di Alberto Sebastiani
[Questo testo è stato pubblicato sul n. 6, ottobre 2012, della (nuova rivista) letteraria, interamente dedicato a Stefano Tassinari. Lo pubblichiamo, ringraziando per la cortesia l’autore, per ricordare Stefano e segnalare questo importante contributo collettivo]
«Voterò Rifondazione Comunista perché le parole, per me, hanno ancora un senso, e quella “comunismo” — così sporcata e manipolata, in mezzo mondo, dall’ottusità di stalinisti e burocrati — può essere di nuovo sinonimo di altri termini colpevolmente caduti in disuso, come uguaglianza, giustizia sociale, diritti civili e abolizione dello sfruttamento. Voterò questo partito anche perché, da anni, ha avviato un processo di rifondazione del pensiero comunista, mettendo al centro del proprio agire non solo i rapporti di produzione, ma anche quelli umani e culturali. Lo voterò, inoltre, perché continuo ad essere affascinato dai sogni e dalle utopie, non amo il concetto di ordine che si tramuta in forza e sento che la passione — specie quella che ti spinge a stare da una certa parte — è ancora capace di muovere il mondo. Lo voterò, infine, perché — come cantano gli Skiantos — “sono un ribelle, mamma!”».
Sono parole scritte nel 2006 in un manifesto-volantino pieghevole, composto di un foglio di circa 40×60 cm, stampato recto e verso, e ripiegato in modo tale da ottenere una specie di libretto di circa 20×20 cm, con una facciata principale, la “copertina”, ovviamente rossa, su cui si legge: “Noi votiamo PRC. E tu?”. Invece di sfogliarlo, il “libretto” si apre fino a farlo diventare il manifesto-volantino. Nella parte con la “copertina” si pubblicizza il comizio di Fausto Bertinotti in piazza Maggiore a Bologna (6 aprile 2006, ore 18), e il concerto di Malavida e Gang (ai Giardini Margherita, il principale parco bolognese, alle 20,30), oltre ad essere raccontate le lotte territoriali e nazionali in cui si impegna il partito. Dall’altra parte, sotto il titolo “Io voto PRC perché” ci sono le foto e gli interventi di otto persone: un lavoratore della Biblioteca Salaborsa, un lavoratore immigrato, un’insegnante, un lavoratore di call center, un tecnico metalmeccanico, una studentessa e un lavoratore metalmeccanico. Tutti sono presentati col nome e la professione. Solo uno ha anche il cognome, e a lui appartengono le parole riportate qui in apertura: è “Stefano Tassinari, scrittore”.
È la campagna elettorale per le politiche che porterà al governo per la seconda volta Romano Prodi, e Tassinari come sempre — e come sempre criticamente — s’impegna in prima persona. «Perché le battaglie vanno combattute fino in fondo», ripeteva spesso. Ma nelle parole sul volantino c’è molto di più di un appoggio o un’intenzione di voto. C’è la sua attenzione alle persone e ai progetti, ma soprattutto alle parole da usare, che non sono fatte d’aria ma di sostanza, di storia e prospettive. Sceglierle è un atto di responsabilità.
La parola “comunismo” è centrale per questo discorso. Nel romanzo Il vento contro (Marco Tropea, 2008), Tassinari racconta i pensieri di Barbara, a Barbison, che si sente una privilegiata a servire a tavola Trotsky, perché ascolta «l’uomo che, forse, riuscirà a fermare il degrado dei principali partiti operai e a ridare dignità a una parola, comunismo, che lei continua ad amare intensamente». Barbara è la compagna di Pietro Tresso, detto Blasco, tra i fondatori del PCd’I nel 1921, antifascista, perseguitato, esule, membro per anni del Comitato Centrale del Partito, caduto in disgrazia perché trotzkista.
«Ridare dignità» alla parola “comunismo”. «Una parola che contiene il massimo del divario tra il suo significato e la sua applicazione», dice Tassinari nell’intervista radiofonica del programma “Le strade di Babele”, a cura di Eugenia Foddai, in onda su Radio Onda d’Urto nel novembre 2010. Riprende un discorso a lui caro, con una consapevolezza già presente nella sua intenzione di voto del 2006: Tassinari sa bene quanto, ancora una volta, quella parola sia perseguitata, e sia biasimato chi ci ha creduto o ci crede, e quindi lavora, opera, lotta per l’ideale che la parola “comunismo” esprime. È «diventata una parola “indicibile”», dice a Radio Onda d’Urto. È tacciata di appartenere a un mondo che non esiste più, a un Novecento rimosso in fretta, ma inalienabile. Una parola rovinata dalla sua concretizzazione, per Tassinari, perché lo «stalinismo ha distrutto una speranza, un’utopia, una possibilità». È quella «ottusità di stalinisti e burocrati» (nei luoghi del cosiddetto socialismo reale e nelle organizzazioni partitiche di molti altri paesi) denunciata nell’intenzione di voto del 2006, quella stessa che ha perseguitato Blasco.
Tassinari conosce bene il lungo percorso della parola “comunismo”. Sa bene quanto sia stata più volte semantizzata nelle Internazionali e nei processi postrivoluzionari, e quanto abbia faticato per emanciparsi dall’essere considerata variante della voce “stalinismo”. Sa, in quanto “comunista”, cresciuto nella Nuova Sinistra, poi in Democrazia Proletaria e infine in Rifondazione Comunista, quale discussione sia avvenuta nella definizione di “comunismo”, tra umanismo e scienza, storia e filosofia, realtà e mitologia, pragmatismo e idealismo, ortodossia ed eterodossia, revisione e rilettura, libertari e autoritari, in rapporto a linee politiche filosovietiche, filocinesi, autonome, o a vie internazionali, europee, terzomondiste, nazionali, nonché a percorsi parlamentari ed extraparlamentari, rivoluzionari, massimalisti, miglioristi… E sa quanto alla caduta del Muro tutto questo sia stato cancellato, e sia diventato un termine scomodo, una parola usata come insulto, di cui liberarsi in fretta, sinonimo di “male”, “pericolo”, “povertà”, in contrasto a “bene”, “sicurezza”, “prosperità”, parole chiave del ventennio del “sogno” (per chi ha scelto di dormire) berlusconiano.
La propaganda anticomunista berlusconiana ha radici lontane, e ricalca (grottescamente) quella che nel secondo Novecento ha accompagnato la scena politica italiana. Una comunicazione che, ovviamente, non ha mai sottilizzato considerando le varie anime e posizioni che si agitavano sotto l’espressione “comunismo”. Un attacco verbale indiscriminato che ha sempre puntato il dito sui crimini del regime sovietico, tra slogan, falsità e fatti reali e drammatici, per ideologia, interesse o sincera avversione politica e civile. E i «burocrati e stalinisti» che Tassinari attacca nel volantino del 2006, non solo hanno perseguitato tanti Blasco, ma hanno anche offerto buon gioco a chi voleva denigrare la parola “comunista”.
Quei personaggi l’hanno “manipolata” e “sporcata”, dice Tassinari. Il primo termine implica un intervento volontario, un’azione invasiva e/o di controllo, una modifica irrispettosa, un uso improprio, un atto disonesto. E l’onestà è per Tassinari una virtù inalienabile per l’intellettuale, ed è legata alla coerenza. Blasco, nel Vento contro dice: «Se per tornare in libertà mi devo spogliare della mia identità e indossare la loro divisa, allora preferisco restare prigioniero» (p. 73). E Tassinari ripeteva «bisogna essere onesti» prima di cominciare una critica, anche severa, a chi gli stava di fronte. O a se stesso (per lui il comunismo è anche una dialettica in cui «mettere continuamente in discussione se stessi e le cose che si fanno», «continuamente in divenire», dice a Radio Onda d’Urto). Quindi “sporcare” è una conseguenza del “manipolare”. È l’esito dell’intervento disonesto. Un sacrilegio, in un certo senso. Dall’interno.
La parola “comunismo” ha affrontato i mari burrascosi dei dibattiti teorici e si è schiantata contro gli scogli delle concretizzazioni del socialismo reale. Ma ha resistito a uragani di propaganda avversa, e guidato masse nella speranza di porti sicuri. Ora, a inizio millennio, è «indicibile». Era temuta, ora suscita ilarità. La discussione interna, tra comunisti eretici e ortodossi, ha conservato per decenni il rispetto per il termine, che è stato difeso contro gli avversari politici. Ma con l’abbandono della discussione è stato lasciato spazio ai detrattori, e a un’interpretazione illimitata della parola, del tutto irrispettosa della parola stessa, della sua storia, della sua origine, del suo uso consapevole. Nessun confine è stato posto all’uso della parola “comunismo”, gli argini semantici che la proteggevano almeno dall’interno, da chi credeva nell’idea di “comunismo”, in varie forme, sono caduti col Muro.
Nella sua pluralità di significati, la parola e l’idea di “comunismo”, nella sua graduale indicibilità, senza argini a proteggerla, è capitolata. In Italia, oggi, a oltre vent’anni di distanza, sempre meno persone (per quanto sempre più partiti) si riconoscono in quel termine e si definiscono “comunisti”. A quella parola a partire dalla metà degli anni ’90 sono stati ricondotti i mali del nostro Paese. Tutto è avvenuto nella fretta di uscire dal ‘900, che nella cronaca politica italiana ha preso il nome di “Prima Repubblica”. E tutto il negativo che connotava questa espressione, all’improvviso, aveva preso il nome di “comunismo”, sinonimo di “assistenzialismo”, “tasse”, “arretratezza”, come per altro se il Pci (e i comunisti in generale), mai stato a capo del governo del Paese, fosse diventato responsabile di tutta la mala gestione politica dal 1948 a Tangentopoli. Oggi, chi azzarda un discorso pseudostorico, lega la parola “comunismo” a “Russia” (che sarebbe “Unione Sovietica”) e al ’68, dei cui fatti però si sceglie di ricordare o si ricorda poco, e sono mescolati a immagini sbiadite del ’77, emblema di violenza e cupezza, grazie alle bombe e alle P38, che diventano una ‘cosa’ uni- ca sotto l’etichetta tombale “anni di piombo”, estesa a un intero decennio, forse più. Siamo ben oltre lo scontro coi mulini a vento di Emilio, il protagonista del romanzo L’amore degli insorti di Tassinari (Marco Tropea, 2005), che ricorda la distinzione tra “terrorismo” e “lotta armata” (p. 98), oggi quasi sinonimi di “contestazione” (negli anni Zero non poche volte i “contestatori” sono stati detti “terroristi”).
Emilio sente intorno a sé un clima irrespirabile: «stanno stringendo il cerchio», ripete all’inizio. C’è anche in questo caso un “loro”, ma stavolta non sono «stalinisti e burocrati»: sono da individuare, ma di certo “loro” lo costringono a fare i conti con la memoria della sua gioventù e della sua militanza politica, e con parole ormai inutilizzabili perché bandite. Parole che appartengono a una storia partecipata da tanti, e poi rimossa. Si chiede: «che ne sanno, i miei figli e quelli come loro, della Lunga Marcia, del Libretto Rosso, del giunco che si piega ma non si spezza, di Dien Bien Phu e di My Lai, o del Banco del Mutuo Soccorso che suona in piazza Navona, il primo maggio del ’75, per festeggiare la sconfitta americana in Vietnam? Non ne sanno niente, è ovvio, e come potrebbe essere se nemmeno io sono in grado di parlarne, bloccato da un pudore che sembra una maledizione, guai a quello che dici perché si potrebbe ritorcere contro di te? Condannato al silenzio e alla rimozione, centellino la corsa verso quel mare piatto e scuro che m’aspetta, in linea con un futuro che, una volta tanto, avrei voluto normale e invece si prospetta frastagliato».
La sconfitta. La persecuzione. Il riflusso. Il silenzio su un periodo che è rimasto una ferita. Collettiva e privata. «Quelli erano gli anni di sdegni sbriciolati, ognuno era solo nel suo, non c’era più un’ira comune», scrive Erri De Luca degli anni ’80 nel racconto La città non rispose (in Italiana. Antologia dei nuovi narratori, a cura di Ferruccio Parazzoli e Antonio Franchini, Mondadori 1991). Quel silenzio forse ha responsabilità nella risposta debole all’assalto esterno definitivo, alla caduta del Muro. Quando cioè è successo quanto temuto dall’ex militante del Manifesto, che in La cosa di Nanni Moretti (1990), il documentario che affronta la fase di passaggio dal Pci al Pds, ricorda un dibattito a cui aveva partecipato, dove uno aveva detto: «noi non siamo mica bolscevichi, siamo democratici», e aveva aggiunto: «non vorrei che al prossimo dibattito qualcuno dovesse dire: oh noi non siam mica comunisti!» E così è stato. Eppure, nel 2010, una ventina di anni dopo, in Italia, per quanto postberlusconiana (?), Tassinari alla radio dice che «l’idea del comunismo è fallita ma ancora appetibile». C’è però un problema di definizione. «Il comunismo oggi è l’eresia», dice Tassinari, e aggiunge che bisogna ragionare sul pensiero «libertario», quindi riprendere anche la «tradizione anarco-comunista». Il problema è riuscire a parlar(n)e, sconfiggere l’afasia a cui sembrano essersi abbandonati in tanti. “Silenzio” e “rimozione” hanno cancellato nomi e fatti, aprendo varchi ospitali per la propaganda avversa martellante, che ha portato a una risemantizzazione grottesca della parola “comunismo”. Aver indebolito dall’interno le parole, non averle sapute difendere, aver taciuto, ha lasciato spazio al caos. E all’ignoranza, quindi all’impossibilità di dialogo, di riflessione. E ha permesso mostruosità come quella avvenuta il 2 agosto 2010, dopo il giornale radio delle 7,30 di mattina, su Isoradio, dove in una rubrica che raccontava i fatti avvenuti quel giorno negli anni passati, una voce squillante elencava episodi storici, fino ad arrivare alla Strage alla stazione di Bologna. Ricordava veloce la sala d’attesa, diceva degli 85 morti, specificava che gli attentatori erano stati condannati ma non li nominava, e chiudeva dicendo candidamente che la responsabilità era stata attribuita alle Brigate Rosse. Dopo un abominio del genere non deve stupire se nei test distribuiti per indagine nelle scuole di Bologna, alla domanda sui responsabili della Strage del 2 agosto, gli studenti abbiano dato la stessa risposta. Non perché ascoltino Isoradio, ma perché è una versione diffusa grazie al revisionismo e al silenzio calato su tante parole, che sono sostanza, come appunto sosteneva Tassinari.
In realtà il suo Emilio non lottava coi mulini a vento. Resisteva. Era costretto a ripensare storie, fatti, immagini, momenti, scelte, parole per confrontarsi col proprio passato, e scegliere nuovamente, andare avanti. Una situazione che richiede “onestà”, ma anche lucidità, e soprattutto attenzione all’uso delle parole, coscienza e conoscenza dei fatti e della storia, capacità di ripensar- li. Significa recuperare un dizionario perduto che unisce “comunismo” a una famiglia lessicale che ingloba «uguaglianza, giustizia sociale, diritti civili e abolizione dello sfruttamento», e cercare una retorica per parlarne. Tassinari parla di «rifondare il pensiero comunista», cioè definire, ridefinire, delineare, scavare i nuovi confini, ricostruire degli argini per vincere l’afasia. Con una fede incrollabile nell’azione culturale. «La cultura deve tornare al centro dell’agenda della sinistra», diceva sempre, e nell’intervista del 2010 lo ribadisce con forza, perché per riscrivere la parola “comunismo”, che rimane nelle corde e nelle passioni di «una massa di persone», che sa che «dovremmo andare verso una società di quel tipo», è necessario tornare a un uso della parola
responsabile, contro la chiacchiera che indebolisce. E l’afasia non è accettabile, in questa prospettiva. Ecco perché Blasco, che assume davvero i contorni di un alter ego narrativo di Tassinari, cerca di seguire un «consiglio» di Antonio Gramsci: «Non rinunciare mai a spiegare le tue posizioni, anche quando ti sembra che dall’altra parte ci sia un muro» (p. 84). Magari usando un sorriso, e con una citazione “pop”, come una canzone degli Skiantos.
Bibliografia
Oltre ai testi citati, dietro la realizzazione di questo intervento ci sono libri come Intellettuali e Pci 1944-1958 (1979) e Il lungo addio. Intellettuali e Pci dal 1958 al 1991 (1997) di Nello Ajello, L’orda d’oro di Nanni Balestrini e Primo Moroni (1988) e I limiti dell’interpretazione di Umberto Eco (1990), ma soprattutto tanti dialoghi con Stefano, la cui intervista a Radio Onda d’Urto è disponibile in streaming nell’archivio audiovisivo on line a lui dedicato (stefanotassinari.it).