di Mauro Baldrati
Zero Dark Thirty è un film spietato. Lo è anche nei confronti degli spettatori, che per quasi due ore devono impegnarsi per seguire le indagini martellanti, le sequenze di nomi arabi che appaiono e scompaiono, militanti e dirigenti di Al Qaeda dei quali si dubita persino dell’esistenza. Dopo l’11 settembre gli agenti CIA sguinzagliati per il mondo li cercano, nei filmati dei satelliti, nei files dei computer, nei tabulati telefonici, negli interrogatori dei detenuti nelle prigioni segrete. E’ una ricerca continua, implacabile, con scarsi esiti. Quasi un’ossessione per Maya, la ragazza che funge da personaggio narrante. Se ci si chiede – e in molti se lo chiedono – a quale governo si fa riferimento, a quale parte politica, la domanda è oziosa. I governi cambiano, la storia pure, ma la ricerca va avanti, e non ci si ferma davanti a nulla. Anche alla tortura. Benché le immagini siano tutto sommato più soft di quelle emerse dagli inferni di Guantanamo e Abu Ghraib, non si fanno sconti. Questo aspetto ha scatenato polemiche, perché Kathryn Bigelow di fatto giustificherebbe la tortura.
E’ vero. Ma è vero anche il contrario. Non si giustifica, né si scusa, né si fa apologia della tortura in Zero Dark Thirty. E neanche la si critica. Sbaglia chi cerca di “assolvere” la regista. C’è una guerra, estrema, feroce, non ci sono mezze misure. Il film procede con gli archetipi classici del genere thriller-spy story, al quale appartiene a pieno titolo. I nemici sono decisi a tutto, stragisti, esseri mimetizzati, senza personalità, abbastanza disumani. “E’ giusto fermarsi di fronte all’interrogatorio di un criminale che sta per far saltare una bomba in un mercato?” ci si chiede talvolta nei romanzi di spy story, dove agenti segreti con mille problemi, eternamente sotto minaccia mortale, stanno per torturare un terrorista-stupratore-trafficante di droga. Nel film non se lo chiedono. E’ scontato. E’ nelle cose. E’ nella storia. Quando alla televisione appare Obama che spiega come il suo governo sia contrario alla tortura, Maya e i suoi pard guardano distrattamente il video, poi parlano d’altro. Hanno cose più importanti da fare: tracce da seguire, movimenti da verificare.
E’ sincero Obama?
E’ solo politica?
E gli agenti sono pro-Obama?
O contro?
Altre domande che non hanno risposta. Perché Zero Dark Thirty non è pro né contro. Sembra che non ci sia un inizio, né un futuro. Solo presente. E il presente è l’uccisione dei capi di Al Qaeda. “Datemi dei dirigenti da ammazzare” dice un agente CIA durante una delle riunioni operative, composte da tipi trucidi, che non sorridono mai, agenti abbastanza stereotipati, yuppies coi capelli corti (con una straordinaria incursione di James Gandolfini-Tony Soprano nei panni del capo supremo), ma corrucciati, oppressi dal fallimento e dall’impotenza. Maya è una di loro. E’ un vero personaggio da spy story vecchio stile: niente effetti personali, niente sfaccettature sentimentali, nessun rapporto, neanche un bacio, uno sguardo di desiderio, niente. Non si ride nel suo mondo, non c’è vero calore umano. Se questo accade, per esempio in un albergo del Pakistan, dove Maya e una collega-amica cenano insieme, e stanno per scambiarsi delle confidenze, esplode un ordigno devastante che per un soffio non le disintegra.
Maya è dalla parte “giusta”, cioè l’Occidente, l’America, ma lo è per nascita. Lo è perché appartiene a quella struttura, non per ideologia o per credo religioso. L’impianto di Zero Dark Thirty potrebbe tranquillamente invertirsi, passare dall’altra parte. Ecco i terroristi islamici decisi a tutto pur di distruggere la potenza imperialista che ha fabbricato prove false in Iraq, per riconquistare il dominio del mercato petrolifero. Il film potrebbe procedere con uguale intensità e cadenza, cambiando solo le facce, gli ambienti, le motivazioni.
Zero Dark Thirty è anche un film reticente. Ma a questo siamo abituati quando si tratta di cinema americano. La caccia ai capi di Al Qaeda, che porterà direttamente a Bin Laden, è fine a se stessa. E’ iniziata, da qualche parte, ma non si sa dove né come. E la politica è assente. Lo spettatore cinico italiano, abituato a pensare male, sa che quando avviene la cattura di un supercapo (nel nostro caso della mafia), ciò accade perché quel supercapo era ormai al tramonto, vecchio, finito. Accade perché c’è un ricambio, perché è obsoleto, inutile e dannoso. Poi lo Stato usa l’evento per rastrellare consensi, ma sono semplicemente cambiati i referenti, e gli interessi. E i nuovi capi sono liberi, ammanicati coi politici e più potenti che mai. Così Bin Laden nel film continua a essere il supercapo carismatico plenipotenziario di Al Qaeda, ed è in funzione della sua cattura che la caccia va avanti. Non entrano in campo le inverosimili omissioni del governo Bush, il ruolo ambiguo del vero presidente (il burattinaio di Bush, che come noi italiani cinici sappiamo era una semplice marionetta). Non ci si occupa dei retroscena, i mutamenti sullo “scacchiere”, i nuovi rapporti di forza. Non ci sono implicazioni di tipo morale.
Per cui sorprende tutto questo arrovellarsi sulla presunta vocazione embedded della Bigelow. Nel suo film il centro di tutto è unicamente la caccia, come emanazione della guerra eterna. Il resto è rimosso. Ininfluente e superfluo.
Ma Zero Dark Thirty non è un film sbagliato.
Neanche giusto.
E’ semplicemente un thriller duro e puro, tecnico, amorale, girato magistralmente, che ci pone delle domande serie sulla valenza artistica del prodotto di genere elevato alla massima potenza. La parte finale, l’incursione dei Navy Seal che arrivano a bordo di enormi elicotteri neri silenziati, è magnifica. Nulla di patinato, niente sparatorie in stile classico militare, viaggia su una tensione tagliente, in una luce buia, quasi nera, eppure non notturna, semplicemente la notte grigia dell’azione, dell’omicidio. Genitori vengono freddati davanti ai figli. Si dà loro il colpo di grazia. Non si fa differenza tra mariti e mogli urlanti. I bambini vengono ammassati in una specie di recinto, coi genitori massacrati sul pavimento. Sappiamo che se fosse necessario verrebbero freddati anche loro.
Finito tutto, trovato finalmente Bin Laden, Maya cosa farà?
E’ seria, solo una lacrima leggera scende sulla sua guancia.
Sa di essere un personaggio della caccia senza fine, della violenza, del Vuoto.
Sa di essere avvolta dal velo dell’apparenza, come impone il suo nome.
Sa che è il suo destino.
Ma non è una critica, né un rimpianto.
Non illudetevi.