di Danilo Arona
«Come sempre, i primi a capire che la terra stava per mangiarsi ogni cosa sono stati gli animali. Quando il vento si è scatenato piegando gli alberi come se la corteccia nascondesse solo scheletri vuoti, i cinghiali hanno cominciato a correre verso il mare, inseguiti dalle lepri e dai cani randagi. Erano le 2, 40 della notte tra domenica 11 e lunedì 12 novembre. L’aria si è riempita degli ululati dei cani domestici che sentivano arrivare la morte. Poi il cielo si è fatto nero e l’onda ha sommerso tutto.»
Una sintesi, suggestiva, di uno straordinario articolo di Andrea Malaguti inerente la tragica alluvione del novembre scorso ad Albinia e a Capalbio. Ma, dopo che le colline si sono sciolte come se non avessero roccia nella pancia e tutto il paesaggio è divenuto un enorme e sozzo lago, ecco che la realtà percepita ti si presenta come un enorme, totalizzante schermo televisivo fuori sintonia. Un’altra dimensione è scaturita da qualche crepa nel reale e, come l’onda (o l’Onda), ha sommerso tutto. E rieccoci ancora a verificare che l’Acqua, come mi confidò un’amica veterinaria quasi due anni, “si sta incazzando”.
Per una magica assonanza, evento non infrequente nel dominio della Luce Oscura, le cronache dell’apocalisse in Maremma si legano con altre Crepe nella Realtà (Alea – Ebook), ovvero i racconti-trasmissione progettati e scritti dall’amico Mario Gazzola come blocchi di un unico, autentico palinsesto. Trimurti e triade magica dai titoli esoterici: Situation Tragedy, Voto segreto e G 2 5. Ancora una volta Mario, esemplare rappresentante del più genuino e radicale post-cyberpunk italiano, distrugge le coordinate classiche della narrazione per immergerci in un mondo ambiguo nel quale lo scrittore e il lettore diventano corpi confusi e/o condivisi. Nella mente dell’autore infatti, per quanto la parola scritta richieda di una tastiera e forse di uno schermo, i media di riferimento paiono essere un fusione magmatica e indistinta tra letteratura, cinema e viral marketing televisivo. Burroughs e Cronenberg che partecipano, telemodificati da una bizzarra macchina del tempo ad uno show di Max Headroom, sotto la cattiva stella profetica di James Ballard e Ray Bradbury. E il mondo che contiene queste tre incursioni di Gazzola nel continuum allucinatorio — racconti all’apparenza autonomi, ma nulla in Mario è ciò che sembra, perciò li potete pure leggere come tre capitoli non necessariamente susseguenti di un solo “romanzo” — quel mondo, dicevo, è talmente senza speranza e senza futuro che pare la necessaria e dolorosa svolta che ci attende al prossimo angolo da svoltare. Un mondo (ma persino il termine in sé risulta inadeguato) nel quale la macchina ha conquistato il sopravvento mentale, dove la gente vive la all’interno di immagini video-elargite ignorando chi siano i propri vicini di condominio e dove la realtà è soltanto più un’illusione (in)consapevole. Ma soprattutto un “fuori” dove non esiste nulla, se non una monolitica distesa di nebbia grigia che si presenta — straordinaria intuizione autometaforica e potente visione su Zone Zero del pianeta moribondo — come un immenso schermo televisivo non sintonizzato e brulicante di noise eletttomagnetico. Un Profondo Grigio dal quale l’horror più fisico e la fantascienza del quotidiano tralignano, appunto, attraverso delle “crepe”. Fessuri e buchi in un apparente reale. Squarci che ti inseguono persino dentro una cabina elettorale.
Il Condominum ballardiano che qui si chiama Insula, il Veldt di Bradbury, il Videodrome clamorosamente aggiornato all’ultima trasmissione che recita: “La televisione mica si fa per vivi” anche perché tutti sono proprio morti, la distruzione del linguaggio di Burroughs: maestri che sono ostentati con orgoglio assieme a fulminee intrusioni visive degne di Kairo di Kiyoshi Kurosawa, quei pupazzi di cera a rappresentare etnie “altre” impiccati ai lampioni, quella spazzatura e quelle montagne di relitti d’auto a rammentarci l’Apocalisse della materia, un cinema misterioso dove si proietta nebbia. Perché, se la realtà si fende, la Cornice e lo Schermo siamo noi. Io vivo dentro il film. Io sono il film. Così tanto da arrivare a capire alla fine la frase: “se l’immagine si spappola fino a non esistere più, allora ne capisci il significato.” Un cinema incubico che ti dovrebbe convincere a startene a casa a guardare la TV. Ma qui il diabolico cerchio si chiude: perché nel Telecondomium dell’Insula balena soltanto un’illusione di vita veicolata da pixel, una Fata Morgana che è frutto di alienazione, intolleranza e schiavitù mentale.
Dentro, chiusi all’interno di un’apparente e alienante sicurezza. Fuori uno Schema al lavoro. E nel Profondo Grigio del Reale, percorso da fenditure che non si riescono più a rinchiudere, si moltiplicano i signs alla Shyamalan. Ad esempio, una mia amica che mi telefona negli stessi giorni dell’alluvione per una comunicazione al tempo triste e scioccante.
«Il mio gatto è morto. Ma non di vecchiaia e di malattia. Si è buttato giù dal balcone.»
La mia amica abita in circonvallazione, al quarto piano. Non riesco a immaginarmi la scena. Faccio domande di pura retorica. Tipo, appunto, cosa è successo.
«Stava sul balcone. Lui stava sempre sul balcone. Ha guardato in basso e ha spiccato il salto.»
Qualcuno di voi è venuto a conoscenza di episodi del genere? La domanda avrebbe magari chiuso, che so, un breve post su Facebook. E faccenda finita lì, magari con reciproci insulti, tipici dell’andazzo del social network, tra opposte fazioni, realiste e catastrofiste.
Però il giorno dopo la telefonata della mia amica, un golden retriever di sei anni chiamato Alex, in qualche modo mediaticamente famoso per l’eccezionale opera prestata nella zona terremotata dell’Aquila, si butta giù da una scogliera a Camogli, morendoci. E la maggior parte dei giornali, nel riportare la notizia, ha usato la parola “suicidio”.
Di certo il fatto appare inspiegabile, ma giustamente il famoso etologo Danilo Mainardi ci tiene a precisare sul “Corriere della Sera” (martedì 4 dicembre) che il suicidio non appartiene al mondo canino, lasciandosi poi andare a un’ipotesi, ovvero: «… forse, chissà, Alex può aver percepito qualcosa, magari un suono (i cani sono sensibili a certe frequenze a noi precluse), che magari gli ha ricordato un ordine appreso. Così si è buttato, senza esitazione, in acqua ed è stata la sua fine.»
L’acqua, le onde, le frequenze. Ci risiamo. Ancora.
E’ passato poco più di un anno da quando scrivemmo che l’Acqua (in carattere maiuscolo in quanto elemento primordiale e archetipico) stava mutando, forse ribellandosi, di certo alterando la sua frequenza. C’entra con la morte del povero Alex? Impossibile che possa darvi una risposta sensata. Però ad Albinia “il cielo era nero, i cani ululavano, poi l’onda ha sommerso tutto.”
Un precedente val la pena comunque di segnalarlo. Lo preleviamo testuale dal sito www.nocensura.com ed è un articolo dal titolo Scozia: il mistero della cittadina dove i cani si suicidano.
C’è un mistero che da alcuni anni coinvolge una tranquilla località scozzese nelle vicinanze di Glasgow. Nel 1859 un uomo ricco e facoltoso comprò un pezzo di terra sopra il fiume Clyde e vi costruì una villa. Dopo l’ampliamento della medesima, nel 1892, per avere una strada d’accesso attraverso l’Overtoun Burn, l’uomo fece costruire un ponte di una certa imponenza conosciuto con il nome di Overtoun Bridge. Cinquant’anni dopo su questo ponte cominciò a verificarsi una bizzarra serie di suicidi di cani che si buttavano regolarmente di sotto cercando la morte dai parapetti. Il fenomeno non si è ancora fermato e dall’inizio del mistero si contano ormai a decine i cani che si sono tolti la vita, tutti quanti nello stesso punto. Tra loro razze e taglie diverse. Le ragioni ancora sono un mistero. Sull’argomento si sono esercitati in tanti, proponendo le teorie più disparate: frequenze ipnotiche provocate dall’acqua, interferenze elettromagnetiche (sotto accusa una vicina base nucleare), impulsi elettrici, maledizioni arcaiche e portali dimensionali. Ma ci è voluto uno psicologo canino (e un documentario su Channel 5 per fornire una spiegazione vagamente plausibile. Il dottor David Sands scoprì che sotto il ponte si riproducono i visoni e il forte odore da questi prodotto è semplicemente irresistibile per i cani curiosi. Considerando questo fattore e mettendolo in relazione con la scarsa vista dei cani, si spiegherebbe perché un cane possa saltare nel vuoto oltre il bordo. Non tutti però sono convinti di questa spiegazione. Con circa 20000 visoni in Scozia, sembra abbastanza strano che dei cani non saltino da altri ponti in giro per il paese.
Come insegna Mario Gazzola in Crepe nella realtà, scrutate la monolitica nebbia grigia che circonda. Senza dimenticare che la nebbia altro non è che acqua in sospensione.