di Valerio Evangelisti
[Introduzione a Amianto, una storia operaia (Agenzia X, Novembre 2012, pp. 160, euro 13) di Alberto Prunetti]
Avete tra le mani un libro terribile e bellissimo. Detto questo, ci sarebbe poco da aggiungere. Ogni lettore noterà da sé la verità della mia constatazione. Ciò che scriverò sotto il giudizio iniziale è dunque, in certa misura, superfluo.
Dolore, divertimento, pena, riflessione, compartecipazione. Quanti testi moderni riescono a suscitare una tale gamma di sentimenti? Eppure ho provato tutto ciò leggendo la storia narrata da Alberto Prunetti. Una nuvola di sensazioni alternanti e contrapposte, quali solo uno scrittore vero riesce a condensare.
Sulla bravura di Prunetti non avevo dubbi. Le prime cose che lessi di lui erano le sue disavventure tragicomiche di pizzaiolo a Londra. Seguirono racconti, un romanzo (Il fioraio di Perón), ricostruzioni storiche in chiave narrativa (Potassa), antologie, molte traduzioni, molte introduzioni e curatele di scrittori sudamericani (pochi, in Italia, conoscono l’Argentina e la sua cultura quanto Prunetti).
Non immaginavo però di ritrovarmi così commosso — autenticamente commosso — nel leggere le righe che ha voluto dedicare a suo padre. E così coinvolto in una vicenda che, purtroppo, non è ancora finita.
Renato Prunetti, operaio tubista e saldatore, era fiero della sua professione e della sua bravura. Solo che doveva coprirsi d’amianto per svolgere il lavoro. L’amianto uccideva lentamente, e lui non lo sapeva. Quando fu noto, il padronato cercò di tenere nascosto il più possibile il male compiuto, poi di ritardare le misure riparatorie. Scegliere altre forme di protezione avrebbe compromesso un ciclo collaudato, e obbligato a spese senza rientri sul piano del profitto. Sostituire un lavoratore che muore costava (e costa) sempre meno che introdurre modifiche nel processo lavorativo. Direi anzi che oggi costa meno ancora. L’Ilva, e non solo l’Ilva, ce lo ricorda.
Alberto Prunetti assiste al logorio progressivo del padre. La vicenda è al tempo stesso angosciante e, nelle prime pagine, quasi divertente, ma solo perché, pur consapevoli dell’esito (ci è stato anticipato fin dalle prime righe), non lo abbiamo ancora “vissuto”. Prunetti calibra benissimo il contagocce delle emozioni.
La sua bravura di scrittore la si vede, la si tocca grazie a una lingua vivissima e naturale, impreziosita da espressioni idiomatiche. Una costruzione stilistica raffinata e tuttavia avvertita dal lettore come spontanea, quale è.
Si passa da un’infanzia tutto sommato felice, scandita da corse in bicicletta tra cumuli di veleni, all’inizio del dramma. Con, in mezzo, la lunga parentesi “normale” dell’uomo — Renato — soddisfatto di ciò che fa, del suo essere indispensabile per chi lo impiega, delle sue veniali trasgressioni (un bicchiere di vino, qualche esplosione di esuberanza), della protezione che assicura alla famiglia. Con la morte già nelle membra, a sua insaputa. Seguirà l’iter avvilente, burocratico e giudiziario, percorso dal figlio perché sia sancito che fu un delitto. Fino a una deludente soluzione di compromesso, che non voglio anticipare.
Due note conclusive. C’è chi ritiene che la classe operaia sia tramontata per sempre, sostituita dal “lavoro cognitivo” (a cui vorrebbe approdare Alberto Prunetti, salvo trovarsi a sguazzare in un pantano di precarietà e frustrazione). Falso. Basta guardare fuori dai confini occidentali per scoprire che la classe operaia, espunta in un luogo, riappare in un altro. Ed è ancor più sfruttata. Gli operai delle maquiladoras del Messico, delle Filippine, dell’India ecc. sono forse “proletariato cognitivo”?
Non prendiamoci in giro. Sono proletariato e basta. Di storie come quella di Renato potrebbero narrarcene a centinaia.
Seconda nota. Senza volere santificare il suo martirio, è certo che l’orgoglio di Renato Prunetti per ciò che faceva aveva basi concrete, materiali. Saldava, forgiava, ridisegnava i metalli. Ne andava fiero. Anche i suoi momenti di ribellione traevano origine da tali abilità. Si può irridere un simile passato. Pubblicare romanzetti di successo in cui la fabbrica è solo sfiorata, richiamata nel titolo e poi ignorata. Ma quel passato implicava fierezza, onorabilità, senso di appartenenza, ribellione ai soprusi. Ciò che oggi si cerca di cancellare con ogni possibile, sporco espediente, perché in quella condizione esistenziale, prima ancora che materiale, risiedeva l’antitesi prima allo sfruttamento. Un operaio con la fronte bassa non è un operaio, ma un involucro funzionale a produrre miseria propria e ricchezza altrui.
Renato Prunetti la fronte alta la tenne sempre, anche quando fu ormai prossimo a morire. Per fortuna lascia un figlio capace di far rivivere il senso di una resistenza umana con una bravura che mette i brividi.