di Mauro Baldrati
Secondo Il foglio La regola del silenzio è il film “più ridicolo dell’anno”. I motivi sono soprattutto la vecchiezza di Robert Redford, i suoi capelli tinti (ma che curioso sarcasmo, Colui che questi giornali incensano, coetaneo di Redford, come disse un comico non ha una “moquette dipinta” al posto dei capelli?), la sua corsa nel parco, e “quando va a letto con Julie Christie” la “giornalista” deve distogliere “pudicamente” gli occhi “per non sghignazzare”. Vale a dire che il sesso tra settantenni è di per sé oggetto di dileggio.
In realtà l’astio di una certa cultura “moderata” deriva soprattutto dal fatto che un democratico americano in odore di Obama racconta di un movimento “terrorista” di sinistra, ovviamente senza invocare le forche agli angoli delle strade. Anzi, ne rivendica addirittura alcune cose giuste. Insostenibile. Offensivo. La pressione sale a 1000.
Ciò premesso, nel film i Weathermen sono appena accennati, e in maniera piuttosto laterale. Nato alla fine degli anni Sessanta come movimento di protesta contro la guerra in Vietnam, il Weather Underground decise di uscire dal pacifismo e di passare ai fatti con azioni dimostrative (attentati dinamitardi contro obiettivi strategici come il Campidoglio, o l’amministrazione penitenziaria della California, evasione di detenuti tra cui Timothy Leary), nelle intenzioni senza causare morti e feriti. Il gruppo dirigente entrò in clandestinità e fu oggetto di una furibonda caccia all’uomo da parte dell’FBI. Come altri movimenti giovanili, ha scontato il limite di un riferimento alle avanguardie rivoluzionarie senza avere un vero seguito di massa. In questo vi sono echi del marxismo-leninismo europeo di stampo maoista (anche se il linguaggio è totalmente diverso), che si divideva in due correnti principali: le avanguardie devono “guidare” il popolo verso la rivoluzione, le avanguardie devono “accompagnare” il popolo, “servirlo” nella sua marcia rivoluzionaria. Il passaggio all’atto è stata una decisione unilaterale, una scelta soprattutto individuale.
In parte tutto questo emerge dai dialoghi dei personaggi principali, Susan Sarandon (Sharon), l’irriducibile Julie Christie (Mimi), lo stesso Redford (Jim Grant), che tuttavia si esprime pochissimo, apparendo più che altro come un vecchio uomo indurito, chiuso nel suo silenzio. Il film ha un’impronta personale, esistenziale. D’altra parte dalla narrazione cinematografica non si pretendono saggi né didascalie, ma racconto, stile. Sono tutti dei reduci: ex rivoluzionari mascherati con la pistola in mano, ricercati per una rapina finita male (l’omicidio di una guardia giurata), che si sono rifatti una vita, nascosti nel loro rizoma borghese (qui i Teorici nostrani del Tradimento Del Sessantotto troveranno un boccone succulento). Susan Sarandon era in crisi da anni, tormentata, sembra, dal rimorso. Aspettava solo che i figli diventassero grandi per costituirsi. Un giovane giornalista-segugio riesce a smascherare anche Redford, che ha cambiato nome ed è diventato avvocato. Inizia la sua fuga, braccato dal giornalista e da tremendi, patinati agenti del FBI, macchiette disumane interessate solo a catturare “il pericoloso latitante” per sbatterlo in galera (e qui i “giornalisti” moderati non dovrebbero andare in visibilio?).
Durante la fuga contatta altri weathermen che hanno cambiato identità, un professore, un imprenditore del legno (Nick Nolte), ma soprattutto cerca una misteriosa militante che potrebbe svelare l’enigma che avvolge il personaggio Redford-Jim Grant. E qui vengono fuori i vissuti: La Sarandon e in parte Redford parlano di “errori”, di difficoltà di giudicare oggi, ma soprattutto di cambiamento. Tutto cambia, tutto si evolve, e il motore potente sono i figli. E’ la nascita di un figlio che fa cambiare la visione del mondo e della politica. Resta la violenza del potere, restano gli omicidi impuniti di studenti da parte del FBI (che non sono certo invenzioni cinematografiche, oltre agli omicidi veri e propri sui giornali underground dell’epoca c’erano denunce circostanziate sulle infiltrazioni di agenti FBI che spacciavano eroina tra gli studenti, per rovinare il movimento), restano i massacri in Vietnam, resta il fatto che “avevamo ragione” (Le proteste degli anni ’70 hanno un gran valore anche oggi, ha dichiarato Redford a Venezia). Qui sorge spontaneo il paragone con l’Italia, dove il pensiero unico verte unicamente nell’isterico, calogeriano “tutti terroristi, tutti uguali, in galera!”. Resta anche la sconfitta, il dilemma se “avevamo ragione” significava rapinare furgoni e banche, per continuare in clandestinità fino alla fine. Resta, forse, l’impossibilità di una vera scelta. Poi a un certo punto nasce un nuovo essere umano, innocente, inconsapevole, con dei diritti, delle speranze, e con lui nasce la voglia di ricominciare, di trovare altre strade, di creare, e costruire. Ma il passato non si può cancellare, ci insegue, ci minaccia con la sua richiesta implacabile di espiazione.
Questo è il centro dinamico di La regola del silenzio. Film sincero, thriller senza spargimento di sangue, non grandioso né particolarmente innovativo, col limite di una visione democratica-calvinista sull’innocenza che “deve” venire alla luce, con un personaggio principale, Jim Grant, che ricopre il ruolo del cavaliere senza macchia che non combatte per sé, ma per la figlia, sui doveri, sul sacrificio, sulla presa di distanza dalla contestazione violenta, sui buoni sentimenti che, con un finale che più americano non si può, “devono” trionfare, come impone l’epica della mai dimenticata Frontiera.
(In appendice riportiamo il primo comunicato dei Weathermen passati in clandestinità, diffuso il 21 maggio 1970)
“In tutto il mondo coloro che si battono contro l’imperialismo americano guardano alla gioventù d’America e attendono che essa sfrutti la sua posizione strategica dietro le linee del nemico e unisca le proprie forze per la distruzione dell’impero.
I neri hanno combattuto da soli per anni. Sapevamo che il nostro compito era di guidare i ragazzi bianchi alla rivoluzione armata. Non è mai stata nostra intenzione trascorrere i nostri prossimi cinque o venticinque anni in galera. Da quando l’SDS è diventata un’organizzazione rivoluzionaria abbiamo cercato di mostrare come è possibile superare la frustrazione e il senso di impotenza che colpiscono chiunque cerchi di riformare questo sistema. I ragazzi sanno che oggi il gioco è fatto: la rivoluzione investa la vita di tutti noi. Decine di migliaia hanno imparato che proteste e marce sono lettera morta. L’unica strada da seguire è quella della violenza rivoluzionaria.
Noi oggi stiamo adattando la strategia classica della guerriglia Vietcong e la strategia della guerriglia urbana dei Tupamaros alla nostra situazione qui, nel paese tecnologicamente più avanzato del mondo.
Il Che ci ha insegnato che “i rivoluzionari si muovono come il pesce nell’acqua”. L’alienazione e il disprezzo che i giovani provano per questo paese hanno creato l’oceano per la rivoluzione.
Le centinaia, e poi le migliaia di giovani che manifestarono negli anni Sessanta contro la guerra e per i diritti civili sono diventati le centinaia di migliaia che in queste ultime settimane si sono battuti contro l’invasione della Cambogia ordinata da Nixon e il tentativo di genocidio contro i neri. La follia della ‘giustizia’ americana ha aggiunto alla lista delle sue atrocità l’uccisione di sei neri ad Augusta, di altri neri a Jackson e di quattro studenti bianchi della Kent State University, trasformando migliaia di altri giovani in rivoluzionari.
I genitori dei ragazzi ‘privilegiati’ hanno continuato a dire che per noi la rivoluzione era un gioco. Ma la guerra e il razzismo ci mostrano che questa società è definitivamente marcia. Noi non vivremo mai pacificamente sotto questo sistema.
Questo si è dimostrato totalmente vero per i tre che sono morti nell’esplosione di New York. La terza persona che vi è rimasta uccisa era Terry Robbins, che guidò la prima ribellione alla Kent State meno di due anni fa. (*)
I dodici Weathermen incriminati per aver diretto gli scontri dello scorso ottobre a Chicago non hanno mai lasciato il paese. Terry è morto, Linda [Evans] è stata catturata da un informatore dei porci, ma il resto di noi va e viene liberamente in ogni città, dovunque esistono liberi aggregati di giovani in questo paese. Non ci nascondiamo, ma siamo invisibili.
Ci sono parecchie centinaia di Weathermen nella clandestinità, e alcuni di noi rischiano più anni di galera di tutti i cinquantamila disertori e i renitenti alla leva che si trovano in questo momento in Canada. Parecchi di loro stanno già rientrando per unirsi a noi nella clandestinità o per ritornare nell’esercito dell’avversario e unirsi a coloro che vi sono sempre rimasti, e scatenarvi il caos.
Combattiamo in molti modi. l’erba è una delle nostre armi. Le leggi contro la marijuana fanno di noi dei fuorilegge prima ancora che rompiamo definitivamente con il sistema. Il fucile e l”erba’ sono uniti nel movimento giovanile clandestino.
I freaks sono rivoluzionari e i rivoluzionari sono freaks. Se ci volete trovare, ecco dove siamo: in ogni tribù, comune, dormitorio studentesco, fattoria, baracca dell’esercito e appartamento dove i ragazzi fanno l’amore, fumano ‘erba’ e caricano le pistole — in tutti questi posti i fuggiaschi dell’America possono liberamente andare.
Per Diana Oughton, Ted Gold e Terry Robbins una cosa era ormai chiara da tempo, ed è chiara per tutti i rivoluzionari che sono ancora in movimento: non torneremo mai indietro.
Nelle prossime due settimane attaccheremo un simbolo o un’istituzione dell’ingiustizia americana. E’ in questo modo che celebreremo l’esempio di Eldrige Cleaver e di H. Rap Brown e di tutti i rivoluzionari neri che per primi ci ispirarono lottando dietro le linee del nemico per la liberazione del loro popolo.
Essi non combatteranno mai più soli.”
(*) Il riferimento è all’esplosione accidentale di un ordigno in preparazione in un seminterrato del Greenwich Village, avvenuta il 6 marzo 1970. Rimasero uccisi, oltre a Terry Robbins, Theodore Gold e Diana Oughton. Il progetto era di farlo esplodere nella base militare di Fort Dix, New Jersey.