effettivamente state uccise due donne, Elizabeth Stride e Catherine Eddowes, fornisce in qualche modo ai due documenti un’aura sinistra di autenticità. Sappiamo tuttavia che la polizia non credeva che lettera e cartolina fossero davvero dell’assassino. Non ci credeva di certo il Commissario Capo Charles Warren, e il Vice Commissario Anderson sosteneva addirittura di conoscere il nome del falsario.
Ma, se anche le lettere fossero state false, rimane il fatto sottolineato da Begg che il soprannome creò il personaggio. Se ne ricava la conclusione che l’ingresso nell’immaginario collettivo passa attraverso la creazione di elementi narrativi, per cui alla fine non è rilevante che il personaggio sia reale o inventato. Possiamo allora porci la questione se la fama conquistata dal Ripper dipenda da motivi analoghi a quelli che producono la fortuna di un personaggio letterario, come ad esempio il Vampiro creato da Bram Stoker.
La mia opinione è che la fama di Dracula e quella dello Squartatore poggino in effetti sugli stessi elementi: le caratteristiche del personaggio, e il modo in cui il personaggio viene raccontato. Per quanto riguarda gli aspetti relativi alla fiction, è interessante notare che la plausibilità storica di ciò che viene raccontato riveste una certa importanza. Questo è del tutto evidente nelle ricostruzioni che sono state fatte sull’identità dello Squartatore, ma è rilevabile anche per quanto riguarda il Dracula letterario e la nuova ondata di successo garantitagli dall’essere stato identificato con il personaggio storico del principe valacco Vlad III, detto Tepes, l’Impalatore, a partire da un saggio del 1972 di Raymond T. McNally e Radu Florescu, titolato in Italia Alla ricerca di Dracula, e pubblicato da Sugar nel 1973.
Chiarisco subito che il termine “plausibilità” va qui inteso nel senso di una verosimiglianza narrativa, e non nel senso scientifico del termine. Come abbiamo visto nel caso del Ripper, la teoria della cospirazione reale possiede una plausibilità puramente narrativa. Quanto al Dracula storico, è stato ormai dimostrato che Bram Stoker scoprì per caso, nel 1890, la figura del principe valacco, ma solo alcuni mesi dopo aver ideato la figura del suo vampiro.
La plausibilità dell’identificazione tra il personaggio storico e il personaggio letterario è dunque più narrativa che reale. Il collegamento tuttavia è stato importante per la notorietà conquistata dal Dracula letterario. Come affermato, «gli eroi dell’immaginario popolare si muovono sempre su più piani — visto che accedono alla sfera del mito».
In ogni caso non possiamo negare che fra il conte Dracula, il principe Tepes e Jack lo Squartatore esista una particolare affinità, quella che possiamo chiamare in termini clinici libido sanguinis, cioè l’attrazione per il sangue. Una precisazione importante è che il gusto del sangue non va confuso con il sadismo, che pure può coesistere con esso. Dei tre personaggi considerati, il più crudele è proprio il personaggio storico del principe. Lo stesso Ripper, per quanto l’affermazione possa sembrare strana, era molto sanguinario ma non particolarmente crudele. Per rendersene conto è sufficiente ricordare che tutte le mutilazioni inflitte alle vittime (nessuna delle quali venne stuprata) furono praticate dopo la morte, una morte molto rapida avvenuta per sgozzamento.
Questa circostanza, che viene solitamente ignorata, è qui messa in luce per un motivo preciso, che si chiarirà tra poco. Aggiungo che in un famoso romanzo di Robert Bloch, Night of the Ripper (1984), pubblicato da Bompiani nel 2002 col titolo Jack lo Squartatore, si ricostruisce l’intera vicenda proprio a partire dall’estrema crudeltà del killer, una caratteristica che può apparire scontata, ma appartiene quasi interamente al mito del Ripper. Come ricorda Begg, nel giro di poco tempo «Jack lo Squartatore subì una singolare trasformazione da assassino in carne e ossa a spauracchio degli incubi» (pag. X).
Nella spiegazione del fascino esercitato da personaggi sanguinari reali o inventati, come Jack lo Squartatore e Dracula il Vampiro, non possiamo evitare di supporre che l’attrazione derivi da un complementare e diffuso gusto del sangue presente nelle persone comuni e dunque nell’immaginario collettivo. D’altra parte tra il gusto del sangue letterale e letterario di Dracula, la libido sanguinis del Ripper, e il gusto del sangue solo metaforico dell’uomo comune esistono notevoli differenze.
La diversità principale tra l’autore di un delitto efferato e il pubblico che ne segue morbosamente la cronaca consiste nel fatto che, per l’uomo della strada, il gusto del sangue si traduce nel piacere di sentir raccontare una vicenda, vera o inventata, che ruoti attorno a uno o più delitti. In altre parole, nella dimensione dell’immaginario collettivo la realtà non entra mai in modo diretto, ma solo per il tramite della fiction. Già all’epoca dei delitti nel quartiere di Whitechapel, i fatti di sangue venivano tradotti in scene dipinte e in statue di cera.
Non sono dunque la morte, il sangue e le uccisioni in quanto tali, ma la loro rappresentazione ad affascinare il pubblico, e non a caso ho usato questa parola: “pubblico”, perché si tratta non degli attori ma degli spettatori, non di chi partecipa ma di chi assiste. Anche l’esser presenti a una esecuzione capitale era nel passato un’occasione per soddisfare questo gusto del sangue nella morte come spettacolo, un gusto che poteva essere soddisfatto solo a patto di non essere direttamente coinvolti. In questo senso, immaginare il Ripper che infierisce in modo feroce sulle vittime ancora vive ha di certo una maggiore potenza drammatica che pensare a uno scempio assolutamente inimmaginabile, ma perpetrato post mortem.
Il concetto di inimmaginabile indica precisamente il fatto che una certa soglia è stata superata. Proprio questo è accaduto nel caso del Ripper, a causa del trattamento cui il killer sottoponeva il corpo delle vittime. La circostanza che i corpi fossero ancora caldi lasciò in secondo piano un aspetto per nulla secondario, ovvero il fatto che le mutilazioni vennero inflitte a dei cadaveri. Del resto, il corpo umano morto è comunque immediatamente inserito nella sfera del sacro, per cui il trattamento praticato dallo Squartatore rientrava nell’ambito della profanazione.
Questa considerazione non è secondaria, se si pensa che una folla straordinaria seguiva i funerali delle vittime, con una partecipazione emotiva che nessuna di loro avrebbe mai ottenuto mentre era ancora in vita. Da morte invece quelle donne che erano scivolate nel punto più basso della scala sociale avevano oltre tutto assunto il ruolo di vittime sacrificali, ed erano inoltre diventate, loro malgrado, i personaggi di una saga popolare.
L’indifferenza tra la storia di Dracula, raccontata in un romanzo, e la vicenda reale dello Squartatore, raccontata dai giornali, sta tutta in questa dimensione narrativa, che sfuma e quasi annulla la distinzione tra vero e inventato. Così, nell’immaginario collettivo, il Ripper e il Vampiro coesistono in una stessa dimensione, quella del mito, e la loro sagoma in controluce suscita negli anni duemila gli stessi brividi eccitati e lo stesso fascino pauroso che suscitava negli uomini e nelle donne del diciannovesimo secolo.