di Dziga Cacace
Più diventa tutto inutile e più credi che sia vero
E il giorno della fine non ti servirà l’inglese
Franco Battiato, Il Re del mondo
435 — Le invasioni barbariche, un capolavoro di Denys Arcand, Canada/Francia 2003
Genova è gelida, congelata nel clima post-natalizio, ferma. In centro non c’è nessuno e invidio questa inattività, quando a Milano è il caos sempre, prima, durante e dopo le feste e l’ingegnere automobilistico che ha inventato le quattro frecce ci ha condannato a questo maelström. Quasi per caso c’imbattiamo in un piccolo intensissimo film che ci riscalda il cuore, Le invasioni barbariche, uno dei migliori che abbia visto negli ultimi anni. Ovvio: sono un sentimentale e un nostalgico e questo è una sorta di orazione funebre a un modo di prendere la vita, come affrontarla e combatterla; ed è un film perfetto. Per me, ovviamente, perché io, di fronte al fallimento di tutte le utopie, continuo a crederci lo stesso, e la sorta di eutanasia dell’ideale che Arcand mette in scena è un singolare invito a non arrendersi. Lo fa nel modo migliore: prendendo un’ironica distanza, consapevole, comunque coerente, e raccontando una storia con dei personaggi che — a fine film — ti pare di conoscere da una vita. Mi capita raramente, ma capita, e quando succede son cazzi amari: ero commosso come un bimbo e ho passato il secondo tempo a mordermi la lingua e le dita per non singhiozzare, mentre ruscellavo lacrimoni con un doloroso groppo in gola. Farti innamorare così del protagonista principale, del suo caratteraccio, della sua splendida pubblica disonestà intellettuale (che è una formidabile prova di onestà privata), beh, è una crudeltà micidiale se poi, questo personaggio deve morire. E deve morire così lentamente, facendoti vivere (e soffrire) la lenta dissoluzione, sperando che ancora resista un poco e ci regali un sorriso, una frase, un’ultima legittima cattiveria. Non si tratta di uno spoiler, queste sono le premesse del film. Quello che non posso rovinarvi è il come, la delicatezza e l’intensità della vicenda, le pennellate lievi del racconto e le mazzate gravi dell’esistenza… comunque scriverò come se sapeste già tutto, per cui se leggete oltre, poi, non lamentatevi.
Le invasioni barbariche è un film che ti prende alla gola, stimola le ghiandole lacrimali e respinge un’analisi cerebrale. È la storia di un uomo che sta morendo, Remy, l’uomo che amava le donne e la bella vita, ma con consapevolezza politica e autoironia. Ha un figlio, Sebastian, col quale non s’è mai inteso. Remy è evidentemente un radical chic, ricco e molto colto, fautore dell’intervento statale nella società, vicino a tutte le cause perse della sinistra mondiale. Il figlio caprone e di successo ha invece abbracciato il Capitale senza tentennamenti e prende la vita con pragmatismo estremo. Quando si rende conto che al genitore manca poco, decide di rendergli la fine il più dolce possibile e raduna gli amici di tutta una vita intorno al letto d’ospedale prima e in una casa di campagna dopo. Sono tutti — inconsapevolmente — dei Bobos, borghesi bohémien, generosi, anche stupidi, ma mai falsi, sempre consapevoli del distacco tra le loro aspirazioni e la loro esistenza gauche caviar reale. Con loro a fianco, Remy fa il bilancio di una vita e comprende che la perpetuazione nella cultura vale poco rispetto al ricordo di te che rimarrà a chi ti ama. Ripensa con sarcasmo e dolore alle scomuniche assolutistiche del passato, alle futili contrapposizioni, alle adesioni sincere ma anche superficiali a tutti gli “ismi” possibili. Alla passione per il Godard rivoluzionario che diceva incredibili fregnacce (o forse no!). Quale migliore inno alla vita che raccontarne la fine? I ricordi s’inseguono, il desiderio è un paio di cosce impudiche e il volto di Françoise Hardy, fino a una laica ultima cena a base di ottimo vino e droga, con la suprema libertà di decidere quando è finita sul serio. Una sceneggiatura finissima, più che per i dialoghi, per il tratteggio dei personaggi. Poche precise notazioni e li conosci benissimo, fai parte di quella comunità di ideali, di letture, di visioni, di ascolti. Un film non ideologico che in anni di pensiero debole (quanti equivoci su questa definizione!) rivendica il ricorso all’ideologia e sa essere corrosivo, politicamente scorretto, col coraggio di ammettere scanzonatamente il diritto alla leggerezza, all’utilizzo del denaro e alla corruzione per raggiungere il paradiso. Perché non comprarsi qualche illusorio scampolo di felicità? Un capolavoro cui non rendo giustizia con questo pezzo confuso e commosso: s’impone presto il Dvd e una nuova visione. E un’altra liberatoria crisi di pianto. Visto all’ex cinema Palazzo coi miei e Barbara. Platea curiosamente in salita (ma in fin dei conti non scomoda), proiezione rispettosa ed educata accensione graduale delle luci sui titoli di coda. Qui, 112 anni fa, nacque il Partito dei Lavoratori Italiani, futuro PSI, pensa un po’. (Cinema Sivori, Genova; 4/1/04)
436 — Kitchen Stories, una menata scandinava di Bent Hamer, Norvegia/Svezia 2003
Ultimo giorno di vacanza santificato con una visione su pellicola. Andiamo al cinema con Luisa e il suo compagno Mauro e la scelta cade su questo Kitchen Stories, innocuo e monocorde filmetto che racconta di una strana amicizia. Lo studioso Folke prende parte a un programma di ricerca svedese che deve analizzare i comportamenti dei single norvegesi in cucina, per ottimizzarne i movimenti e razionalizzare la progettazione di oggetti e spazi. Lo studioso appollaiato su una seggiolona da arbitro da tennis, però, non può interagire con l’osservato, nella fattispecie il misantropo Isak. Ma la conoscenza non può nascere dalla semplice osservazione (né la presenza di un osservatore può essere neutra, ma qui non ci si addentra tra quanti, Heisenberg e interpretazioni alla buona) e dopo l’iniziale diffidenza i due diverranno amici. Finale a sorpresa con vaghi rimandi omosessuali. Mah! Il film diverte come montare un mobile Ikea ed è pure lunghetto. Tutto molto esile, accennato, suggerito, e la stessa crescita del rapporto tra i due protagonisti non è granché armoniosa o graduale. Non mi lascerà nulla, né nel bene, né nel male. Film piatto piatto. Dopo siamo andati a berci una cosa e abbiamo parlato (ovviamente) di cinema. Di film che la vita l’hanno cambiata e di altri che l’hanno avvelenata per qualche ora, passando da Jancsó a Wenders, dai Dardenne ad Eustache. Ed è stato divertente. Sedute comode, chiasso diffuso dall’altra sala e luci sui titoli (mozzati con malagrazia). (Cinema Brera, Milano; 6/1/04)
437 — Come Harry divenne un albero, una gran rottura di Goran Paskaljevic, Irlanda/Italia/GB/Francia 2001
Legato a maniacali ansie di completezza, mi sciroppo l’ultimo film di Paskaljevic: ho il dubbio record di non aver perso nessun film del buon Goran (quanti saremo nel mondo?) e non posso sottrarmi alla visione, nonostante di questo Come Harry divenne un albero abbia letto maluccio. Una storia cinese ambientata in Irlanda, con Harry alla perenne ricerca di un nemico che dia senso alla sua tormentata esistenza. Conosco gente così: c’è un mio vicino completamente rimbambito che gode solo del confronto polemico e pugnace, su qualunque questione condominiale di nullo valore. Per cui il protagonista m’è stato sul cazzo fin dai primi minuti. Qualche scena tenera, una bella fotografia, degli ottimi attori, ma soddisfazione poca: il cuore zingaro di Paskaljevic batte a vuoto e la favola non punge. Mi ha annoiato. (Vhs da Tele+; 7/1/04)
438 — Un’ora sola ti vorrei e… non so, di Alina Marazzi, Italia 2002
Molto Dubbiosa Take One. Attraverso diverse lettere e gli splendidi filmini del nonno Hoepli, la regista racconta sua madre Lìseli, morta suicida al culmine di una crisi depressiva. L’idea è audace e le immagini evocative e dotate di un gusto raro: il breve film ottiene consensi immediati a diversi festival e viene proposto anche da RaiTre. I miei genitori e altri amici sono tutti commossi e mi dicono: che aspetti? Lo registro, lo vedo e reagisco… non so, con disappunto, con imbarazzo. Le lettere private della madre diventano confessioni pubbliche del suo disagio, così come le pagine di un diario che si pretendeva rimanesse segreto (ma forse ho capito male). Cosa ha fatto la Marazzi? I conti con la madre che l’ha lasciata orfana giovanissima o un omaggio disinteressato alla sua memoria per recuperarne l’affetto? Quanto è giusto montare e allestire bene e poi mostrare in pubblico una confessione così intima, la difficoltà di vivere di una donna ricca, fortunata e bella ma preda della depressione? E c’è un parallelismo tra madre e figlia? Tra Lìseli e la nonna della regista (la cui forte personalità avrebbe rovinato la figlia) e tra la regista e il suo soggetto di investigazione? Boh: sono rimasto molto turbato e ci ho pensato sicuramente troppo, senza apprezzare la costruzione narrativa e la regia generale (anche se le immagini odierne o certo sonoro mi hanno proprio respinto), non sapendo abbandonarmi allo struggimento della vicenda. Che poi: piango come un vitello per una storia inventata come quella de Le invasioni barbariche e rimango un blocco di ghiaccio di fronte a questa, vera. Serve ulteriore riflessione. (Vhs da RaiTre; 8/1/04)
Ancora Confusa Take Two. Rivisto, con persistente incapacità di risolvere i miei dubbi, mi chiedo: mi dà forse fastidio che la Marazzi abbia preso il coraggio di affrontare un suo nodo esistenziale e ci abbia fatto un film, probabilmente per lei comunque molto lacerante? Se si cerca il suo sito in Rete, si trova una regista entusiasta, comunicativa, felice di condividere e far partecipare tutti al successo della sua opera. Sembra tutto sincero, quasi ingenuo. Perché io non riesco a convincermene del tutto? Mah. (15/1/04)
439 —Blade dell’arrotino Stephen Norrington, USA 1998
Film de paura dalla discreta fama di culto. In breve: Wesley Snipes, espressivo come un ciocco d’ebano, è un mezzo vampiro che ci difende dai vampiri cattivi veri. C’è di mezzo anche una profezia, ma, confesso, ho presto abbandonato ogni velleità di comprensione. Questa vaccata sanguinolenta mescola effettacci alla Matrix (anticipandoli) con l’epica Marvel (c’è lo zampino di Stan Lee) e tutto sommato ti passa. Sicuramente notevole la scena iniziale della discoteca, con una carneficina che, personalmente, auspicherei sempre, vampiri presenti o meno. Nel cast si rivedono Kris Kristofferson e pure una subliminale apparizione di Traci Lords, notevolissima e versatile attrice passata alla storia per aver fatto del porno da minorenne (così mi hanno detto, eh?). I bonus del Dvd sono la faccenda più interessante della serata: grazie a un agile documentario diventa evidente la differenza tra il sistema produttivo nordamericano e quello europeo. In Italia, per un prodotto autoctono, l’intervistatore (presumibilmente televisivo e incompetente, ma siete voi che avete pensato Marzullo) chiederebbe al regista: “Come ha deciso, Maestro, di fare questo film?”. Qui, invece, in prima persona davanti all’obbiettivo, il produttore dichiara: “Ho letto ‘sta storia e ho deciso di farne un film, io”. Ha chiamato lo sceneggiatore Tizio a scriverlo e poi il regista Caio a dirigerlo. È evidente l’approccio industriale e cinico, quando da noi c’è l’artigianato nei casi migliori e l’improvvisazione nel resto. Pubblico e costi sono la cosa che si tiene d’occhio e gli screening durante la produzione stabiliscono cosa tenere e cosa cambiare. Bisogna stupire, catturare, divertire, coinvolgere e se tutto ciò è garantito, bene: libertà di esprimersi, e magari ci scappa pure un pizzico di espressione artistica. Ora, siccome Blade si dimentica in un quarto d’ora, cosa c’è che non mi torna? (Dvd; 9/1/04)
440 — Lost In Translation di una figlia di papà, USA 2003
Titolo di grande impatto mediatico, il classico film che fa figo vedere adesso. Ma non addossiamo a Sofia Coppola le colpe di spettatori e critici mediocri: addossiamole solo le sue, di colpe. Lost in Translation è un piccolo film, impalpabile, leggerissimo: un tulle. Gli puoi attribuire una marea di messaggi, tutti sussurrati: la sensualità discreta, il piacere dell’attesa e della pazienza, il senso di estraneità… insomma: qualunque cosa tu cazzo voglia. Trattasi di breve incontro edokiano (evvai!) tra due turisti coatti, in Giappone non per curiosità, ma per dovere, professionale e coniugale. Lui è il passatello Bill Murray, lei la giovane zinnona Scarlett Johansson. La lontananza da casa e lo spaesamento contribuiscono a un lento avvicinarsi che, dopo ore di teneri sguardi e confidenze banali ma intimissime, culmina in un’ultima frase segreta, lieve come quella carezza che Bob dà al piede della morbidamente pacioccona Charlotte. Non scopano, no: basta quell’astuta indeterminatezza che in quanto tale non puoi descrivere o illustrare, la suggerisci e basta e poi pensateci voi. Che come colpo di teatro finale non è male e, una volta tanto, viva il minimalismo, però… Intanto il coro esulta: che film delicato! Checcarino! Mah: Sofia Carmina Coppola (nessuno specifica Carmina: ma perché fa terrona? E Gae Aulenti, che si chiama Gaetana? Tanina fa troppo sud barbarico per chi ha progettato quell’infame piazza Cadorna o ha reso il museo d’Orsay una mattonata assirobabilonese? Vabbeh), Sofia Carmina Coppola — dicevo — fa l’eterea, gioca con lo zucchero a velo, piazza due o tre scene che fanno ridere tutti (il karaoke, la registrazione di uno spot, il footing in palestra… a me han fatto venire il magone) e si gode il caso di ipnosi collettiva contando i dollaroni degli incassi. Film visto malissimo all’Anteo, con Nuria. I gestori e l’architetto che ha progettato la sala ritengono civile una prima fila due metri davanti allo schermo iper-trapezoidale ed io, fesso, ho sottostato all’infame ricatto. Avevo promesso di non tornarci mai più, all’Anteo; ho disobbedito: ben mi sta. Ma sussurrato. (Cinema Anteo, Milano; 10/1/04)
441/442 — Alla ricerca di Nemo e Monsters, Inc. di diversi geniacci, USA 2003 e 2001
Giro Pixar per il Natale 2003 con il nuovo Alla ricerca di Nemo (di Andrew Stanton e Lee Unkrich): il triste e vedovo pesce pagliaccio Marlin si accompagna alla pesciolina Dory (che soffre di memoria breve) nel recupero del piccolo Nemo, orfano di madre e affetto da pinnetta atrofica. Nel loro viaggio incontreranno altre magnifiche creature subacquee tra cui tartarughe hippie, squali in terapia e battaglieri pesciolini d’acquario, stufi della prigionia. Ricomposizione familiare, prove di coraggio, forza del gruppo. Poco lontano dalla magnificenza dei capolavori Pixar, questo è un film didattico di maturazione, molto disneyano, più attento ai bambini che ai genitori cui regala solo qualche ammiccamento (le citazioni di Psycho, Shining o della Sidney Opera House). A fine visione ho un’innaturale voglia di una fritturina leggera leggera che tosto mi levo con soddisfazione papillare. Siccome un Pixar tira l’altro come le olive (deliziose, specie se farcite di peperone e acciuga, credetemi), il giorno dopo ci rivediamo in lingua originale il capolavoro di due anni fa, Monster & Co. (di Pete Docter, Lee Unkrich e David Silverman). Che dire, ancora? Che è fantastico come sempre, ricco di citazioni (anche colte: Behrens e Buckminster Fuller), rimandi alla mitologia Pixar (tra i giocattoli della piccola Boo ci sono Woody e Rex, il dinosauro timido di Toy Story), rimanendo comunque molto umoristico (le espressioni di Sullivan e lo stolido e coinvolgente atteggiamento positivo di Mike Wazoski). Nessun mostro è stato maltrattato durante la lavorazione di questo film. Bene! (Cinema Ducale, Milano e Dvd; 11 e 12/1/04)
443 — Sex and the City, Season 4 un po’ moscetta, dài, di Aa.Vv., USA 2001
Abbiamo fatto una follia o un affare, non so, fatto sta che siamo diventati dei piccoli kulaki, comprando una casa il cui mutuo mi peserà sulla schiena per vent’anni. La decisione improvvisa causa offerta irrinunciabile ci toglie il sonno, per cui proviamo a rilassarci con la quarta serie di Sex and the City. Ritrovare i soliti personaggi è come una rimpatriata con le vecchie amiche. Ho riso e mi sono commosso: tutte più vecchie di un anno, forse più acide ma anche più sagge, a inseguire il tempo che scorre. Mr. Big è sempre lì, ma c’è anche Aidan e Carrie arriverà a una proposta matrimoniale inaspettata, quanto intempestiva. Samantha, al solito, non si nega nulla, neanche un’esperienza lesbica con Sonia Braga (!). Miranda vuole venire a patti con le sue ossessioni (regole, igiene, cioccolata) e si troverà un figlio dopo un’estemporanea mercy fuck col monotesticolo Steve. Figlio che non riescono a trovare, invece, Charlotte e Trey: si rimettono assieme e trombano come ricci, ma qualcosa non quadra. E quella di Charlotte sembra essere l’unica storia che procede. Il resto è dinamicamente statico, prende tempo, attende. È paradossale perché, vedendo gli episodi uno dopo l’altro e concentrando gli eventi, dovrebbe sembrare tutto più veloce. Invece ci manca il respiro dato dall’emissione televisiva settimanale che consente di far maturare dentro di te, spettatore, i rapporti tra i personaggi e di dare un peso diverso anche alle minime cose che accadono. Ce lo siamo detti più volte, ma tant’è, finivamo col vedere sempre due o tre puntate alla volta e i ripensamenti di Carrie mi son parsi pretestuosi, non costruiti con la finezza delle precedenti serie. Detto questo, l’abbandono con Aidan mi ha commosso come una bestia e l’ultima puntata, con Miranda mamma e Steve che frigna e con Mr. Big che risalta fuori, beh, l’ho vissuta in preda a un tumulto emozionale degno di una finale di coppa del mondo. Abso—fucking—lutely! Vedremo con la prossima serie, che si preannuncia plumbea (è stata girata nella New York post 11 settembre). (Dvd; 19, 23, 24, 25/1/04 e 5, 12, 16, 22, 23, 27, 28/2/04)
444 — Confessions of a Dangerous Mind del tuttofare George Clooney, USA 2003
Chuck Barris è un delinquente. Ha rovinato la gente con cagate come La corrida, Il gioco delle coppie e un sacco di altri format televisivi. Ma non è disprezzabile per questo motivo. È un assassino e ha uno score di 33 morti a favore della CIA. E poi è un fetente che illude continuamente la povera Penny (oca in maniera caricaturale). La storia, la confessione della mente pericolosa, dovrebbe e potrebbe essere vera. E potrebbe essere interessante se ci fosse un po’ di introspezione psicologica e se la regia non fosse così scoordinata, impegnata freneticamente a dimostrarci che Clooney è come il Girmi e trita, taglia, affetta e impasta. Sceneggiato da quel Kaufman responsabile del guazzabuglio piacione Essere John Malkovich, il film funziona poco perché il protagonista principale (dalla faccia respingente) ha sempre la stessa età, anzi, pare ringiovanire e non parliamo di due o tre anni, ma di decenni. Cambia l’arredo, la musica, il “colore”, ma la confusione rimane. Che cosa cazzo vuole la mente pericolosa, poi? Diventare una persona citabile, seguendo quella stessa logica televisiva che ha diffuso. La materia da azzannare per parlare di obnubilamento delle coscienze ci sarebbe eccome: il delirio di onnipotenza di chi si rivolge a milioni di telespettatori, il piacere dell’uccisione con la motivazione di facciata della Patria, il parallelismo metaforico tra le due attività. Ma è tutto messo lì, appoggiato, senza approfondimento, solo per fare sciâto, schiamazzo, chiasso, come diciamo noi genovesi. Ottima confezione, buone interpretazioni, ma manca un ragionamento, esattamente come in quella stronzata su Malkovich. A cui Clooney aveva evidentemente abboccato, tontolone con complessi d’inferiorità. (Dvd; 5/2/04)
445 — Deep Purple – New, Live & Rare di tanti balordi, Gran Bretagna 1984-2000
Preziosissimo prodottino lungo oltre 3 ore che antologicizza i diversi videoclip prodotti negli anni dai Deep Purple e lardella il tutto con inedite sequenze live e sampler di altri Dvd. Ovviamente è tutto molto confuso, eterogeneo e cialtrone, ma per un appassionato come me risulta una pacchia rara. Ora, non nascondiamoci: i Deep Purple non hanno mai avuto una leadership chiara e costante. I Led Zeppelin, per dire i grandi rivali nelle ottuse schematizzazioni critiche, hanno sempre perseguito un progetto globale: musicale, filosofico, estetico. O perlomeno così l’han fatto sembrare: le rimasterizzazioni, il Dvd, il merchandising, gli inediti: tutti prodotti curatissimi, mai deludenti. I Deep Purple e il loro management sono (stati), invece, dei grezzoni, per nulla attenti a un disegno coerente: ne esistono almeno sette, di “disegni”, spesso autonomi, talvolta inesistenti quanto a ragionamento progettuale. E questo Dvd lo riflette per bene. Giusto per intenderci: i Deep Purple si sciolgono nel 1976, quando della leggendaria seconda formazione erano rimasti solo batterista e tastierista. Nel 1984 Blackmore, Glover e Gillan si ricongiungono a Lord e Paice e viene pubblicato l’ottimo Perfect Strangers, vendutissimo, e da lì si cominciano a produrre video promozionali di incredibile bruttezza, roba che fa tenerezza. Non vi sto a fare la recensioncina di ogni pirlata qui presente, ma io ho goduto di fronte a trame insensate, abiti di scena imbarazzanti, presunte gnocche volgarissime con acconciature da porno, nani e ballerine (non scherzo), rimandi a Mad Max alla cazzo di cane, home video calcistici, sbevazzate e barbecue agresti, rallenti, stop frame e tutto il repertorio del banco effetti di metà anni Ottanta. Le cose meno insultanti sono le performance dal vivo, perché è la musica a prevalere. Io vi consiglio — dal passato remoto — solo questa No, No, No eseguita al tedesco Beat Club: naif come regia, ma incredibile come feeling e improvvisazioni. Che gruppo! (Dvd; 7, 8, 9, 11, 15/2/04)
446 — L’asettico Ali di Michael Mann, USA 2001
La vita di Cassius Clay in Muhammad Ali: la vittoria con Sonny Liston e la conversione all’islamismo, l’amicizia e la rottura con Malcolm X, gli amori e i tradimenti, fino all’epica sfida con Foreman in Zaire nel 1974 e il ritorno alla corona mondiale. E in mezzo MLK, un management imbroglione, l’Amerika bianca e la sofferenza e il peso dei pugni dati e presi. Giacché ho visto (e amato) i documentari When We Were Kings di Leon Gast e Muhammad Ali The Greatest di William Klein, conosco bene ciò che Alì diceva e come lo diceva e il film è molto calligrafico, quasi alla perversione, ma troppa imitazione toglie vita al posto di restituirla. E poi non puoi credere al più grande se lo fa il principe di Bel Air, eh. Ben fotografato, montato e recitato, soffre di uno script poco omogeneo, prima attento alla politica e poi al privato (sentimentale e sportivo). Si fa vedere ma non ti mette K.O. e — tutto sommato — perde ai punti. (Dvd; 8/2/04)
Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni
(Continua – 44)