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Venditore. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
Passeggere. Almanacchi per l’anno nuovo?
Venditore. Si signore.
Passeggere. Credete che sarà felice quest’anno nuovo?
Venditore. Oh illustrissimo si, certo.
(Giacomo Leopardi, Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere)

Premessa*

Mi sono preso la briga, da conoscitore delle cose di scuola, di leggere i programmi elettorali del centro-sinistra sulla scuola. Ho preso appunti sulle questioni che a me sembrano di maggior rilievo (per un confronto sinottico generale si può vedere qui o qui), e ne ho ricavato questo testo, che spero sia esauriente. Lascio ai lettori interessati il giudizio, senza dare (ci mancherebbe) indicazioni di voto: con chi ha davvero a cuore la difesa della scuola, ci si vede nelle lotte.

0. Introduzione

L’esame dei programmi elettorali che possono in qualche modo riguardare gli elettori di sinistra [1] può dare, a una prima lettura, l’impressione di un libro delle favole, dal quale mancano solo le montagne di parmigiano, i fiumi di vernaccia e le vigne legate con le salsicce.
A una lettura più attenta, l’impressione di un paese del Bengodi prossimo venturo cede il passo a diversi argomenti di preoccupazione: dietro le facili promesse ci sono facilonerie, lacune, improbabilità, omissioni. Soprattutto, preoccupa la comprensione che gli autori dei diversi programmi sembrano avere della scuola italiana: che è un sistema di circa nove milioni di cittadini, tra studenti, insegnanti e lavoratori non docenti, funzionari e dirigenti (senza contare i genitori, circa 1/6 della popolazione nazionale), governato da un sistema di leggi molto complesso. Come vedremo, uno dei punti più problematici dei diversi programmi è la definizione di cosa, esattamente, si vuole cambiare: ovvero, a partire da quale norma o riforma si vuole invertire la direzione.

Un secondo problema, tutto politico, è la relazione che si istituisce tra il ministero Gelmini e il ministero Profumo. Francesco Profumo non è venuto giù dal Monviso con la piena: è un cosiddetto tecnico in quota PD, come in quota PD sono stati i suoi viceministri “tecnici” Rossi Doria e Ugolini; e del PD è Manuela Ghizzoni, dal 2012 presidente della Commissione Cultura e Istruzione della Camera. Il governo Monti, inoltre, ha governato con una maggioranza che comprendeva il PD (SEL non era rappresentata in parlamento, come pure PC, il PdCI e i Verdi, confluiti assieme all’IdV, che era all’opposizione, in Rivoluzione Civile); e alle linee-guida del governo Monti è ispirata l’affermazione della carta d’intenti Italia. Bene comune, sottoscritta dai candidati del PD, di SEL, nonché da alcuni candidati di RC:
«Appoggiare l’esecutivo in tutte le misure di ordine economico e istituzionale che nei prossimi anni si renderanno necessarie per difendere la moneta unica e procedere verso un governo politico-economico federale dell’euro-zona».
Tra i provvedimenti di maggior rilievo che il governo-Monti ha adottato, c’è stata la modifica dell’art. 81 della Carta Costituzionale, con l’introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio (legge costituzionale 1/2012), che avrà attuazione dal 2014. Il che chiama in causa — ed è inevitabile — lo sfondo della crisi del capitale globale, su cui si muoveranno le politiche prossime venture. Mi riservo di intervenire su questo punto — che è quello davvero “strutturale” — alla fine: ma segnalo fin d’ora che una disamina critica del programma del PD, fatta da un ottimo conoscitore di cose scolastiche, nonché persona di scuola (le due cose non sempre vanno a braccetto), evidenzia nei limiti di spesa uno dei punti di maggiore debolezza del programma del candidato premier Bersani [2].

1. Quando inizia lo sfascio della scuola pubblica?

Per poter «avviare un’opera di ricostruzione vera e propria» [L’Italia giusta. Programma, d’ora in poi PD-IG] è necessario fissare il punto d’inizio della sequenza normativa che ha ridotto la scuola nelle attuali condizioni. Ma non è facile.
Il programma PD-IG contiene una frase quantomeno improvvida: «La scuola e l’università italiane, già fiaccate da un quindicennio di riforme inconcludenti e contraddittorie, hanno ricevuto nell’ultima stagione un colpo quasi letale». Se con “ultima stagione” si intende (e non può che essere così) il ministero-Gelmini, il giudizio sulle “riforme inconcludenti e contraddittorie” coinvolge non solo l’operato del ministro Fioroni, ma anche le riforme di Luigi Berlinguer — l’autonomia, ma anche il nuovo esame di Stato, la parificazione tra scuole pubbliche e private, l’avvio della valutazione (i Progetti Pilota di Vertecchi e la creazione dell’INVALSI). Un lapsus, forse, dal momento che il documento L’Italia giusta. Il futuro si prepara a scuola [d’ora in poi PD-Sc] afferma che «l’autonomia delle scuole, che è la più importante riforma degli ultimi 13 anni, è stata voluta da Luigi Berlinguer e dal governo di centro-sinistra».
Al netto di questa “svista”, il programma del PD sembra concordare con gli altri programmi: PD-Sc inizia la cronologia dello sfascio col governo Berlusconi 3, per proseguire poi col governo Monti, del quale ha votato tutti i provvedimenti.

Il punto è, però, che i problemi della scuola non sono iniziati con la riforma-Gelmini, ma hanno una radice ben più lontana, di cui nessuno sembra accorgersi: la privatizzazione del rapporto di lavoro attuata con la riforma-Cassese (dlgs 29/93) e confermata dai successivi provvedimenti di riforma della pubblica amministrazione firmati da Bassanini (dl 165/01).
Cosa significa essere un pubblico dipendente con contratto di diritto privato? In sintesi (per un’analisi più tecnica rimando qui), che il lavoro dell’insegnante non ruota attorno al fine del suo compito (che sarebbe prescritto dalla Costituzione), ma a uno scambio alla pari tra funzioni lavorative e salario. Per effetto di questo rapporto privatistico, il contratto di lavoro degli insegnanti prevede (all’art. 29) un elenco di funzioni che è obbligatorio svolgere, alle quali corrisponde un certo salario. Ma queste funzioni non esauriscono quello che serve alla scuola per essere “costituzionale”: al di fuori di questo articolo ci sono una serie di compiti (corsi di recupero, progetti, attività extracurricolari, coordinamento dei consigli di classe e via dicendo) che sono essenziali, che in qualche caso la scuola è obbligata a porre in atto (ad es. i corsi di recupero), ma che non sono un obbligo di servizio, e quindi si reggono sulla libera volontà del docente di fare una sorta di straordinario (lo stesso vale per il lavoratore non docente che cura l’apertura, la sorveglianza e la pulizia della scuola in orario pomeridiano o serale).
È come se lo Stato, dopo aver pagato il salario, mettesse sul tavolo un sacchetto di monete e dicesse: questi sono i pupazzi, con questi dovete fare il presepe. Non c’è alcuna norma che obblighi lo Stato a fornire risorse adeguate, piuttosto che le sole risorse dichiarate disponibili: se di anno in anno da quel sacchetto mancano sempre più monete, sta a gli insegnanti fare il presepe senza pastori, e magari con un solo re Magio senza cammello. Dopo tutto, non è un obbligo di servizio fare il presepe a Natale.

Finché non si riforma il carattere privatistico del rapporto di lavoro dell’insegnante, ci saranno sempre alcune attività gerarchicamente inferiori, e quindi vincolabili alle risorse erogate; da qui i deliri, o le improvvisazioni, sull’aumento (volontario o meno) dell’orario di lavoro dell’insegnante. Il ripristino dell’organico funzionale chiesto da PD-Sc e da La nostra Rivoluzione Civile [d’ora in poi RC], o l’apertura delle scuole «tutto il giorno, tutto l’anno e per tutta la vita» (PD-Sc; ma in precedenza, Scuola. Guardiamo al futuro, ottobre 2010) sarebbero in caso contrario di difficile realizzazione, e la loro permanenza sarebbe vincolata alla volontà dei singoli governi di stanziare fondi supplementari, o all’andamento della crisi economica. Ma anche il «Tornare alla Costituzione» di RC è, in questa situazione, un pio desiderio. Quanto ai programmi di Sinistra, Ecologia e Libertà [d’ora in poi SEL] e del Movimento 5 Stelle [d’ora in poi M5S], il riferimento costituzionale è assente dai loro programmi scolastici: SEL parla genericamente di una scuola che «deve formare alla vita [per] esercitare un ruolo preminente nell’organizzazione della società, della produzione e della formazione delle generazioni», M5S non si prende la briga di dire a cosa serve, o dovrebbe servire, la scuola.

In altri termini: se la scuola ha una finalità “pubblica”, il rapporto di lavoro deve tornare ad essere pubblicistico. Questo significa che, una volta individuato il fine, lo scopo della scuola, lo Stato individua tutte le funzioni necessarie alla piena realizzazione di questo scopo, ne stabilisce costi e risorse, e in base a questo assegna incarichi, organici e quant’altro; nel caso di un rapporto privatistico, fondato un rapporto di lavoro volontario e strettamente personale, il rapporto di lavoro è un angusto orizzonte giuridico «che costringe a calcolare con la durezza di uno Shylock: non avrò per caso lavorato mezz’ora più di un altro, non avrò guadagnato un salario inferiore a un altro?» [3].
Mi rimane inspiegabile come questa scuola di Shylock possa essere, eticamente prima ancora che giuridicamente, compatibile con queste parole: «Immaginiamo la scuola come luogo fondante di comunità, dove oltre ai necessari insegnamenti curricolari ci si può fermare il pomeriggio per studiare, da soli o in compagnia, trovando libri e computer che a volte gli studenti non hanno a casa, dove si può fare sport, suonare, recitare, imparare le lingue» [PD-Sc]. E ricordiamoci che si vuole questo insegnante-Shylock essere sottoposto alla valutazione-Invalsi: «non avrò preso un punteggio inferiore, non sarò stato scavalcato in classifica da un altro?».

Ma nessuno degli schieramenti mette in discussione la natura del contratto di lavoro del personale scolastico, e il PD fa addirittura l’elogio delle riforme Cassese e Bassanini [4].

quanto_lavora_un_prof.jpgDa questa aporia discende la proposta del PD, in tutta franchezza demenziale, di un orario di lavoro a due velocità: obbligatorio a 18 ore, facoltativo per un supplemento pomeridiano (con fumosissime finalità, peraltro). A parte l’impossibilità pratica (quali e quante scuole hanno spazi attrezzati per questa funzione pomeridiana? Come si fa a garantirla se anche le prestazioni extra-orario dei bidelli sono facoltative?), dove andrebbe a finire la collegialità, se alcuni docenti sono a scuola 18 ore, e altri 40 [5]? Ma soprattutto: questa proposta è offensiva nel momento in cui disconosce il valore in primo luogo orario del lavoro che i docenti svolgono a casa, che porta il carico di lavoro complessivo a oltre 1.750 ore annue, il più alto nel pubblico impiego [clicca sulla tabella a sinistra ingrandirla]; e, soprattutto, perché considera (Cassese e Bassanini placet) il lavoro dell’insegnante in base non al suo valore intrinseco, ma al numero di ore misurabili. Il che è coerente con la natura privatistica del rapporto di lavoro, ma contraddice la volontà di una scuola «che deve realizzare il “compito” che l’Art. 3 della Costituzione affida alla Repubblica» [PD-Sc], e apre la strada a future distorsioni: una volta che i docenti sono a scuola, facciamogli fare di tutto!

2. Abrogare la riforma Gelmini?

Rivedere la riforma-Gelmini: su questo tutti i programmi sembrano convergere.
«La controriforma delle Gelmini [è] il più grande tentativo di distruzione del sistema di formazione pubblica e di demonizzazione degli insegnanti» [SEL]; «il Governo di centrodestra non ha affrontato i problemi cronici del sistema scolastico italiano, ma li ha aggravati [con] scelte in direzione contraria al resto d’Europa» [PD-Sc]; «le controriforme varate dal ministro Gelmini a partire dal 2008 hanno rappresentato il più profondo ed organico attacco alla scuola pubblica, disegnando un sistema scolastico impoverito – nelle risorse, nel tempo e nella qualità — di ispirazione apertamente classista. Esse si iscrivono in un disegno, che viene da lontano, di frantumazione del sistema scolastico e di distruzione dei suoi fondamenti costituzionali» [RC]. Lapidario ed esplicito anche M5S: «Abolizione della legge Gelmini» è il primo punto del programma sull’istruzione.
D’accordo sul giudizio — invertiamo la marcia e facciamo un passo avanti -, gli schieramenti sembrano invece avere idee divergenti sul da farsi.
Per M5S, lo abbiamo visto, la riforma-Gelmini va abrogata; lo stesso per RC: «vanno ritirare le riforme Gelmini».
SEL vola più basso, e propone di «reintrodurre il tempo pieno e le ore di laboratorio che Gelmini aveva cancellato»; per PD-Sc «la scuola non ha bisogno di grandi riforme, ha bisogno di certezze, stabilità e soprattutto di fiducia. Fiducia dopo i tagli di Berlusconi-Tremonti-Gelmini, dopo gli insulti ricevuti, dopo le stagioni Moratti-Gelmini la cui direzione ideologica è stata quella di smantellare il sistema di istruzione pubblico».
Se non ché, le proposte di PD-Sc — biennio unitario nelle scuole secondarie superiori, ridefinizione delle gerarchie tra centro e periferia per realizzare davvero l’autonomia, ritorno al tempo pieno, allungamento del tempo-scuola, «una nuova governance territoriale per migliorare l’offerta formativa puntando a istituire Poli per l’Istruzione Tecnica Superiore che tengano insieme l’istruzione tecnica / Professionale e la formazione professionale (sistema integrato), le imprese, l’università e il mondo della ricerca» – si configurano come una vera e propria riforma di sistema.

Cerchiamo dunque di essere chiari.
La “riforma-Gelmini”, che consiste in un complesso di norme, ha il suo cuore nella riforma (“riordino”) dell’istruzione superiore [6]. Questo riordino, tagliando i curricoli resi possibili dall’autonomia, ha vanificato l’esperienza di 10 anni di scuola dell’autonomia e ha tagliato cattedre ed insegnamenti. Alla permanenza o meno di questo riordino si lega la questione dei precari e dei posti di lavoro: o si ricreano i posti di lavoro tagliati, o si prendono in giro i precari. Inoltre, non si capisce perché mantenere in vita un ordinamento che si valuta negativamente: che si reputa abbia effetti dannosi sull’istruzione, l’eguaglianza sociale, il diritto al futuro. Se invece non lo si vuole mantenere in vita, allora non si comprende (oppure sì: a pensar male si fa peccato, ma a volte ci si prende) la timidezza lessicale di PD-Sc e SEL.
Va benissimo chiedere che ritornino alla scuola gli 8 miliardi di euro tagliati in questi anni: ma per rimetterli dentro la scuola di Gelmini, o dentro una diversa scuola?

La vera alternativa, che andrebbe esplicitata agli elettori, è tra due opzioni:
– abrogare immediatamente (quantomeno) il riordino dell’istruzione superiore, delle norme sul maestro unico; ritornare dunque alla situazione del 2008, e su questa lavorare per costruire l’insieme di riforme proposte che costituiscono di fatto una vera e propria riforma della scuola (e allora chiamiamola col suo nome);
– avviare una legislatura di riforme, lasciando al momento immutata la situazione, per poi modificarla in modo graduale.
La prima soluzione è una terapia d’urto, che ha il vantaggio della coerenza, e che interviene su una situazione che tutti definiscono grave; la seconda comporterà di fatto la permanenza, pur all’interno di un quadro riformatore, di non pochi aspetti della riforma-Gelmini. E allora PD-Sc e SEL dovrebbero avere l’onestà di anteporre la chiarezza agli equilibrismi interni, e dire cosa si vuole mantenere e cosa no, e magari in che tempi. E chi chiede l’abrogazione della riforma-Gelmini dovrebbe dire con chiarezza in quali tempi e con quali modalità.
Teniamo conto che ogni provvedimento di riforma va a regime dopo 5 anni, e che ogni anno di ritardo significa quindi 5+1: le grandi riforme proposte comportano il lavoro di una legislatura, e andranno a regime dopo altri 5 anni. Vogliamo altri 10-15 anni di Gelmini?
Io credo che preservare con ogni mezzo necessario il futuro di una generazione abrogando senza perdere un solo giorno le leggi di Gelmini sia prioritario: il che non significa nascondere il fatto che questa terapia d’urto ha dei costi che vanno resi espliciti.

3. Democratizzare la scuola

Anche sul ritorno a una scuola democratica sembrano tutti d’accordo: ad eccezione di M5S, per il quale questo obiettivo non è compatibile con un movimento “né di destra né di sinistra” (o forse perché non ne sanno molto). «Vogliamo ridare ruolo e poteri agli organi collegiali a tutti i livelli per un governo democratico e partecipato delle scuole e dell’intero sistema», si legge in RC; per SEL «è indispensabile garantire Organi Collegiali democratici, aperti, che abbiano pieno riconoscimento e diritto d’intervento nella didattica e negli aspetti organizzativi»; PD-Sc prefigura «un sistema di istruzione secondaria capace di fornire agli studenti una solida e unitaria cultura generale perché possano esercitare il diritto di cittadinanza attiva», e avanza una contorta proposta di decentramento gestionale consistente nel «realizzare pienamente l’autonomia delle singole scuole in campo didattico, finanziario, amministrativo e gestionale, rafforzando al contempo la verifica dei risultati dal parte del centro».

Come è stato da più parti notato, il linguaggio degli estensori del programma scolastico del PD lascia molto a desiderare: ad esempio, quando si attribuisce al “centro” (inteso come Regione, stante la riforma del Titolo V della Costituzione, o come Stato? Non è una differenza di poco conto) «il ruolo di valutatore a posteriori, oltre a fissare le indicazioni nazionali (i programmi) e le competenze richieste». Indicazioni o programmi? Possibile che la responsabile nazionale scuola del primo partito d’Italia Francesca Puglisi, porcellata (da “porcellum”: mi si passi il neologismo) al Senato in Emilia-Romagna senza passare dalle primarie, non conosca la rilevante differenza tra le une e gli altri?
francesca-puglisi.jpgO quando si afferma che «il dirigente scolastico non può rimanere senza un controllo efficace da parte del consiglio di istituto». Qui la domanda sorge spontanea: quale consiglio di istituto?
[A destra: Francesca Puglisi] Diciamola tutta: è davvero notevole la faccia di palta di chi fino allo scorso novembre non si faceva scrupolo di sostenere una trasformazione dei consigli d’Istituto in consigli di amministrazione [vedi qui e qui>, limitando la partecipazione dei lavoratori della scuola e aprendo ai privati e ai loro capitali, offendendo gli insegnanti in subbuglio; e dopo centinaia di pronunciamenti di collegi docenti sospendeva l’iter parlamentare della legge Aprea-Ghizzoni-Puglisi proclamandosi “in ascolto”.
Come se niente fosse accaduto, Francesca Puglisi viene porcellata al Senato, e Manuela Ghizzoni è ancora candidata alla Camera (e in caso di buon risultato del PD potrebbe essere rieletta), nonostante la bocciatura dei propri elettori alle primarie del PD.
Così capita che PD-Sc non faccia parola del disegno di legge 953/12, a differenza di RC: «la maggioranza PD-PDL-UDC si è resa responsabile, con l’approvazione alla Camera del disegno di legge ex-Aprea, di una ulteriore spinta verso la privatizzazione del sistema scolastico, la sua frammentazione e la negazione della democrazia scolastica […]. Occorre fermare definitivamente qualsiasi progetto di privatizzazione del sistema di istruzione, come era stato tentato dal governo Monti».
Ma PD-Sc propone una norma in evidente contrasto con lo spirito di quella legge: perché se le parole hanno un senso, un “efficace controllo” del dirigente scolastico da parte del Consiglio d’Istituto significa riformare in senso democratico quest’organo collegiale (come chiedono le altre due liste del centro-sinistra). E allora perché non dirlo? E soprattutto, perché non chiedere scusa al mondo della scuola, che ha dovuto pagare il costo di tre scioperi in un mese per bloccare questa legge?
Quanto a SEL, perché non osare un filino di più chiamando il ddl 953/12 col suo nome (Aprea-Ghizzoni-Puglisi), invede di alludervi senza fare nomi (in SEL) o chiamarla “legge Aprea” (nei “Quaderni di scuola”)? E perché il duro giudizio sul ddl 953/12 presente nei “Quaderni” è scomparso in SEL? Per non pregiudicare future alleanze?

Ma la questione non si risolve nel solo ddl 953/12 e nella riforma in senso democratico degli organi collegiali. Ancora Stefanel nota che il controllo sul dirigente da parte del Consiglio di Istituto contraddice la 150/09 (legge Brunetta) che vuole il dirigente «controllato dallo stato, che gli fornisce gli obiettivi contrattuali da raggiungere: come fa un dirigente ad avere due controllori non necessariamente in armonia tra loro?»
A me (forse a differenza di Stefanel) interessa, più che l’armonizzazione di due norme divergenti, la posizione degli schieramenti sulla riforma Brunetta, che ha rafforzato in senso gerarchico la catena di comando dall’alto nella Pubblica Amministrazione, e dunque anche nella scuola, rendendo il dirigente scolastico di fatto, più ancora che di diritto, onnipotente all’interno delle scuole.
Cosa devo dedurre dal fatto che nessun programma scolastico chieda l’abrogazione, accanto ad alte norme, del dl 150/2009? Che nessuno sia consapevole dell’incidenza di questa legge sull’andamento delle scuole? Che nessuno abbia sentito la necessità di chiedere un parere a un sindacalista purchessia, uno di quelli che da due anni sono impelagati nelle contrattazioni d’istituto avendo come controparte un dirigente che esercita la capacità del datore di lavoro privato?

Persino nei programmi generali, laddove si parla di pubblica amministrazione, non si trova nulla di più esplicito di questa generica affermazione: «la riforma Brunetta ha dimostrato la sua debolezza sia sul piano progettuale che su quello della gestione del cambiamento. Anziché rincorrere perennemente la grande riforma della PA, velleità che produce (come Brunetta dimostra) un inaccettabile processo di centralizzazione e conduce al fallimento, pensiamo che si debba dare continuità ai processi di riforma, attraverso una costante e mirata manutenzione delle leggi esistenti e delle riforme necessarie dove e quando servono» (“Pubblica amministrazione. Un settore pubblico di qualità per far ripartire l’Italia”, PD, 2011). Che sembra voler dire: è brutta, ma non si può cambiare una legge ogni tre anni. E quindi, per ignavia, insipienza o complicità, prevedo che la riforma Brunetta resterà dov’è: però continueranno a raccontarci le barzellette su Brunetta.

4. Quali fondi alle scuole private?

scuole_private.jpg[A sinistra, una simpatica réclame della scuola privata “Istituto Leopardi” di Padova] Si sa, i voti delle lobby cattoliche fanno gola a tutti, specie a quelli che le lobby ce le hanno in casa, o hanno aperto la porta per farle entrare (in Lombardia, ma non solo lì, significa i voti di Comunione e Liberazione, ora che i ciellini hanno perso la protezione politica e lanciano segnali a destra e a manca, essendo la loro natura simile più a quella dei ratti che abbandonano la nave che a quella dei primi martiri cristiani). Capita così che, in un quadro di difficile reperimento dei fondi necessari a far ripartire la scuola (e non solo lei), PD-Sc non abbia una parola da spendere sullo scandalo dei 500 milioni destinati alle scuole private (che poi, tra le pieghe della finanziaria, diventano 6-700, ad esempio in forma di sussidi alla ristrutturazione edilizia, com’è capitato alla “Libera Scuola dei Popoli Padani” di Varese, diretta da Manuela Marrone, moglie di Umberto Bossi). Per contro, per RC «vanno eliminati i finanziamenti pubblici, diretti ed indiretti, alle scuole private», per M5S «risorse finanziarie dello Stato erogate solo alla scuola pubblica».
Nessuno dei programmi spende una sola parola per dire chiaro e tondo qual è il ruolo della Compagnia delle Opere, ovvero di Comunione e Liberazione, tra le lobby private [7].

Ma non è facile dire: niente soldi alle private. Per attuare questo proposito è necessario superare — ma bisogna dirlo, prima di farlo — l’equiparazione di scuole pubbliche e “paritarie private” attuata dalla “legge Berlinguer” 62/00 (“Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione”), come è scritto nei “Quaderni di scuola”: «rivedere il sistema paritario previsto dalla legge n. 62/2000, togliendo l’incostituzionale finanziamento di scuole istituite da privati e garantendo controlli per i requisiti di autorizzazione e di equipollenza». Queste parole, però, non sono riportate in SEL: qual è la posizione di Vendola, quella dei “Quaderni” (al tempo delle primarie, ottobre 2012) contraria alla parificazione tra scuole pubbliche e private, o quella (odierna) del programma elettorale, che non spende una parola sull’argomento?
Senza la cancellazione (o la revisione) della “legge Berlinguer”, che peraltro confligge con l’art. 33 comma 3 della Costituzione, non è possibile negare i fondi alle scuole pubbliche: il che comporta quantomeno un giudizio sull’operato del ministro Berlinguer. Ma nelle liste di RC non pochi sono i futuri, porcellati deputati e senatori che quella legge l’hanno votata, tappandosi o no il naso: proprio per questo chiedere parole chiare e inequivoche sembra lecito.

In secondo luogo, la parificazione delle scuole private ha un suo fondamento nella deformazione della riforma del Titolo Quinto della Costituzione, ossia nel principio di sussidiarietà previsto dal primo comma dell’art. 118: «Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza». È chiaro che la sussidiarietà di cui si parla è quella verticale, e che il suo significato non è equivocabile: le prestazioni verso i cittadini devono essere effettuati dall’organo dello Stato ai cittadini più prossimo, se possibile dai Comuni.
Per contro, la sussidiarietà orizzontale, affermatasi di fatto più che di diritto, prevede che il settore pubblico si astenga dall’effettuare prestazioni che possono essere effettuate dal “privato”. La natura lobbistica delle scuola private cattoliche, al tempo stesse gelose e intransigenti nel difendere le prerogative del “privato”, ma in prima fila — e spesso con cospicui supporti di “doping elettorale” — nell’intrigarsi all’interno della gestione della cosa pubblica, ha portato alla cessione di ampie fasce della scuola di base — dai nidi alle materne — al sistema privato (ma a spese degli enti locali, dunque del “pubblico”).
Non per caso, una delle branche di Comunione e Liberazione è la “Fondazione per la sussidiarietà” presieduta da Giorgio Vittadini, già presidente della Compagnia delle Opere e consulente dell’ex ministro Gelmini sulla valutazione.

Chi combatte i finanziamenti alle scuole private non può non avere presente che questa tendenza alla sussidiarietà orizzontale va contrastata. Al contrario, nei programmi del PD si trova una generica affermazione: «l’autogoverno locale deve offrire spazi e occasioni alla sussidiarietà, alle forme di partecipazione civica, ai protagonisti del privato sociale e del volontariato», buona per tutte le stagioni, a cui fa riscontro un intero paragrafo nel programma sulla pubblica amministrazione, che afferma a chiare lettere che «il principio costituzionale della sussidiarietà orizzontale [corsivo mio] [è la] chiave per definire correttamente l’integrazione tra intervento pubblico e ruolo del settore privato», e che «il ruolo del pubblico [è] intervenire direttamente in tutte le circostanze in cui l’iniziativa dei cittadini non sia in grado di soddisfare adeguatamente un bisogno pubblico». Un’affermazione che potrebbe essere sottoscritta da Bagnasco, Casini, Binetti, Formigoni, e che risuona ancora più forte per effetto dell’assordante silenzio di SEL sull’argomento.sussidia_orlando.jpg

Peraltro, anche nel programma di RC il tema della “sussidiarietà” non viene nominato: per ignoranza o per scelta tattica? Non dimentichiamo la presenza di ex-democristiani – in primis Di Pietro e Orlando — accanto a Ingroia [a destra, Orlando e Vittadini in dialogo durante l’incontro “Sussidiarietà e… città abitabile”].
Quanto a M5S, contrario al finanziamento alle scuole private: questo punto programmatico è preceduto da quello che chiede la «Abolizione del valore legale dei titoli di studio». Una richiesta che sarà anch’essa né di destra né di sinistra, ma che è di sicuro del Piano di Rinascita Nazionale della loggia P2 di Licio Gelli, e di Comunione e Liberazione (nella persona di Giorgio Vittadini, ancora lui!), ma anche del programma di Matteo Renzi (era l’82ma delle 100 proposte presentate alla Leopolda nell’autunno 2011).
L’eliminazione del valore legale del tutolo di studio sarebbe la porta spalancata attraverso cui potrebbero passare le scuole confessionali, le private, i diplomifici finalmente liberi da quegli odiosi lacci e lacciuoli che sono i programmi, la verifica attraverso l’esame di Stato, ecc.: vedi mai le sentine della Loggia P2 in quali acque scaricano i loro liquami.

5. Quale valutazione?

Sulla “valutazione degli apprendimenti” si potrebbe scrivere un intero documento: tanto vale limitarsi a segnalare le diverse posizioni.
M5S non inserisce la valutazione nel programma, se non limitatamente alla valutazione dei docenti universitari da parte degli studenti (ma è cosa diversa): quello che è accaduto e accade nelle scuole, a quanto pare, non è rilevante. O forse i docenti del M5S (saranno pur state persone di scuola a scrivere il capitolo “Istruzione” del programma: o no?) non si sono accorti delle lotte e dei conflitti degli ultimi due anni.
All’opposto, RC sposa senza se e senza ma la posizione dei docenti e degli studenti (immagino, col contributo dell’UDS, in prima fila nelle lotte autunnali): «La libertà di insegnamento, garantita dalla Costituzione, è sempre più esposta al rischio di interferenze esterne ed ai condizionamenti di valutazioni come i test INVALSI. Essa deve, invece, potersi esplicare pienamente, nell’ambito e nei limiti delle scelte didattiche adottate collegialmente». Oltre alla chiarezza, il programma di RC ha un altro merito: è l’unico a nominare l’INVALSI.
PD-Sc si inerpica invece in un arduo sentiero semantico lungo un intero paragrafo («Un moderno sistema di valutazione per una scuola pubblica di qualità») per parlare di valutazione senza nominare l’INVALSI, cioè l’ente creato dal ministro Berlinguer e dai suoi consiglieri Vertecchi e Frabboni; lo stesso fa, con meno spreco di parole, SEL.
In sintesi, sia PD-Sc che SEL sostengono che la valutazione degli apprendimenti è necessaria («un serio meccanismo di valutazione delle scuole è quindi un elemento necessario per migliorare la qualità e l’equità della scuola», PD-Sc; «la qualità delle nostra scuola va costantemente valutata e misurata. Per questo intendiamo istituire un percorso di valutazione complessivo del sistema scolastico», SEL; «la valutazione del sistema scolastico è un passaggio necessario per rendere conto alla società dei risultati ottenuti rispetto alle risorse di fiscalità generale investite», Quaderni di scuola); esprimono un giudizio negativo su come da Gelmini (e i precedenti ministri? E i progetti pilota di Berlinguer?) e Profumo è stato utilizzato l’INVALSI, attribuendo la responsabilità agli operatori, senza mettere in discussione la reale valutabilità quantitativa degli apprendimenti; e promettono un nuovo sistema di valutazione (PD-Sc preannunci addirittura «l’istituzione di un unico Istituto Nazionale per la Valutazione e la Ricerca Educativa», dunque un nuovo ente), senza dire, se non in modo estremamente sommario, in cosa differirà questa valutazione, che dovrà comunque essere effettuata da un ente esterno. Stefanel fa presente che «la valutazione è fondamentale [io su questo dissento], ma tutti i tentativi di imporne una esterna alle scuole con una valenza di qualche genere incontra ostacoli insormontabili».
Domanda: se gli autori di PD-Sc e SEL hanno in mano uno strumento di valutazione efficiente, perché non lo espongono? E se non ce l’hanno, su quali basi, constatato il fallimento della valutazione degli apprendimenti finora attuata, sostengono che un’altra valutazione è possibile?
Non sarà che, in coerenza a quanto previsto dalla carta d’Intenti “Italia. Bene Comune”, la valutazione deve rimanere perché “ce lo chiede l’Europa” (ce lo chiese nello scambio di lettere che, nell’agosto 2011, avviò la caduta del governo Berlusconi e l’incarico a Monti)?

6. Una costituente per la scuola?

Siamo verso la fine, e c’è qualcosa che non mi torna, in questi programmi.
Tutti quanti enunciano temi generali che, una volta declinati in norme e regolamenti, costituirebbero una vera e propria riforma. Ma questa riforma, chi la deve scrivere? Dietro tutti i vogliamo, chiediamo, è necessario che…, qual è il soggetto attivo di questo rinnovamento? Il PD-Sc arriva a prefigurare, com’è accaduto in Francia «per riallineare le sensibilità e le interpretazioni del compito educativo della scuola», una «grande consultazione nazionale, coordinata da un comitato [dotato] della più ampia autonomia».
Ricorderei che in Francia non è poi andata a finire bene: ma è la parola “consultazione” che inquieta. Ogni ministro, quale che fosse l’orientamento politico, ha promosso una qualche “consultazione”. Consultare è facile e democratico, soprattutto perché “ascoltare” non implica cedere il potere costituente: consultano, ma poi fanno di testa loro. E l’esperienza della Commissione Cultura e Istruzione della Camera, da Aprea a Ghizzoni, non depone a favore di un diverso orientamento.
Nel documento PD-Sc si parla di “Costituente”:

«Occorre promuovere una “costituente per la scuola”, se si vuole uscire dalla rincorsa di questa o quella emergenza e sfuggire al devastante senso comune che da troppo tempo costituisce il solo riferimento per la politica scolastica. C’è bisogno di individuare una nuova direzione per lo sviluppo dell’educazione, che tenga conto del progresso della conoscenza, del mutare dei rapporti sociali, dello sviluppo dell’economia, dei nuovi scenari aperti dalla tecnologia. Ma occorre anche valorizzare la specificità del patrimonio della cultura europea, all’interno della quale quello italiano costituisce un apporto determinante. La costituente per la scuola avrà il compito di delineare un nuovo profilo per la popolazione del nostro paese e di indicare le condizioni che consentiranno di realizzarlo».

lavorando_per_voi.jpgBenissimo: ma una costituente costituita da chi? Dal solito manipolo di esperti, dai portatori di interessi delle lobby, dal ceto politico del PD che occupa il ministero ed espone il solito cartello già visto con Berlinguer e Fioroni “Non disturbare — Stiamo lavorando per voi”?
Grazie, no!

All’interno di ALBA, all’incontro nazionale di Parma il 1 luglio 2012, fu presentato un documento (alla cui elaborazione, pur non essendo iscritto ad ALBA, avevo fornito il mio contributo) nel quale si chiedevano gli stati generali dell’istruzione e della conoscenza in questi termini:

«A noi sembra che non possa essere accettata alcuna delega, né alcuna riedizione di ipotetici principi illuminati che calano dall’alto processi di riforma da accettare con benevolente passività. Che la sola modalità che possa porre in essere una scuola come bene del comune sia una modalità di condivisione dal basso di un processo costituente. Che si possa e si debba partire dal rovesciamento dell’attacco in atto agli organi collegiali attraverso un rilancio degli organi collegiali come assemblee costituenti della scuola del comune. Che le assemblee dei docenti e dei lavoratori della scuola — che sono organi istituzionali — possano essere pensati come il principio di un movimento verso gli Stati generali dell’istruzione e della conoscenza, a partire dalla redazione dal basso di Cahiers de doléances in assemblee istituzionali o in accampate in forma di autogestione degli spazi comuni».

Nel lungo décalage che ha portato dai movimenti come ALBA alla lista Rivoluzione Civile, di assemblea in incontro la voce della scuola, come quella dei movimenti reali, si è sempre più affievolita, mentre cresceva quella dei segretari di un pentapartito di fatto (PRC, PdCI, Verdi, Arancioni-sindaci, IdV): e queste parole non sono entrate nel programma di RC. È un fatto, e bisogna prenderne atto.
Né ci si poteva in tutta onestà attendere un’apertura costituente verso i movimenti – men che meno sulla scuola – da Vendola, che per due anni ha civettato con una parte dei movimenti, battezzando “buoni” cui far vagheggiare una seggiola in Parlamento e “cattivi” da indicare ai gendarmi, per poi rientrare in terra consacrata: extra ecclesiam nemo salvatur.

Come sempre, la scuola diventa un argomento sul quale tutti hanno detto che…, a condizione che la parola e il potere costituente sia saldamente tenuto lontano dalle mani dei lavoratori della scuola.

7. I costi della scuola

La proposta di PD-Sc chiede di «riportare gradualmente l’investimento almeno al livello medio dei Paesi OCSE (6% del PIL)». In realtà la media di riferimento è del 6.3% circa, e se l’Italia si adeguasse sarebbe del 6.4%: parlando di miliardi di euro, sarebbe il caso di essere precisi, perché poi ci sono le finanziarie da scrivere. In soldoni, fanno circa 15 miliardi (a seconda delle fluttuazioni del PIL, tra 14 e 16): il che significa circa 3 miliardi all’anno.
Dove prendiamo questi soldi?

Il PD-IG promette «un ridisegno profondo del sistema fiscale che alleggerisca il peso sul lavoro e sull’impresa, attingendo alla rendita dei grandi patrimoni finanziari e immobiliari», e rimetta in moto investimenti e produttività, anche grazie a «una lotta decisa all’evasione fiscale» (ma non una patrimoniale): ma si lascia sfuggire, in PD-SC, un significativo «nell’attesa di una ripresa economica del Paese che consentirà forti investimenti». Bersani ha anche aggiunto, ridendo e scherzando [ qui], che «si deve vendere un po’ di patrimonio pubblico».
Secondo SEL «attraverso il taglio delle spese per l’acquisto degli inutili aerei da guerra F 35 possiamo recuperare risorse da investire in un forte programma di edilizia scolastica»; più in generale, nel programma si trovano tagli ai costi della politica e alle spese militari (e conseguente riconversione dell’industria bellica in «conversione ecologica dell’economia»); «politiche fiscali eque, che contribuiscano a redistribuire la ricchezza e rilanciare un piano europeo, un Green New Deal [contrapposto al Fiscal Compact], che costruisca le basi per la buona e piena occupazione, per la conversione dell’economia e dei cicli produttivi, per politiche di welfare e di cittadinanza, per il reddito minimo su scala continentale», «tassazione sulle transazioni finanziarie» e «rinegoziazione del Patto di Stabilità», e sopratutto una «vera rivoluzione fiscale […] che consentirà alla maggioranza degli italiani di pagare meno imposte grazie alle risorse prelevate da chi non ha mai pagato quanto avrebbe dovuto», consistente in una patrimoniale e una revisione delle aliquote fiscali.
RC propone una riforma della BCE che le consenta di operare «come “prestatore di ultima istanza”, comprando titoli di stato sul mercato primario, senza sottoporre gli stati già in difficoltà a condizioni capestro», una «vera Tobin Tax», lotta all’evasione, alla corruzione, all’economia illegale, e un audit sul debito pubblico e la rinegoziazione del Fiscal Compact.
Il M5S si limita a una serie di tagli (tra cui alcune grandi opere), e in una «riduzione del debito pubblico con forti interventi sui costi dello Stato con il taglio degli sprechi e con l’introduzione di nuove tecnologie per consentire al cittadino l’accesso alle informazioni e ai servizi senza bisogno di intermediari». In altra sede — ma vai a capire quando Grillo dice cose che intende realizzare, e quando apre bocca tanto per arieggiare le tonsille (o per vedere l’effetto che fa?) — Grillo ha sostenuto un referendum (costituzionalmente irrealizzabile, ma questo Grillo non lo sa) per far uscire l’Italia dall’euro e tornare alla lira: una battaglia che potrebbe vederlo accanto a Berlusconi e Forza Nuova.

Parliamoci chiaro. Che ci siano tagli e spostamenti di risorse da un settore all’altro, non sarò certo io a negarlo: ne attesta la fattibilità anche quest’anno il Rapporto Sbilanciamoci 2013, e nel mio La scuola è di tutti l’ho sostenuto, conti alla mano (e su qualche punto mi è stata data ragione dai fatti). Ma non è certo con i soli tagli agli F 35, o con la stanca retorica sull’evasione fiscale che si mettono in atto politiche strutturali.
Sembra che nessuno abbia presente la vera natura della crisi: una crisi di sistema dell’economia globale, che viene usata come un maglio per drenare ricchezza sociale e privatizzare importanti beni e settori “pubblici”. La crisi che stiamo attraversando non è causata da qualche improvvida decisione di un qualche ministro incompetente o speculatore avventato, e non la si risolve con il bravo tecnico da mettere nella stanza dei bottoni. Spostare risorse, seppure in un’ottica di equità sociale e redistribuzione fiscale, è un palliativo, se l’effetto ottenuto può essere vanificato da una manovra speculativa di questa o quella Società d’Intermediazione Mobiliare (una decina delle quali controlla due terzi dei flussi finanziari globali) che, riallargando la forbice tra titoli italiani e titoli tedeschi (il cosiddetto “Spread”) causa un aumento dei tassi d’interesse equivalente all’importo di una manovra finanziaria. O alla necessità di intervenire per salvare un grosso comune, o una regione, dalla bancarotta causata dagli interessi dei titoli derivati. O dalla “scoperta” di titoli tossici all’interno dei caveau contabili del sistema bancario italiano [8].

Dalla crisi si esce rovesciando le regole del capitale finanziario: promuovendo, in accordo con Grecia, Spagna e Portogallo, una comune strategia improntata sul diritto al default selettivo e alla ridiscussione del debito con le grandi SIM; mettendo in discussione, sulla base della legge sul tasso d’usura e sulla recente sentenza che ha condannato Deutsche Bank, Ubs, Jp Morgan e Depfa Bank per truffa sui derivati stipulati dal Comune di Milano (nel 2005); introducendo nell’ordinamento italiano il “debito odioso”, ossia, secondo una moderna riformulazione, un «debito contratto contro gli interessi dei cittadini di uno Stato, senza il loro consenso e senza la piena conoscenza di chi siano i creditori»; riformando l’Euro a partire da quella che Christian Marazzi ha chiamato “moneta del comune”, cioè «quella moneta che dà espressione e riconosce ciò che è comune nella moltitudine, diciamo così, in uno spazio politico, sociale, demografico quale è oggi l’Europa».

Senza questo orizzonte di senso, persino proposte di buon senso come l’audit sul debito o la ridiscussione del Fiscal Compact sono al più ingenue illusioni. Certo, queste proposte implicano una lotta non breve e non facile per modificare in modo radicale l’attuale assetto economico e politico dell’Europa: e da nessuno dei programmi esaminati si ricava questa volontà. Come sia poi possibile una radicale riforma di senso e di strutture della scuola in un quadro generale che resta immutato, e dunque sottoposto agli effetti della crisi, resta quantomeno misterioso, almeno per me.

Note al testo

* Nota di metodo. Per i programmi elettorali, faccio riferimento, per il PD, al programma L’Italia giusta. Programma, e a quello del suo dipartimento scuola L’Italia giusta. Il futuro si prepara a scuola, nonché ai documenti (indicati come parte integrante del programma) Valutazione e rilancio della scuola italiana (Forum Politiche dell’Istruzione del Partito Democratico, agosto 2010) e Scuola. Guardiamo al futuro (ottobre 2010). Per SEL, il programma generale (la scuola è all’interno della voce “Formazione”), e il documento (che però non è indicato come parte del programma) “Quaderni di scuola” (ottobre 2012); per entrambi la carta d’intenti Italia. Bene comune, sottoscritta dai partecipanti (candidati ed elettori) alle primarie del centrosinistra (alle quali ha partecipato anche il PdCI, peraltro interno alla coalizione di Ingroia);strage_di_bologna.jpg per Rivoluzione Civile La nostra Rivoluzione Civile (la scuola è al punto 8: “Per la conoscenza e la cultura, per un’informazione libera”); per il Movimento 5 Stelle, il programma generale (la scuola è alla voce “Istruzione”).
Per i programmi del centro-destra e della Lista Monti parlano le politiche dei rispettivi ministri Gelmini e Profumo, che non vengono messi in discussione.
Per i programmi di CasaPound, Forza Nuova, Destra Sociale e Movimento Sociale-Fiamma Tricolore basta l’immagine a destra.

[1] Non considero “di sinistra” il M5S, ma tengo presente che ci saranno elettori soggettivamente collocati “a sinistra” che lo voteranno. In altri termini, mi interessa meno di zero un movimento “né di destra né di sinistra”, “oltre il fascismo e l’antifascismo, il razzismo e l’antirazzismo”: considero queste affermazioni di Beppe Grillo espressione di un qualunquismo reazionario. Ma mi interessa una parte del suo probabile elettorato, ad esempio i grillini interni al movimento No Tav.

[2] Stefano Stefanel, L’interessante proposta del PD sulla scuola: promessa costosa. Stefanel, dirigente scolastico friulano, è un osservatore col quale non sempre sono d’accordo: ma non faccio alcuna fatica a riconoscergli una reale competenza; sulla divergenza delle nostre opinioni rimando al nostro “carteggio” del novembre 2010.

[3] È la nota affermazione di Lenin nel cap. 5 di Stato e rivoluzione, ripresa più volte anche da Trotskij.

[4] «Negli anni Novanta fu il centrosinistra, con Cassese e Bassanini, a realizzare una stagione di riforme della PA che ha riguardato temi decisivi: semplificazioni amministrative, disciplina della dirigenza, contrattualizzazione del rapporto di lavoro»: Pubblica amministrazione. Un settore pubblico di qualità per far ripartire l’Italia, Assemblea Nazionale PD, 4-5 febbraio 2011. Inopinatamente, al punto 10 dello stesso socumento si afferma che «La dirigenza deve essere autonoma, responsabile, libera dagli effetti negativi dello spoils system, pratica che ha prodotto una forte immissione nel sistema di pseudo dirigenti affini alla politica»: ma lo spoils system è stato introdotto nelle PP. AA. proprio dalla riforma Bassanini!

[5] Stefanel, L’interessante proposta…, cit.: «Se ci sono insegnanti a 18 ore e insegnanti a (poniamo) 40 ore dove va a finire la collegialità? E come si integrano le ore? Inoltre nella proposta della Puglisi c’è una evidente progressione di carriera dei docenti, che dovrebbe essere esplicitata in forma un po’ più organica e omogenea e non in forma così implicita».

[6] Con buona pace di PD-Sc: «la scuola secondaria superiore, a differenza della Primaria, non è mai stata riformata, tant’è che l’attuale impianto, anche dopo il “riordino della Gelmini”, è rimasto quello gentiliano basato su quattro ordinamenti separati tra loro».

[7] Mi permetto di citare un aneddoto personale. In una puntata di “Agorà”, dibattendo di scuola con il segretario della CISL Scuola Scrima, il senatore del PDL Asciutti, il giornalista (absit invidia verbo) di “Libero” Borgonovo e la responsabile scuola del PD Puglisi, nell’ultimo minuto ho nominato la lobby della Compagnia delle Opere – Comunione e Liberazione [ qui, al minuto 29:20]. Come potete verificare, Scrima (che aveva già cercato di togliermi la parola) e Asciutti hanno immediatamente cominciato a urlarmi contro. Secondo voi Francesca Puglisi ha speso una sola sillaba in mia difesa?

[8] Me ne sono occupato soprattuto in due testi, NON SI PA’! Appunti di lettura sulla manovra e sul commissariamento dell’italia, e Dalla parte di Penelope. La Grecia, le favole, la parresia e il dovere di narrare la verità.