di Roberto Sturm
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La marcatura della regina di Giovanni Di Giamberardino, Edizioni Socrates, pp.193, € 9,00
Dimmi che c’entra l’uovo di Fabio Napoli, Del Vecchio Editore, pp. 168, € 14,00
Credo che l’editing sia uno dei grandi assenti nel panorama della narrativa italiana. Più di una volta mi è capitato di leggere buoni romanzi, specialmente opere prime, che hanno mancato il salto di qualità definitivo proprio per la mancanza del lavoro di un editor serio.
E dire che in America, soprattutto, anche i grandi autori sono sempre stati sottoposti a una supervisione dei loro testi: uno per tutti, Raymond Carver. Nella biografia dell’autore americano scritta da Carol Sklenicka (ed edita in Italia da Nutrimenti), la figura di Gordon Lish (nella foto), editor e amico di Carver, riveste un’importanza fondamentale nella carriera di colui che è considerato un maestro della narrativa breve del ‘900. Un rapporto conflittuale che ha portato lo scrittore a pregare per lettera l’amico di ripristinare i passi tagliati: a volte si parlava di un taglio anche del settanta per cento del testo originale. Se qualcuno fosse interessato a vederne i risultati, può leggersi Di cosa parliamo quando parliamo d’amore e Principianti, che è la stessa antologia prima del lavoro di Lish.
Nonostante abbia seri dubbi che in questo caso la revisione abbia portato effettivi miglioramenti, c’è da dire che l’editing generale sui testi di Carver ha avuto comunque un senso e ha portato a un’uniformità che difettava all’originale.
In Italia non mancano editor professionisti e professionali ma la maggior parte delle case editrici oggi non investe in questo campo. Non so se per problemi economici o di tempo, ma mi pare giusto, quindi, cogliere l’occasione per parlare di due romanzi usciti di recente in cui questo lavoro è stato fatto, e anche molto bene: La marcatura della regina, di Giovanni Di Giamberardino, e Dimmi che c’entra l’uovo, di Fabio Napoli.
Al di là della validità intrinseca delle opere, non si può fare a meno di notare la compattezza dei testi, l’uniformità dello stile, la mancanza di evidenti cali narrativi, la ricercatezza di formule stilistiche e narrative pulite ma mai banali, il sottrarsi degli autori a quell’autoreferenzialità che spesso macchia i lavori non solo degli esordienti.
Ho avuto la fortuna di leggere la versione de La marcatura della regina del ventottenne Di Giamberardino prima del lavoro di editing effettuato da Alessandro De Santis e Filippo Nicosia, i curatori della collana in cui è stato pubblicato: nonostante non abbiano affatto stravolto il testo, né da un punto di vista dei contenuti né da quello stilistico, il miglioramento del romanzo è enorme. Oltre ai punti sopra citati, lo smussamento di luoghi comuni, la miglior efficacia dei dialoghi, la maggior caratterizzazione dei personaggi, una trama pilotata con più mestiere hanno reso un testo che non mi aveva entusiasmato un romanzo di qualità superiore.
Non posso dubitare, quindi, che Filippo Nicosia abbia fatto lo stesso lavoro sul ventiseienne Fabio Napoli e abbia reso Dimmi che c’entra l’uovo quello che è: un romanzo moderno e attualissimo, con dialoghi realistici e una trama che non si ripiega mai su stessa ma mantiene sempre un ampio respiro sulla nostra realtà. Un romanzo che ha diversi strati di lettura, che va dall’evasione alla denuncia sociale senza soluzione di continuità, mescolando ironia e dramma quotidiani con mestiere.
Credo che siano argomenti più che validi per affermare che in Italia, se si vuole migliorare la qualità narrativa dei nostri autori, sia necessario un coinvolgimento maggiore delle case editrici, soprattutto delle più grandi, che spesso delegano il lavoro sporco ai piccoli editori, sostenendo invece nomi che di letterario non hanno niente.
Passiamo ora ai due romanzi. Entrambi possono essere definiti noir ed entrambi sono ambientati a Roma.
La marcatura della regina si snoda in 24 capitoli, uno per ogni ora della giornata. I protagonisti, indistintamente, sono collegati alle indagini sull’omicidio di una donna sgozzata, ritrovata nuda in un cassonetto di via Nomentana. Sono netturbini o poliziotti, extracomunitari o tassisti, vagabondi o medici legali, ragazzini o attori, testimoni più o meno affidabili o frequentatori di bar, baristi o credenti praticanti, internauti o fuori di testa: un campionario di un’umanità disperata e perversa che sfoga sui più deboli la propria rabbia. Il timbro dell’autore spazia tra un ventaglio di scelte stilistiche diverse: ironia, collera, disperazione e impotenza lanciano il loro gelido sguardo verso una società in cui ogni individuo insegue il proprio potere, dove il benessere personale è al di sopra di ogni altra cosa, dove la brutalità sembra essere il traguardo per sentirsi appagati. Come le api che passano tutto il giorno a costruire il loro alveare, l’umanità pare uno sciame più o meno impazzito che impegna il tempo a costruirsi la propria prigione, una cella per erigere una barriera contro il mondo esterno.
Dimmi che c’entra l’uovo è invece la storia di due giornate di Roberto Milano, un laureato che si arrabatta con più lavori precari (o in nero) per pagare l’affitto e le bollette mensili. Gira per Roma in bici e nel giro di poche ore perde tre dei suoi quattro lavori: comparsa nei film porno, insegnante di lezioni private e consegna di pizza a domicilio. Gli rimane solo un part time in un bar frequentato da anziani. In un colloquio di lavoro presso un fast food, ultima chance per sbarcare almeno il lunario, incontra Marianna con cui intreccia una relazione amorosa. Ma le necessità lavorative si fanno stringenti per entrambi e insieme a un altro socio danno vita alla Banda dei precari. In un susseguirsi di situazioni vorticose, in cui rabbia e ironia convivono magnificamente, il bisturi di Fabio Napoli seziona senza pietà un mondo in cui il precariato è una forma di prevaricazione intollerabile, che condiziona le nostre vite, i nostri rapporti affettivi, il nostro futuro. Uno strumento in più in mano a un potere che non lesina i ricatti più raffinati pur di mantenersi.