di Sandro Moiso
“Come?! — si chiederà subito qualche lettore — Ma non è una vicenda ambientata durante l’era del proibizionismo, quella narrata nel film di John Hillcoat?”
Certo, ma è lo spirito con cui Nick Cave ha riscritto la storia, tratta dal romanzo biografico di Matt Bondurant La contea più fradicia del mondo (edito in Italia da Dalai), a richiamare in pieno la cinematografia americana della fine degli anni sessanta e dei primi anni settanta.
E’ quello che va subito detto a proposito di un film di cui poco si è occupata la critica e, spesso, in termini negativi. E ancor di più va sottolineato il suo approccio realmente seventies, in un’epoca in cui bastano poche immagini di un paio di sballoni che si fumano un po’ di erba per far gridare alla riscoperta degli anni sessanta e settanta.
No, cari lettori, le cose non stanno così.
La droga poteva esserci o non esserci nella cinematografia di quegli anni, ma quello che non poteva mancare era la rabbia, la furia, talvolta repressa ma sempre pronta ad esplodere, contro lo stato di cose presenti. Il nemico non era un qualche villain di maniera e nemmeno un generico male.
Era lo Stato, con le sue leggi e i suoi rappresentanti corrotti e violenti, oppure il perbenismo di una società che nascondeva, come polvere sotto il tappeto del moralismo, ogni genere di obbrobrio e di prevaricazione.
No, quando assistiamo alla proiezione di film come Punto zero di Sarafian, Il Mucchio Selvaggio di Peckinpah, Dillinger di John Milius oppure a quella dei vari Easy Rider di Hopper o L’impossibilità di essere normale di Rush, non assistiamo alla narrazione di storie di impianto brechtiano. Né ci troviamo di fronte ad una cinematografia dichiaratamente politica o, peggio ancora, impegnata.
Molti di quei registi non erano neppure lontanamente di sinistra, basti pensare a Milius e Peckinpah. Né, tanto meno, la lotta di classe si poneva al centro della loro azione cinematografica. Eppure, eppure…
La titanica e romantica lotta dell’individuo contro un mondo di ingiustizie e di oppressione, di falsità e menzogne raggiungeva, in quelle pellicole, il vertice della propria potenzialità espressiva.
Su quella cinematografia, molto più che su Lenin, Marx, Bakunin o sulle tesi di qualche professore universitario, si formò un’intera generazione. Istintiva, furiosa, scarsamente disposta a venire a patti con l’esistente. A Torino come a Detroit, a Milano come alla Kent State University dell’Ohio.
Capelloni con rabbia e un’idea fissa: Rivoluzione.
E in fin dei conti, poi, i rivoluzionari e il comunismo originario, di stampo ottocentesco, non si erano, forse, anche loro bagnati nelle correnti del romanticismo e del titanismo cercando di coniugarli con il materialismo di stampo illuminista?
Sognare di poter, un giorno, rovesciare l’esistente non significava, in fondo, vincere la paura delle enormi forze messe in atto dal capitale, dal suo potere e dai suoi sgherri, in divisa o travestiti, chiunque essi fossero?
“Siamo dei sopravvissuti — afferma Forrest Bondurant, uno dei tre fratelli di cui il film di Hillcoat narra le vicende — perché controlliamo la paura. Senza il controllo della paura saremmo spacciati”.
La malavita organizzata delle grandi città, la polizia locale, il procuratore della contea di Franklin e gli agenti federali avrebbero buon gioco nello spezzare la schiena dei ribelli e dei poveri montanari delle Allegheny Mountains che si mantengono distillando white lightning, una micidiale miscela di alcool, zucchero e chissà cos’altro ancora, destinata a sostituire i liquori di qualità all’epoca del proibizionismo.
Ma vincere la paura significa reggere lo scontro, respingere il ricatto, costi quel che costi.
Significa, se non vincere, almeno sopravvivere. Alle proprie condizioni, però, e non a quelle imposte da altri. E se, come nel Mucchio Selvaggio o in Punto Zero ( a cui il film, in più di una scena, fa esplicito riferimento), si deve andare fino in fondo, fino al termine della strada e della corsa, ciò è dovuto al fatto che ogni esitazione, giunti ad un certo punto, non potrebbe far altro che amplificare e moltiplicare il dolore di un’inutile e prolungata agonia.
Hillcoat è regista esperto. Nato nel Queensland, in Australia, nel 1961, ha al suo attivo numerosi video musicali, ma, soprattutto, due altri film ben riusciti: The proposition (in italiano La proposta) del 2005, con musica e sceneggiatura di Nick Cave, e The Road, del 2009, tratto dall’omonimo romanzo di Cormac Mc Carthy, sempre con la colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis. E la ricerca di temi duri, dallo svolgimento quasi western, costituisce una costante della sua cinematografia; in alcuni casi senza speranza, in altri con la sopravvivenza legata ad un tenue filo, rappresentato quasi sempre dalla volontà granitica, dei suoi personaggi, di andare oltre.
Attenzione, non fraintendiamo, non sono personaggi di successo e, nemmeno uomini, per i quali l’arricchimento è tutto. Signori e signore, qualsiasi idea vi siate fatti, qui non siamo dalle parti di Hollywood. In questo caso, poi, siamo in una delle parti più povere, da sempre, degli Stati Uniti.
Dove non basterà il New Deal a risolvere i problemi e dove una vecchia doppietta, un tirapugni di ferro o un revolver possono significare, spesso, la salvezza, mentre la loro mancanza, invece, la morte.
E dove le donne devono essere forti.
Il prototipo, tutto maschile, dell’oca giuliva, che tra uno spinello e una scopata riesce a farsi rapire dal cattivo di turno, oppure della tarantiniana donna guerriera non ci starebbe proprio in quel contesto. Semplicemente non potrebbe sopravvivere più di qualche istante.
Le altre, invece, quelle vere rappresentate nel film, non possono uscire dal ruolo che quella società impone loro, ma devono resistere e, talvolta, ribellarsi. Con atti di coraggio, di violenza oppure con semplici, ma quanto difficili, fughe da un ambiente e da una mentalità ristretta.
Tutte egualmente nobili, tutte egualmente degne di rispetto.
Il proibizionismo, in vigore negli Stati Uniti tra il 1919 e il 1933, fu fortemente voluto dalle associazioni più moralistiche e bigotte della federazione. Quelle che Peckinpah letteralmente massacra nelle sequenze iniziali de Il Mucchio Selvaggio.
Non portò ad altro che al rafforzamento della grande criminalità e, contemporaneamente, allo sviluppo di un ente federale, il Federal Bureau of Investigation, destinato a svolgere un’attività di controllo politico-poliziesco su tutto il territorio nazionale con la scusante della lotta ai gangster.
I Kennedy, cattolici irlandesi, divennero proprio in quel periodo e grazie alla figura di Joseph, futuro padre di John Fitzgerald e Robert e presidente della commisione di controllo della Borsa sotto la presidenza Roosvelt, un’autentica potenza, grazie all’aiuto fornito a quei traffici.
I montanari, i disoccupati e i minatori della Virginia, no.
E come i minatori in lotta di Harlan County U.S.A. di Barbara Kopple(1976), forse il più bel documentario mai realizzato su una lotta proletaria, e i protagonisti white trash dei romanzi di Daniel Woodrell, che campano di loschi affari, legati alla produzione locale di droga, continuano a testimoniare ancora oggi, involontariamente, la mancata realizzazione del sogno americano.
I poliziotti e gli agenti federali, nelle vicende narrate, non sono corrotti e piacioni.
No, non sono dei Fabio Fazio in divisa o con la stella da sceriffo. Sono degli autentici rappresentanti del potere: corrotti, vili e, talvolta, assassini. Efferati.
Per loro ed i loro servi la punizione deve essere adeguata. E desiderata dal pubblico.
Non occorre dire, in fine, che Guy Pearce, Gary Oldman, Tom Hardy, Shia La Beduf e Jessica Chastain sono tutti perfetti nei loro ruoli, nelle loro tristezze, nella loro solitudine, nei loro silenzi, nei loro sogni e nella loro crudeltà.
Qualche critico ha voluto tracciare un parallelo tra il film di Hillcoat e Nemico Pubblico di Michael Mann. Anche il film di Mann riprendeva la tematica della fine del gangsterismo indipendente ai tempi della Grande Depressione e lo faceva tornando a narrare le vicende della banda Dillinger. Ma il film di Mann rimaneva, per la fotografia patinata e la scelta degli interpreti, in un ambito hollywoodiano che né l’interpretazione di Johnny Depp né la colonna sonora, dominata dalla voce evocativa di Otis Taylor, riuscivano a salvare del tutto, rimanendo ben lontano dalla versione cinematografica del 1973 di John Milius e Warren Oates.
Sulla colonna sonora
Già, la colonna sonora: una delle parti più importanti del processo di post-produzione cinematografica. Il cui ruolo è spesso sottovalutato, soprattutto qui in Italia, dalla critica e da un pubblico abituato ad abbandonare la sala subito dopo la fine delle ultime immagini. Chi se ne frega, in fondo, di leggere i titoli di coda e, ancor di più, di arrivare in fondo agli stessi dove, di norma, sono relegati i titoli dei brani ascoltati sullo sfondo delle vicende e i nomi degli esecutori e degli autori degli stessi.
Eppure, spesso, questa riveste un’importanza fondamentale per il successo di un film e e per la sua affermazione, come la coppia Sergio Leone —Ennio Morricone ha ben dimostrato per la cinematografia italiana così come anche quella formata da Federico Fellini e Nino Rota.
Certo, ormai, anche John Hillcoat, Nick Cave e Warren Ellis formano un ben affiatato trio per la definizione dello spazio emozionale delle vicende narrate.
Tutti e tre australiani, provengono da esperienze artistiche talvolta convergenti non soltanto nella composizione del commento musicale dei film in cui si trovano a collaborare.
John Hillcoat ha realizzato alcuni video per Nick Cave e le sue formazioni più recenti, mentre Warren Ellis, violinista e tastierista dei Dirty Three, da diversi anni collabora, parallelamente all’attività del suo gruppo, con i vari ensemble musicali guidati da Cave.
I due, oltre che con Hillcoat, avevano già collaborato alla realizzazione della colonna sonora di L’assassinio di Jesse james per mano del codardo Robert Ford di Andrew Dominik, nel 2007.
Ma, sicuramente, è nella musica di Lawless che la loro riproposizione di atmosfere tristi oppure ispirate alla tradizione musicale popolare americana ha conseguito , per ora, il risultato migliore.
Grazie anche alle voci di Mark Lanegan, Ralph Stanley, Emmylou Harris e Willie Nelson.
Fin qui qualcuno potrebbe dire: “E allora? Qualche cantante famoso, un po’ di country music … dove sta la novità?”.
La vera novità, riuscita in pieno, è data dal fatto che per una volta non si tenta di reinterpretare, in chiave contemporanea o rock, alcuni classici del country e del bluegrass, ma al contrario si riciclano alcuni brani del rock più ardito degli anni sessanta in chiave arcaica.
Era difficile infatti immaginarsi, prima dell’operazione compiuta da Cave ed Ellis, una rivisitazione hillibilly di White Light/White Heat dei Velvet Underground oppure di Sure’Nuff’N Yes I Do di Captain Beefheart.
Tale rivisitazione, però, non si accontenta di cambiare la strumentazione dell’accompagnamento, ma oltre che ad una versione di entrambe le canzoni affidata alla voce di Lanegan, si spinge ad affidarne un’altra e più evocativa versione alla voce di Ralph Stanley, ottantacinquenne rappresentante della più genuina mountain music. Trasformando così l’inno dark e nevrotico dei Velvet, al flash prodotto dall’uso dell’eroina, in una canzone da distillatori clandestini di whiskey White Lightning.
Narrano, infatti, le cronache di uno stupefatto Lou Reed mentre assisteva alla registrazione e rilettura del suo brano ad opera dell’ultra-ottantenne Ralph Stanley, mentre il fantasma di Don Van Vliet, in arte Captain Beefheart, deve proprio aver sorriso nell’aver sentito cantare la sua Sure’Nuff da una voce più roca, antica e primitiva della sua.
La White Light reinterpretata da Mark Lanegan si trasforma, invece, in un autentica e nervosa square dance, adatta alle feste dei montanari e dei bootleggers della Virginia degli anni venti, mentre le altre canzoni, anche quelle eseguite da Emmylou Harris, assumono la drammatica rarefazione dei brani migliori scritti da Lou Reed e John Cale ai tempi della loro collaborazione nei Velvet. Ma, soprattutto, se assisterete alla proiezione del fim, in qualsiasi formato, non alzate il culo dal vostro sedile prima di aver sentito per intero Midnight Run eseguita da Willie Nelson, Nick Cave e Warren Ellis sui titoli di coda.