di Salvatore Pirrone
Sette milioni di visualizzazioni su youtube in poche ore, commenti che vanno dal sarcastico al compassionevole, fino agli immancabili “cybercinici”, che si sfogano attraverso le tastiere dei propri PC.
Abbiamo tutti assistito alle pubbliche scuse, con conseguente tosatura dei capelli, di Minami Minegishi. La ragazza è una delle 94 “AKB48”, il gruppo pop giapponese che vende milioni di dischi e che occupa continuamente gli spazi televisivi e radiofonici.
La “colpa” della ragazza, in chiara violazione delle regole imposte al gruppo, sarebbe stata quella di aver passato la notte con un uomo. la giovane star paparazzata all’uscita dell’abitazione dell’amante, ha quindi registrato il videomessaggio chiedendo scusa per il suo “comportamento sconsiderato e immaturo”.
L’esercizio del (bio)potere può dirsi completo, il soggetto prova pentimento, si infligge una severa punizione, attraverso la mutilazione dei capelli, galeotti strumenti di seduzione, imponendosi la pubblica gogna di fronte al Dio-Giudice Pubblico.
In Cloud Atlas, il blockbuster del trio Wachowski-Tykwer, tratto dal romanzo di David Mitchell, c’è un personaggio, uno dei più interessanti per la sua funzione “redentiva”, il suo nome è Sonmi~45, interpretata dall’attrice sudcoreana Bea Doona.
Somni è un “artificio”, un clone che lavora in una caffetteria nella Neo Seoul del 2144, in un futuro distopico in cui un potere totalitario ha portato all’estremo la divisione in classi sociali, distinguendo tra cittadini e cloni che, come Somni, sono nient’altro che una risorsa da sfruttare e da macellare (letteralmente) per alimentare l’oligarchia consumista.
A un certo momento anche Somni, come la nostra Minami, si taglia i capelli,un gesto apparentemente simile ma con un carico di significati completamente diverso. Se la popstar nella realtà si taglia i capelli per ratificare, accettare e subire le regole, la Somni del film lo fa per ribellarsi al sistema, per affermare la propria soggettività, tagliandosi la ciocca colorata che la rende identica ai cloni che lavorano con lei nella caffetteria.
Somni si ribella grazie all’aiuto della resistenza e di Hae-Joo Chang (Jim Sturgess) e lascia che si compia il suo destino di Cristo dell’epoca “Ultramoderna”.
In Cloud Atlas non c’è il tempo, non c’è lo spazio, non c’è la Storia con la “S” maiuscola. Ci sono le storie di uomini e donne, piccole storie fatte di gesti che hanno conseguenze in secoli e latitudini diverse, un piccolo gesto di cortesia diventa una rivoluzione, una triste meschinità la causa di futuri disastri.
Tutto è collegato in Cloud Atlas: gli amori, i successi e i fallimenti di intere generazioni. Banditi, eroi e assassini sono uguali e allo stesso tempo diversi in ogni epoca o luogo, una storia collettiva senza inizio e senza fine, dove la “Pietas” e la cooperazione rappresentano già un atto rivoluzionario e di redenzione.
Non c’è una visione “monumentale” della storia, non esistono grandi protagonisti ma solo piccoli attori capaci però di grandi cambiamenti. Insomma, “il battito delle ali di una farfalla in Brasile può scatenare un tornado in Texas”, come sostenuto dalla teoria del caos deterministico di Edward Norton Lorenz, mentre a noi spettatori tocca il compito di trovare il filo rosso, quello del cambiamento, che lega tutte le storie di questo romanzo-monumento del postmoderno, quasi come se stessimo leggendo V di Thomas Pynchon o Il pendolo di Foucault di Umberto Eco.
Interessante poi la regia “collettiva” del trio, divisi in due unità di regia che giravano in set diversi con gli attori che si spostavano nei vari set, sottoponendosi a lunghe sessioni di trucco e seguendo il consiglio dei registi di considerare i loro ruoli come un “ceppo genetico” e non un insieme di singole parti diverse tra loro.
L’epicità del film è costruita su una trama per nulla semplice, che sfugge alle etichette classiche. Alcuni segmenti del film sono chiari omaggi alla fantascienza distopica di Ray Bradbury, Philip Dick e George Orwell, altri ,come la storia della giornalista Luisa Rey (Halle Berry), sono marcatamente noir, le vicende del giovane avvocato Adam Ewing (Jim Sturgess), in viaggio su un veliero nel Pacifico, ci ricordano la storia della “Amistad” e i movimenti di opinione contro lo schiavismo in America.
Le esilaranti peripezie dello scrittore-editore Timothy Cavendish, i suoi tentativi di fuga da una casa di riposo, la sua esclamazione “Soylent Green! Soylent Green è fatto di persone!” ci ricordano il film 2022: i sopravvissuti di Richard Fleischer, nonché La grande fuga, dove ai prigionieri del campo di concentramento si sostituiscono arzilli vecchietti desiderosi di vivere gli ultimi momenti di libertà delle proprie vite.
Questi intrecci, queste anomalie narrative, le difficoltà a catalogare il film sono probabilmente il motivo per cui i registi hanno faticato a trovare i finanziamenti presso le grandi Major di Hollywood, bisognose di valutare i film in base ai target di pubblico. I fondi per la produzione del film, oltre 100 milioni di dollari, sono stati racimolati dai registi tramite finanziamenti e sottoscrizioni, e di fatto rendono Cloud Atlas un film indipendente tra i più costosi della storia.
Nell’epoca dell’edonismo forzato, della vita “a tutti i costi”, dei miliardari che finanziano progetti per allungare la vita (dei ricchi, ovviamente), in un mondo incapace di ricongiungere la vita alla morte, di riaffermare con forza che sono le nostre azioni a farci sconfiggere la caducità della nostra esistenza, Cloud Atlas ci fa riflettere sui modi di raggiungere l’immortalità.
Per tutto il tempo della visione del film ho pensato a una delle tante storie che si insinuano nelle pieghe del mainstream e che rimangono nella memoria di quelli che sanno coglierle: è la storia di Walter Bevilacqua, un pastore di 68 anni morto qualche mese fa a Domodossola perché aveva rifiutato un trapianto di rene. Di lui ci rimangono soltanto le parole lasciate al parroco del paese: “Sono solo, non ho famiglia. Lascio il mio posto a chi ha più bisogno di me. A chi ha figli e ha più diritto di vivere”.
C’è chi passa la vita a cercare il proprio “Atlante delle nuvole”, chi attende la morte per poterlo trovare, e poi esistono quelli come Walter, che tra le nuvole hanno sempre vissuto, tra le montagne dell’Ossola a pascolare greggi e che ancora oggi riescono a “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”.