O di scuola e omofobia
di Dario Accolla
La parola frocio è quella che più si sente dire tra aule e corridoi, durante l’intervallo, o al suono della campana, poco importa se all’inizio o alla fine delle lezioni. Se non ci credete, quando passate di fronte a una scuola, prestate l’orecchio. E poi cominciate a contare. Non sempre è un insulto, come potrebbero non esserlo, a seconda dei casi e del contesto, altri epiteti quali coglione, stronzo, ecc. D’altro canto, non è nemmeno un complimento. La differenza tra questi termini sta nel fatto, tutto grammaticale, che i primi vengono usati come se avessero il valore di un aggettivo: qualcosa in più, che specifica, ma non definisce, non definitivamente almeno. Il frocio, al contrario, è una categoria dell’essere. Perché puoi essere un buontempone e, tuttavia, degno di comprensione. Addirittura uno stupido. Ma se ti piace il cazzo hai finito — e perdonatemi per l’estrema semplificazione, figlia di una vulgata moderna — non sei quasi più nemmeno umano. Sei, appunto, un’altra cosa: non importa che ti chiami Andrea o Matteo (i nomi di due vittime di presunta omofobia scolastica). Non importa se, come Turing, hai salvato il mondo dai nazisti. Tra te e la vita degli altri c’è e ci sarà sempre quel morso alla mela proibita, il peccato imperdonabile dell’amore che non osa(va) dire il suo nome. Divieni il vampiro che alla luce del sole non brilla, puoi solo essere messo alla gogna, semmai. Ti candidi, bolla papale in mano, a divenire strumento per ferire l’umanità e attentare alla pace di tutti. Questo è il clima culturale in cui si trova a vivere, ancora oggi, terzo millennio, in Italia un giovane gay. Per le lesbiche, forse, è anche peggio: per loro esiste la damnatio dell’invisibilità. Per non parlare delle persone trans, relegate a ogni marciapiede mentale possibile. E, cosa ben peggiore, tutto questo si impara a scuola. Ma facciamo un passo indietro.
C’è un detto in America: «strana malattia, il razzismo. Colpisce i bianchi, fa fuori i neri». Mutatis mutandis, si può dire lo stesso dell’omofobia. Male sottile, invisibile ma presente. Se chiedi in giro, nessuno è omofobo. Come Renata Polverini, quando, candidata alla regione, ammise di avere amici omosessuali e che, proprio in virtù di questo, poteva permettersi il lusso di negare qualsiasi forma di riconoscimento delle coppie formate da persone dello stesso sesso. O Rosy Bindi la quale, quando ancora ministro escluse le unioni omoparentali dal Convegno sulla Famiglia, ricordando, per altro, che era preferibile per un bambino vivere in Africa piuttosto che in una coppia gay. Per non crescere come un disadattato, si giustificò. Magari in mezzo all’ebola o a passeggio tra le mine anti-uomo, ma mai insieme a due froci. Appunto.
Centro-destra e centro-sinistra sono abbastanza omogenei nel non sapere nemmeno cos’è l’omofobia: ovvero, secondo la recente risoluzione del Parlamento Europeo del 22 maggio 2012, quella paura e quell’avversione «irrazionali provate nei confronti dell’omosessualità femminile e maschile e di lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) sulla base di pregiudizi» e, quindi «assimilabile al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo; che si manifesta nella sfera pubblica e privata sotto diverse forme, tra cui incitamento all’odio e istigazione alla discriminazione, scherno e violenza verbale, psicologica e fisica, persecuzioni e uccisioni, discriminazioni a violazione del principio di uguaglianza e limitazione ingiustificata e irragionevole dei diritti» e che, infine «spesso si cela dietro motivazioni fondate sull’ordine pubblico, sulla libertà religiosa e sul diritto all’obiezione di coscienza».
Tradotto in parole più quotidiane: se urli a qualcuno, per strada, che è ricchione; se pensi che, in quanto tale, quella persona sia inferiore a te; se credi che non possa avere i tuoi stessi diritti, tutti o in parte; se giustifichi tutto questo perché ognuno è libero di pensarla come vuole; ebbene, se ti comporti così, sei omofobo.
Suggerisco sempre di fare un esercizio per capire cosa è l’omofobia. Prendete la frase standard “i gay hanno il diritto di vivere insieme, ma non di sposarsi perché non esistono famiglie di serie B” e sostituite gay con ebreo, rom, nero o altra categoria a vostra scelta. Se la cosa vi procura fastidio, ebbene, siete di fronte a una discriminazione. E quella si chiama, appunto, omofobia. Se indirizzata alle persone transessuali, è transfobia. Cambia la radice, la pianta del male è sempre la stessa: quella dell’odio. Quella discriminazione e quel fastidio milioni di persone LGBT li vivono ogni giorno sulla loro pelle. Da che scoprono di esser tali. E, per tornare al discorso da cui siamo partiti, tutto comincia proprio dalle scuole.
Personalmente, ho scoperto di essere gay al liceo. Uso il termine anglosassone per delicatezza stilistica. Com’è facilmente intuibile, il lessico adoperato fu meno ricercato. Era ricreazione, avevo quattordici anni. Mi avvicinai a un compagno di classe, ero al primo anno e volevo fare amicizia. Stavamo, appunto, in corridoio, vicino al bar. Mi guardò, aveva gli occhi piccoli e cattivi. «Vattene» mi disse «o la gente penserà che sono come te». E pronunciò la parolina magica. Da quel momento scoprii di essere un paria. Il dramma vero, tuttavia, fu quando lo capirono tutti gli altri. Furono anni difficili e crudeli, come solo i ragazzini sanno essere. I professori fingevano di non vedere e se vedevano non sapevano andare oltre un divertito imbarazzo. Non faccio una colpa a nessuno di loro. Stiamo parlando della Sicilia di venticinque anni fa. Nessuno aveva insegnato, ai miei compagni e ai miei docenti, di essere migliori di quello che erano. Ci avrei pensato io, un giorno. Lo avrei fatto anche per loro. All’epoca, tuttavia, non potevo saperlo. Perché quella era l’età della paura. Credo che nella vita delle persone LGBT questa diventi un ingrediente un po’ troppo ingombrante di quotidianità. Perché si somma al normale timore della condizione di adolescente. Per un/a giovane anche gay non c’è solo la paura dell’interrogazione, di un brutto voto, di non essere all’altezza della situazione, di non essere abbastanza fighi, di non piacere a chi ti piace e via dicendo. C’è prima, di ogni altra cosa, il terrore di attraversare il corridoio, per arrivare nella tua classe senza essere attraversato, per tutto il tragitto, da risatine, insulti e sguardi pseudo-ammiccanti. Il terrore che si sappia in giro, che si sappia troppo e arrivi a casa, dove troverai lo sguardo deluso di tua madre e quello ferito, nel suo orgoglio maschile, di tuo padre mentre magari entrambi si chiedono dove hanno sbagliato. C’è l’ansia, giornaliera e costante, di ricevere una spinta di troppo, fosse anche una soltanto. O la carezza di parole sempre nuove, tutte sinonimi dell’unica che ti ha trasformato, come il morso di uno zombie, in una creatura da tenere a distanza.
Mi ci è voluta tutta la forza di cui ero capace per superare un inferno durato anni e anni. Almeno otto, perché è vero che ho realizzato di essere gay — no, scusate, frocio — al liceo, ma insulti, risate e frasi poco consone al concetto di civiltà volavano anche da prima. È la consapevolezza ad esser venuta in quel corridoio, in quel giorno di settembre. Lo ricordo come se fosse successo ieri. All’epoca non potevo saperlo, ma tutto quel dolore, tutto quel carico di umiliazione, che assorbivo e trasformavo in forza, non era altro l’equivalente di un detto, questa volta zen, per cui ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo lo chiama farfalla. E scusate l’accostamento, forse un po’ queer, ma converrete con me sull’opportunità della scelta.
Venticinque anni dopo ho portato la parola omofobia dentro le scuole. Nelle mie classi, a seconda di dove insegno, tra medie e liceo. Lo faccio perché le parole cattive abbiano sempre meno potere. E lo faccio perché si capisca che dietro quelle parole c’è un disegno antico, coincidente con l’idea di un sesso dominante e di una realtà dominata. Non è difficile dimostrare il nesso tra maschilismo, sessismo e disprezzo delle diversità, quelle sessuali in primis. Parlare di odio contro le persone LGBT mi permette, per altro, di trattare altri temi, come il femminicidio: frutto diverso dello stesso albero del male di cui sopra… i rischi ci sono tutti, ma ho deciso, dopo aver spiegato le ali, di non aver più paura. L’ho deciso quando ho fatto il mio primo coming out, con la mia compagna di banco, qualche anno dopo il diploma. Anche quando, in un quartiere periferico e a rischio di Roma, in una scuola in cui ho insegnato, i miei studenti hanno saputo di me. All’inizio volavano le risate e le parole di un tempo. Allora mi sono fermato, ho respirato, e ho spiegato loro come andavano veramente le cose.
«Ditemi la verità, vi trovate bene con me, in classe?»
«Beh, sì…»
«E le cose fatte, il bello imparato insieme, cambierebbe se sapeste se sono gay o eterosessuale?»
Da quel momento non fui più er frocio. Ero, di nuovo, il prof.
Concludo questo mio sfogo, che all’inizio doveva essere un articolo, riprendendo il nome di Matteo e ricordando quello di Eric James Borges. Il primo era un ragazzo di origini filippine, viveva a Torino, veniva perseguitato dai suoi compagni perché era «come Jonathan del Grande Fratello». Decise di uccidersi nell’aprile del 2007, con un volo dal balcone di casa. Eric era, invece, un giovane militante, anch’egli tormentato negli ambienti scolastici. Anche lui suicida. La lista, purtroppo, è lunga e, temo, non definitiva. Ho citato, prima, anche Andrea, il ragazzo romano suicidatosi a novembre, ma preferisco non parlarne ulteriormente perché non è ancora stata fatta chiarezza sulle cause del suo gesto.
Credo che in questi casi sia mancata la forza di andare oltre il dolore, gli insulti, la cattiveria del mondo. Non è una critica, ma una constatazione. Il senso della solitudine di queste persone, suicidate da una società che permette a persone come Joseph Ratzinger di lanciare la sua campagna d’odio ai danni di altri adolescenti, ai danni di tutte le persone gay, lesbiche, bisessuali e trans, sotto lo scudo del concetto di libertà religiosa. Voglio tornare sul messaggio della chiesa, in merito alla questione omosessuale: essere gay e amare altri uomini e altre donne è, per i cattolici, un’offesa all’umanità e una minaccia per la pace. Pazienza. Credevo in un dio un attimo più intelligente di quello descritto dal suo fan club. Credevo, appunto. Ma questo non è importante. Le parole di queste persone — e con esse la narrazione sull’omosessualità portata avanti dai media e dalla classe politica — possono ferire, in modo mortale. Possono scatenarne altre, rinverdire e concimare il seme della discriminazione, delle derisioni, dell’incomprensione. Possono far sentire incredibilmente soli ragazzi e ragazze che hanno solo bisogno di tempo e di attenzione per spiegare le ali.
Per tutto questo, per loro pronti a chiudersi nel bozzolo e costruire la loro casa di sogni e di seta, anche se ancora non lo sanno, ma anche per quelli che non ce l’hanno fatta, per i miei compagni del liceo e per i miei insegnanti totalmente impreparati ad affrontare la vita per come realmente era ed è, ho portato la parola omofobia nelle scuole. Per renderla meno potente. Perché le farfalle dentro ognuno di noi, di loro, volino ancora.
Materiali:
Risoluzione UE contro l’omofobia