di Fabrizio Lorusso
[La versione originale di questo articolo è uscita in spagnolo sul quotidiano messicano La Jornada, per la precisione sull’inserto settimanale che trovi qui. Ma a voler essere ancora più precisi e sinceri, la maggior parte del testo è stata tratta dal mio tema di maturità scientifica del lontano 1996. Dopo una lunga lotta contro la burocrazia ministeriale riuscii ad avere indietro l’originale e a farne una fotocopia. Effettivamente questa “prova scritta” salvò l’intero esame che era stato mediocre, se non proprio ributtante. Fu per colpa mia, nostra (come collettivo di classe) e anche (anzi, soprattutto) di una pedante e pesante docente di scienze, arrivata da chissà dove a falcidiare la nostra gioventù. Alcuni anni dopo modificai un po’ il testo, lo lasciai riposare ancora come un buon mezcal di Oaxaca (ma senza vermicelli o gusanos depositati sul fondo) fino ad arrivare a questo risultato finale quasi delirante che propongo, privo di speranza, F.L]
Nel 1934 uscì negli Stati Uniti un testo intitolato La poesia della matematica e altri saggi. L’autore era David Eugene Smith, matematico e professore emerito della Columbia University di New York. Scriveva: “La matematica è considerata generalmente agli antipodi della poesia, non c’è dubbio. Ciononostante la matematica e la poesia hanno una stretta relazione di parentela perché entrambe sono figlie dell’immaginazione. La poesia è creazione, finzione, e la matematica è stata definita da uno dei suoi ammiratori come la più sublime delle finzioni”.
Che significato può avere questa idea della matematica e delle scienze esatte come finzioni meravigliose e sublimi? Possiamo amare o addirittura costruire, giocare o speculare con i numeri e con i versi rimati allo stesso tempo? Banalizzo un po’. Dalle viscere della Universidad Nacional Autónoma de México (la UNAM, principale università dell’America Latina e tra le più grandi del mondo) posso dire che resta in vita un dibattito o, piuttosto, una diatriba storica tra facoltà scientifiche e sociali. Questa influisce, potenzialmente e praticamente, sui diversi modi di essere e persino sull’autostima di studenti e frequentatori dell’ateneo.
Impazzano brividi di menti e cuori, di studenti e docenti, che ci inducono a chiedere: avranno un’anima questi ingegneri? Ma poi amano anche i matematici? E davvero poetano i biologi? Oppure, considerando l’altro lato della medaglia, di cosa vivono i filosofi? Che mangiano i letterati? Alla fine, abbiamo, in qualche modo, qualunque essa sia, un’attitudine verso il ragionamento duro e puro anche noi romantici e umanisti? Misteri diventano domande. I dubbi, pregiudizi. Poeti hippie si scontrano con puntuali calcolatori semiumani.
Effettivamente la relazione tra studi matematici ed espressione poetica è poco studiata, s’ignora, si sottovaluta. Nell’unione tra il verso sublime e le cifre meravigliose, si dice, ci sarebbe un amore innecessario. Così per il matematico, ad esempio, la poesia s’identifica con una frivola mela, forse saporita, ma peccaminosa e vacua. Finisce per diventare inutile, priva del suo goloso godereccio che la assapori.
A sua volta i sentimentali credono che le formule e l’esattezza teorica intossichino l’anima. A volte, va detto, questi malintesi nascono dalla malafede della gente. Si stima che quella unione, cioè l’innamoramento tra numeri ed espressioni liriche, tra rime e quantiche ben messe, avrebbe conseguenze troppo anti-sistemiche. Immersi in eccessi di superficialità le consideriamo comunemente come due mendicanti, nemiche antitetiche. Una, la matematica, sarebbe diversa perché legata ad attività scientifiche, rudi e tecniche, dure e tremendamente reali. Invece l’altra, la poesia, flirta con la buona educazione umanistica, con campi della conoscenza quali la filosofia, le lettere e la psicologia. Infine sembra voler giocare con sensibilità letterarie, idealiste, quasi utopiche. Così dicono.
La rima baciata ama certe figure professionali che le vengono associate, tali come il filosofo disoccupato cronico, ma almeno felice, e l’eterno aspirante scrittore. Invece il fisico, il chimico, l’ingegnere e perfino il professionista dell’economia olimpica paiono destinati a vivere un po’ spenti ma con un lavoro ben pagato e adeguatamente stressante. Allo stesso modo saranno persone di successo e sempre rispettate per la loro serietà e il loro rigore scientifico che, a volte, diventa un preludio precoce del rigor mortis.
Alla separazione tra le due discipline, che rappresentano anche differenti passioni carnali e studi apparentemente diversi tra di loro, si fa corrispondere una sostanziale diversità degli individui appassionati di ciascuna di queste, come se possedessero capacità radicalmente discordi e una forma mentis, dei modali e flessibilità intellettive quasi inconciliabili. Inoltre, pare, matematica e poesia sono abbastanza refrattarie alla comunicazione e alla reciproca intesa. Sono testarde.
Un’ipotetica eterogeneità dei loro contenuti intimi e dei loro campi d’interesse contribuisce a mettere Donna Poesia e Signora Matematica in una brutta situazione, un rimpallo continuo di litigi e scontri. Ma per fortuna hanno molto da condividere. Hanno punti in comune che alcune raffinati analisi da scrivania polverosa e pure la pratica costante della sbronze intellettuali, così rivelatrici e sincere, hanno potuto rilevare.
Entrambe sorgono e partono da un anelito comune orientato alla conoscenza e dal desiderio tipicamente umano che consiste nella navigazione verso nuove mete e nuove domande incessanti (che poi però son sempre le stesse riformulate). L’apprendente, l’individuo che mette in dubbio, si mette in dubbio e fa domande, è colui che gode nel perdere la bussola, sia per distrazione che per curiosità. E’ quello che s’attiva mansuetamente per spostare l’orizzonte dell’utopia e della conoscenza sempre più avanti cosicché un fine non sia un finale. Anche se ci sono limiti, l’avventura è riconoscerli. Poesia e matematica si gemellano in quest’impresa.
Un corpo-intelletto che salta – mens sana in corpore sano – non si vergogna dell’unione blasfema tra due muse scostanti e sa sconfiggere la sterilità e l’inerzia della sua mente causati dalla vertigine dell’esistere. E’ forse una maniera di reagire dinnanzi all’immensità caotica e inspiegabile dell’universo o semplicemente si tratta d’una forza proveniente dal nostro inconscio che, come ci spiegò il buon padre della psicanalisi Sigmund Freud (1856-1939), riesce a sublimare l’energia repressa del nostro lato irrazionale. La canalizza verso scopi più accettabili, tollerati e socialmente permessi dal filtro della nostra censura interna.
Tanto la matematica come la poesia indagano sugli aspetti problematici della realtà come l’inizio, la fine, la vita, la morte e le coppie. Entrambe investigano di fatto il dilemma dell’infinito, dell’incommensurabile, dentro e fuori di noi umani. Speculano sui paradossi della vita e del cosmo, mettendo a fuoco ciascuno dei dettagli che li rendono meravigliosi, degni di stupore. In questo modo, con le loro riflessioni e i loro risultati, siano essi letterari, numerici o d’altra natura, illuminano d’intensità le menti e le mentalità, la razionalità e l’immaginario, gli emisferi del globo e di ogni cervello che vi abita.
Infatti, chi non è mai stato spasmodicamente accattivato dagli stravaganti paradossi e dalle stupefacenti contraddizioni che inevitabilmente troviamo quando cerchiamo di sentire e capire gli infiniti numerici e le loro proprietà? Una cosa semplice e banale, no? Basti ricordare, ad esempio, il disagio che abbiamo sperimentato in qualche imprecisato momento della vita quando abbiamo scoperto che l’insieme dei soli numeri pari si considera formato dalla stessa quantità di elementi del totale dei numeri interi. Una parte è grande come il totale, siamo infiniti e zeri allo stesso tempo. Inoltre nell’era digitale tutto si riduce a una sequenza di numeri uno e zero.
Sono sicuro che ci ha colpito un grave squilibrio interiore, simile a un’ebbrietà fatale, anche quando ci siamo scontrati con il fenomeno romantico chiamato “adolescenza”. Parlo dell’età critica e trasformatrice di noi stessi come uomini e donne. Ma mi riferisco ugualmente alle tappe demolitrici e rinnovatrici della storia umana, con le annesse violenze e i relativi sconvolgimenti. E parlo pure della forza e del ricordo della lettura delle opere poetiche: studiate, apprezzate e piante allo stesso tempo.
Sopravvivere ai tempi del romanticismo, come epoca dell’esistenza e della storia, significa affrontare nelle pagine dei libri e nella quotidianità le tensioni e le dialettiche irrisolte che caratterizzavano la sensibilità romantica. E’ partecipare ai viaggi senza fine dei pittori tedeschi come Caspar David Friedrich (1774-1840), creatore di tramonti assordanti e panorami malinconici. C’è chi ci resta e non torna più, pensando al viaggio come filosofia di vita.
Infine significa risuscitare la voce di un vate sfortunatissimo, amato e odiato, come Giacomo Leopardi (1798-1837). E’ l’autore de “L’infinito”, inesausto tormento e delizia di ogni studente italiano. Le anime piene di rimpianto erano tremendamente sospese tra passato e futuro, disegnavano memorie del domani che cominciavano e finivano nel medesimo orizzonte, giusto lungo il limite estremo e sfumato della contingenza umana. In definitiva l’altra chance era il suicidio e così il viaggio eterno da metafora diventava realtà immediata. Nichilismo puro. Lasciamo stare. Costruiamo.
L’avvicinamento tra la lirica e i numeri va acquisendo più senso se consideriamo uno dei grandi temi della poetica del decadentismo francese, quello della foresta di simboli che il poeta deve attraversare per captare la realità più profonda e pura. C’è un’analogia con gli sforzi della matematica e dei suoi tentativi di tracciare mappe stradali della selva oscura dell’ignoto e di trovare o descrivere armonie e perfezioni di un mondo che, invece, è dominato dall’entropia, dall’incertezza e da uno sviluppo irrazionale.
L’interpretazione della matematica come finzione meravigliosa e sublime risiede anche nel suo campo di ricerca, nei suoi ambiti d’evoluzione e applicazione e nei suoi legami con l’astrazione e la proiezione verso un mondo “oltre”: si costruisce un universo regolato e descritto da leggi precise, fatti e tendenze, dati e probabilità che si nutrono di simmetrie e impianti equilibrati. Almeno fino a un certo punto o fino al vertice dell’utopia numerica. Quella è la pace che non c’è.
Ed era la concezione dell’universo secondo le correnti filosofiche della Grecia presocratica. Effettivamente si proponeva un mondo spiegabile e rappresentabile secondo relazioni numeriche prestabilite e certe forme geometriche. A queste si potevano riferire le strutture di tutti gli esseri: c’erano città da sogno con quadrati, triangoli, ovali, segni e codici alfanumerici (non ancora a barre), numeretti e colonne esagonali in ogni dove.
E’ nota la preponderanza insolente che “il numero” fu acquisendo nella riflessione del greco Pitagora di Samo (580 a.C.—495 a.C.). Fu filosofo y matematico, esoterista e vegetariano, però gli è mancata la vena adatta per rivelarsi anche come poeta. Nessuno è perfetto. Ciononostante durante secoli i suoi discepoli hanno identificato l’Arché, ossia l’inizio dell’universo e di tutte le cose, proprio con l’Uno, primo dei numeri. Sembra poco, ma il primo, il numero uno a dirlo, entra nella storia.
D’altro canto il pensiero del tedesco Friedrich Nieztsche (1844 — 1900) si situa in un polo opposto rispetto alla visione apollinea e ordinata della vita e del cosmo. Di fatto lui partiva da un’indiscutibile visione dionisiaca e caotica della situazione presente, di quella passata e del futuro, dato che il disordine regna in questo mondo, tanto nostro quanto straniero allo stesso tempo. Bisogna negare qualunque valore alla matematica e alla metafisica. Nella sua opinione sarebbero scienze illusorie, il frutto marcio di una realtà inesistente che l’uomo nemmeno dovrebbe continuare a cercare.
La matematica e la poesia sono tutte e due prodotti dell’immaginazione, di un certo sfasamento interiore e di una fertile intuizione. Si concretizzano in forma ed espressione grazie alla sintesi dell’individuo, per il suo slancio esplicativo e comunicatore. Addirittura il lavoro epistemologico del filosofo austriaco Karl Popper (1902-1994), il quale introdusse il “falsificazionismo” o criterio di falsificabilità come elemento di demarcazione tra ciò che sì è “scienza” e ciò che non può esserlo, aveva riconosciuto l’origine extra-scientifica e irrazionale della maggioranza delle teorie scientifiche. Spesso queste sono infatti generate dalla fantasia, dall’inventiva, dal caso, dalla libera immaginazione, dai fumi dell’alcol e, infine, da quel tocco di poesia che tutti abbiamo.
Arthur Schopenhauer (1788-1860) sosteneva che la poesia e l’arte in genere non sono altro che intuizione immediata e contemplazione disinteressata del mondo di archetipi formato dalle idee. Vedere per credere. La musica, che è superiore e si colloca sulla punta della piramide delle espressioni artistiche, si rivolge e comunica direttamente alla Volontà, la volontà con V maiuscola che muovo ogni essere a vivere e a riprodurre la specie.
Un altro elemento di connessione quasi amorosa tra matematica e poesia sta nella natura musicale, ritmica, melodiosa e proporzionata di numerosi poemi, specialmente dei meglio invecchiati. Molte volte seguono forme e metriche precise, relative ai principi matematici che regolano anche la disposizione delle sette note nel pentagramma. Ed è questo il tema neoclassico della “armoniosa melodia pittrice”, secondo quanto recita un famoso verso del poeta italiano Ugo Foscolo (1778-1827). La poesia è come un’astrazione matematica che, grazie alla sua intrinseca natura musicale, può e vuole elevare l’uomo verso un mondo di perfezione. In fondo le due si amano, fuori da ogni ragionevole e poetico dubbio.