di Franco Pezzini
Un-death on Mars
Tra le iniziative legate al centenario stokeriano appena chiuso, una delle più importanti in Italia è senz’altro rappresentata dalla mostra Dracula e il mito dei vampiri, aperta dal 23 novembre 2012 al 24 marzo 2013 alla Triennale di Milano in collaborazione con il Kunsthistorisches Museum di Vienna: e la parte più affascinante è senza dubbio quella che riguarda il romanzo e i suoi precedenti anche remoti. Ci sono ricordi di Stoker esposti per la prima volta quaggiù (il diario da poco ritrovato, la copia del Dracula regalata alla madre); documenti vampirologici di vario tipo, a cavallo tra il fenomeno folklorico e quello letterario; e naturalmente reperti sull’altro Dracula, il voivoda valacco Vlad III in arte Tepes, l’Impalatore, protagonista di un’eroica e feroce epopea. A partire da un paio di suoi ritratti che accolgono all’ingresso — e che, per quanto noti da infinite riproduzioni in volumi o sul web, visti dal vero suscitano una certa impressione.
Il primo, il più antico tra quelli a pittura, è il celebre mezzobusto dall’aria sinistra della Wunderkammer del castello di Ambras a Innsbruck (la didascalia cita il museo viennese, di cui il castello è sede distaccata): e la destinazione a tale galleria d’immagini di mostri “veri”, collezionata dall’entusiasta Ferdinando II arciduca del Tirolo, può meglio spiegare l’espressione straniata e una biffa lupesca che piacerebbe a Lombroso. Mentre il secondo a figura intera, proveniente dal castello di Forchtenstein, e dipinto con tutt’altro spirito su commissione del principe Paolo I Esterházy per la sua Galleria degli Antenati, lascia emergere le contraddizioni del personaggio nel divario tra un sembiante eroico e le pupille grattate via (più tardi, nel Settecento) per purgarne l’aria demoniaca.
E mentre mi soffermo lì davanti, all’improvviso quei tratti mi riportano indietro nel tempo, agli inizi degli anni Settanta.
Per molti anni, in famiglia, la consuetudine è stata di mangiare da mia nonna ogni sabato a pranzo. Tornavo da scuola e arrivavo lì con la cartella, stessa via di casa nostra a pochi portoni di distanza; e in attesa di sedermi a tavola con gli altri, o subito dopo, mi tuffavo sulle riviste a colori, di grande formato, che la nonna settimanalmente comprava. C’era ‘Il Radiocorriere TV’, con le anticipazioni dei programmi della settimana e un corpo straordinariamente “colto” (a confronto coi siparietti odierni) di articoli e interviste a uomini di spettacolo e di cultura; c’erano ‘Epoca’, e — più popolare — ‘La Domenica del Corriere’; e oltre agli ovvi rotocalchi per signora c’erano quelle riviste, ‘Oggi’ e ‘Gente’, che tra la messe di notizie su cantanti, gastronomi e sportivi riportavano anche vicende curiose di tutt’altro tipo, nefandezze da true crime e spesso storie “vere” (in tutte le possibili accezioni dell’aggettivo) del mistero e dell’occulto.
Credo sia difficile per un lettore odierno mettere a fuoco la potenza dell’impatto che all’inizio degli anni Settanta l’irrazionale conobbe sulle riviste popolari nostrane. Era una sorta di tributo obbligato: trovavi l’intervista a Orietta Berti, il pezzo su Padre Eligio, qualche ossequiosa concessione alla politica — tipo la serie degli orridi pranzi patrocinati da un settimanale, con il Cossiga di turno invitato a tavola insieme a cronista e fotografo da una famiglia ossequiosa, in un simulacro di dialogo popolare col Palazzo — e poi all’improvviso compariva il servizio sulla casa infestata, il mostro di Loch Ness o i dischi volanti.
A farla da padroni, erano spiritismo e parapsicologia — le varianti dell’occulto da noi più diffuse e del resto avvertite come più presentabili, cioè senza streghe nude o eccessi alla Crowley: un sottomondo di tavolini danzanti e reincarnazioni assortite, meraviglie alla Rol, chirurghi filippini (quelli che, si sosteneva, potevano a mani nude intervenire nelle interiora di un paziente “operandolo” magicamente), forchette di Uri Geller e melodrammi post mortem dal sapore de La vita in diretta. Persino ‘Grazia’ poté vantare per un periodo una serie di racconti su casi paranormali risolti — così si sosteneva — dall’astrologo della testata, e narrati da qualche ghostwriter di onesta penna. Ma non mancavano saghe di diavoli sull’onda de L’esorcista (il libro di Blatty era apparso nel ’71, il film di Friedkin alla fine del ’73); e a volte, con toni intriganti e sensazionalistici, ripescaggi di storie strane dei secoli passati. In realtà tutto l’Occidente ardeva all’epoca di questo febbricitante recupero, che aveva visto maturare all’improvviso semi gettati nel corso del decennio precedente: e con le nuove crisi economiche e la ridefinizione dei modelli culturali — cui il cinema offriva risonanza tra pregiudicatezza e sperimentazione, come mostra una semplice scorsa dei titoli coevi di pellicole di genere — ecco spalancarsi a un ragazzino curioso nato agli inizi dei Sessanta un orizzonte di fantasie di straordinaria virulenza.
Un sabato mi trovo dalla Nonna, la pioggia scroscia ma lì si sta bene, luci calde e il tempo mitologicamente dilatato del weekend con tutti i riti di un’età; e proprio nello sfogliare una rivista (appunto ‘Gente’, o forse ‘Oggi’), mi imbatto in un articolo che mi colpisce. Parla di una contessa che faceva il bagno nel sangue delle ancelle: e giù di paragrafo in paragrafo particolari turpi, sia pure nella forma per famiglie concessa al rotocalco, ma ghiottissimi per un ragazzino che di simili storie non ha mai sentito parlare, e titillanti tutta la ferocia dell’adolescenza. C’è anche un ritratto della sciagurata, a colori, a tutta pagina — e all’epoca le pagine le stampano grosse, per cui l’incontro col viso non simpaticissimo di Erzsébet Báthory mi resta a suo modo indimenticabile. Ovvio che la vulgata sulla Contessa Rossa attinga ancora al romanzo-saggio di Valentine Penrose di una decina d’anni prima, in realtà infarcito di allegre libertà surrealiste; ma a riportarlo alla ribalta è il boom d’immagine che il personaggio ha conosciuto proprio alla svolta dei Settanta su grande schermo, in una pletora di film tra il pruriginoso e il visionario.
Un secondo ritratto viene invece da un’incisione, e mostra un tipo dall’aria truce coi baffoni e uno strano copricapo: anzi l’articolo incalza con la storia di lui, il principe che impalava i nemici turchi e avrebbe offerto modello per il vampiro Dracula. Quest’ultimo particolare all’epoca non mi colpisce molto, richiamando banalità come i denti finti di Carnevale (mai usati, scomodissimi), e un tipo in frac che non trovo interessante. Film di vampiri al tempo non ne ho mai visti (la RAI di quei giorni non ne trasmette e al cinema vado poco), del romanzo di Stoker conosco l’esistenza ma nella biblioteca di casa non può esisterne copia, e quell’abito da damerino mi pare troppo imbastito per un mostro serio. Comunque l’articolo in questione, letto quando ho forse undici anni — posso datarlo in termini ipotetici supponendo non sia di molto successivo all’uscita in Italia nel ’73 del saggio di McNally e Florescu di cui parlerò — mi resta nella memoria. Quando poco tempo dopo, passando davanti a un cinema di zona, intravedo le locandine de I satanici riti di Dracula, 1974, ultima apparizione col mantello di Christopher Lee per la Hammer, la cosa comunque mi suscita curiosità.
Passa ancora del tempo e un sabato pomeriggio del ’76 sono di nuovo a casa della Nonna, sfogliando di nuovo riviste illustrate: e stavolta su ‘La Domenica del Corriere’ m’imbatto in un articolo che conservo ancora. A parte qualche errore (comprensibile all’epoca) il pezzo a firma di Marco Sorteni, Che fa ora Dracula? Dissangua i turisti, appare in occasione dell’Anno di Dracula proclamato con clamore dalle autorità rumene per il cinquecentenario della morte dell’antesignano di Ceausescu. Vi si parla del voivoda Vlad, della sua epopea storica — e io impazzisco per la storia “in costume”, tanto più se a tinte forti; ma si parla anche del vampiro di Stoker, che attraverso la maschera di Lee (foto, spiegazioni) scopro totalmente diverso dal bozzetto manierato di carnevale. Tra le varie notizie, il pezzo menziona come metamorfosi “più recente” di Dracula l’Andreotti-vampiro di Tullio Pericoli, “pubblicato in copertina sull’ultimo numero di ‘Linus’” — una caricatura poi assurta a notorietà di paradigma. Ma a interessarmi di più è il riferimento a due studiosi di Boston, Raymond T. McNally e Radu Florescu: rammento di aver visto un loro libro sugli scaffali del libraio del quartiere, e corro a procurarmelo quello stesso pomeriggio. Alla ricerca di Dracula, uscito nel ’72 in America e l’anno dopo da noi per i tipi Sugar, mi spalanca così un impensato orizzonte dell’immaginario, spingendomi a leggere il romanzo e a cercar di vedere tutti i film lì citati. Quando, molti anni dopo, conoscerò McNally, avrò modo di ringraziarlo del regalo fatto a un ragazzino.
Ma non solo a me, altrimenti questo racconto avrebbe poco valore. Infatti gli studi dei due professori (quello citato ma anche altri saggi, articoli, sceneggiature per documentari) conoscono in quegli anni fortuna planetaria: il successo popolare della “scoperta” che dietro al Dracula immaginario ne esista un altro in carne e ossa — un dato peraltro noto ai cultori di storia dell’Est, e che in precedenza già filtrava in modicissime citazioni persino in qualche testo italiano — conduce ben presto l’immaginario collettivo ad appropriarsi del riferimento quattrocentesco. Da allora, poco alla volta, nell’uso narrativo e cinematografico i nomi Dracula e Vlad diverranno praticamente intercambiabili; e l’ibridazione celebrata da Coppola non sarà che la codificazione più poetica e suntuosa della “scoperta” dei due saggisti.
A tutt’oggi è possibile trovare citato con pretese di serietà storica il fatto che Stoker abbia modellato il suo personaggio a partire dal voivoda, la cui vita avrebbe accuratamente studiato: un’idea basata sulla libera rilettura, con qualche equivoco aggiunto, proprio di quei primissimi studi di McNally e Florescu. Certo, procedendo nelle ricerche i due studiosi ridimensioneranno radicalmente l’importanza del voivoda per il romanzo di Stoker, ma ciò non basterà a contenere un fenomeno, a tutti gli effetti, di mitopoiesi: è troppo bello saldare i due Dracula, troppo intrigante immaginare che un eroe mitico debba per forza ispirarsi — sia pure in termini liberi — a un precedente concreto, a una figura in carne e ossa che lo ha “determinato” e di cui sia possibile seguire le piste. Tanto più che da questo evemerismo popolare a una florida industria turistica il passo si rivela breve.
Occorre invece capire come Stoker recepisce il riferimento. Anzitutto, come sappiamo dagli appunti, la costruzione del personaggio del terribile Conte — inizialmente stiriano, prima innominato (“Count _ Styria”: 8 marzo 1890), poi chiamato Wampyr, e con una serie di allarmanti caratteristiche — precede di vari mesi la casuale scoperta del nome “Dracula” e del relativo personaggio storico. Tra luglio e settembre 1890 Stoker è in vacanza nello Yorkshire, a Whitby, e in biblioteca s’imbatte nel volume An Account of the Principalities of Wallachia and Moldavia dell’ex-console britannico a Bucarest William Wilkinson, 1820: vi si menzionano due voivoda coinvolti in conflitti coi Turchi e noti come Dracula, ciò che “nella lingua valacca significa Diavolo”. Wilkinson non lo specifica, ma i due personaggi corrispondono a Vlad II in genere detto Dracul, e a suo figlio Vlad III, appunto Dracula Tepes; e Stoker riassume quei dati in una nota dattiloscritta, la cui fotografia è esposta alla mostra milanese.
Non solo: non sappiamo con precisione quando Stoker decida di sostituire il nome “Dracula” al precedente “Wampyr”. Se si può immaginare che ciò avvenga in tempi stretti dopo la scoperta del testo di Wilkinson, quindi nell’estate ’90 o poco dopo, resta il fatto che la prima attestazione con data certa della nuova identità anagrafica del Conte rimonti solo al 29 febbraio 1892, insieme ad alcuni toponimi poi importanti per l’economia del romanzo — Whitby (guarda caso), Bistritz e Passo Borgo. Il fatto è che nel frattempo Stoker ha scoperto un bellissimo corpo di tradizioni folkloriche su una terra dal nome che è tutto un programma, la Transilvania, e ha deciso di trasporvi la vicenda. In tali letture ha anzi rinvenuto a più riprese un termine locale dall’assonanza pittoresca, che richiama il diavolo: negli scritti di Emily de Laszowska Gerard si menzionano per esempio i toponimi Gregynia Drakuluj (il giardino del diavolo), Gania Drakuluj (la montagna del diavolo), Yadu Drakuluj (l’inferno o l’abisso del diavolo). Tutto l’insieme ha insomma condotto al cambio di nome: ma il profilo del Conte vampiro, come detto, era già deciso prima di incontrare il presunto “ispiratore”.
Ancora: del Vlad storico, a ben vedere, Stoker sa davvero pochino. La nota dattiloscritta tratta da Wilkinson, e riferita a Vlad figlio, costituisce l’unica traccia certa di ciò che egli conosca sul personaggio: cioè un combattente antiturco il cui nome può richiamare coraggio o crudeltà, ma in termini piuttosto generici. Probabilmente Stoker ignora che il voivoda si chiamasse Vlad (Wilkinson — e con lui la nota di Stoker — cita come “Bladus” il fratello filoturco di Dracula, che noi sappiamo chiamarsi Radu); come può ignorare le storie sulla sua pirotecnica crudeltà, e l’uso dello strumento di morte che lo faceva soprannominare l’Impalatore. Nulla prova che tali informazioni possano venire a Stoker da altra via, e per esempio, non è assolutamente provato che le rivelazioni sul Conte fornite (nel romanzo) a Van Helsing dall’amico Arminius corrispondano a informazioni fornite (nella realtà) a Stoker dall’illustre orientalista ungherese Arminius Vambéry, conosciuto nel 1890 e incontrato nuovamente due anni dopo: è anzi legittimo immaginare che a quel punto ne utilizzerebbe qualche scampolo, ma tutto resta sul piano delle ipotesi. E d’altra parte nessuna tradizione originale riconduce l’Impalatore alle leggende sui vampiri. Certo, virtualmente può collegarli il sapore gore dei rispettivi racconti, se vogliamo la simbolica del palo/paletto, e soprattutto il contesto geografico di quel mondo estremo delle Indie d’Europa: ma il concreto collegamento si esaurisce nell’identificazione di un “Dracula” con un vampiro.
E ancora: lo spunto dal testo di Wilkinson viene comunque ibridato con suggestioni tanto diverse da render chiaro che il personaggio storico è per Stoker poco più di un nome. Gli piace l’idea di attribuire al proprio conte non-morto — il vecchio boss malvissuto con le pupe succhiatrici, il tipo che non compare negli specchi e muta in animale — uno statuto di grande guerriero: una caratteristica che aiuterà a spiegare come egli possa tenere in scacco un’intera squadra di nemici forti di armi e valori della civiltà. Ma, con libertà di artista, gli attribuisce anche una “cultura senza paragone” e lo rende stregone, allievo della Scolomanza dove il demonio insegna la magia, nonché alchimista: mentre nessuna fonte storica, neppure le più polemiche, attribuisce tali caratteristiche al voivoda Vlad. E a mischiare ulteriormente le carte è lo stesso rapporto ambiguo, nel romanzo, tra due personaggi celebrati con orgoglio dal Conte nella “lezione di storia” all’ospite Harker: due membri della stirpe Dracula che dalle gesta narrate sembrano corrispondere rispettivamente a Vlad III e al suo epigono Michele il Bravo, che respinto nel suo attacco oltre il Danubio attaccò ancora e ancora (1595, 1596, 1598). Non è chiaro se il Conte intenda identificarsi con uno dei due o se Stoker preferisca lasciare la faccenda nel vago. Ma nel prosieguo della vicenda Van Helsing & compagni sembreranno confondere i candidati o identificare il Conte con le caratteristiche del secondo Dracula del discorso, Michele e non Vlad — probabilmente un lapsus del narratore, che può tuttavia risultare significativo del suo disinvolto uso delle fonti.
Insomma, che alcuni singoli spunti, regalati a posteriori a un personaggio già dotato di un profilo fantastico abbastanza preciso, vengano detti costituire il modello d’ispirazione per Dracula pare davvero un po’ forte. Il legame è piuttosto indiretto e virtuale, o parziale, come la singola faccia di un prisma. E legato soprattutto a quel nome dal sapore di drago e di demonio con cui il romanzo alla fine verrà intitolato: lasciando così libero nel mondo uno spettro capace di coagulare — ben oltre le più sfrenate speranze dell’Autore — fantasie, incubi e desideri del suo tempo, ma insieme aperto a tutti i successivi. Eppure…
Eppure in un mondo senza internet, con poche reti TV piantonatissime dalla censura, scarse possibilità di accedere a pellicole “per grandi” e argomenti banditi dalle librerie di case perbene, per me è stato proprio Vlad con il suo corrusco sfondo storico ad aprire le porte a Dracula, a costituirne un modello almeno virtuale, a suggerire che gli eroi dell’immaginario popolare si muovono sempre su più piani — visto che accedono alla sfera del mito. E del resto, ben al di là degli orizzonti di un ragazzino, è legittimo chiedersi quanti seri ricercatori abbiano cominciato a prendere in considerazione il personaggio di Stoker solo dopo aver scoperto che attraverso Vlad flirtava con la Storia, diventando così “presentabile”. Poco importa, a quel punto, se un necessario senso critico e più approfondite ricerche riveleranno che il nesso vagheggiato è debole. Anzi McNally continuerà fino alla fine, col suo candido entusiasmo alla Discovery Channel, a indagare sulle origini degli eroi gotici: il suo ultimo caso, sul “modello” di Carmilla, verrà interrotto da un male cattivo come certi voivoda dell’est, e che l’aglio non basta a esorcizzare. Ma questa è un’altra storia.
Resta un fatto: che sull’immaginario dell’Occidente (e non solo), l’impatto di Vlad e della sua bellissima, tortuosa, in parte enigmatica vicenda sarà vastissimo. Come in un 3D illusionistico, alla dimensione del Dracula letterario e a quella cangiante delle sue infinite trasposizioni se ne raccorda ormai indissolubilmente una terza: e il volto di un principe forse altrimenti condannato all’oblio, e certo sepolto ai confini remoti di un’Europa del passato, occhieggia ora nelle fantasie della società liquida, scorrazza nella cultura pop, si fa largo da mattatore alla Triennale di Milano.
Dal salotto di mia nonna ai Carpazi, è con questi pensieri che saluto il voivoda ed entro alla mostra.