di Alberto Prunetti
[Riproponiamo un editoriale comparso alcuni mesi fa su Carmilla, scritto a caldo dopo l’assassinio di due pescatori indiani] A.P.
Due umili lavoratori, non importa quale sia la loro nazionalità, sono stati probabilmente uccisi da alcuni militari, non importa quale sia la loro nazionalità.
Questo è ciò che conta. Chi li ha ammazzati, non importa se italiano (com’è probabile e come stabiliranno le indagini) o greco (come sostenevano i giornali italiani ieri, cosa secondo me alquanto improbabile), non doveva stare lì con un mitra in mano, pagato da noi o da altri subalterni greci. Subalterni a un sistema che spende soldi in spese militari per poi dire che mancano per ospedali, pensioni, università. Ma non sono questi gli unici paradossi della famosa “questione intricata”, che a me sembra semplice: i militari italiani non dovevano stare lì, sul ponte di una nave commerciale privata, e non possono aprire il fuoco contro innocenti pescatori. Pescatori e non pirati, perché i pirati in Kerala non ci sono.
Tendenzialmente, sia in India che in Italia non scarseggia l’inclinazione a difendere i propri militari: si rivendica l’impunità per uccidere sul proprio territorio e non si concede facilmente ad altri questo lusso. Di qui i problemi degli ormai famosi (in India direi “famigerati”) marò italiani e le difficoltà della diplomazia della Farnesina: a quanto pare, ci istruiscono i nostri media, all’estero si può aprire il fuoco impunemente contro un pescatore a un tot di miglia dalla costa, sostenendo di aver respinto dei pirati all’arrembaggio. Questo delirio si chiamerebbe “diritto internazionale”.
Squillano sui giornali le trombe soffiate da astrusi alfieri dell’impunità militare, un’impunità che dovrebbe farci ricordare le lamentele italiche per gli aviatori americani mai incolpati di alcunché per la strage del Cermis. Alle teorie degli esperti di diritto internazionale giornali come La Nazione stamani affiancano inquietanti dichiarazioni di militari, tratte da Facebook, che chiedevano carta bianca per fare irruzione in India o almeno farla pagare agli indiani che vivono in Italia. Tutto questo, oltre a collocarsi tra il ridicolo e il favoreggiamento del razzismo strisciante nella nostra società, conforta ovviamente le autorità indiane nelle loro scelte di trattenere gli italiani per sottoporli a processo, oltre a allungare i tempi diplomatici nuocendo agli interessi degli stessi soldati detenuti. L’ “ora d’odio” non ha pagato all’epoca delle pressioni diplomatiche italiane contro il Brasile nel caso Battisti: contro l’India, paese con una fortissima tradizione anticoloniale, “giornalate” come quelle di questi giorni sono un vero e proprio suicidio mediatico. Comunque auguri.
Per come la vedo io, affidare all’India le indagini per i morti indiani su navi indiane potrebbe riaffermare un principio che non è giuridico ma è umanitario: che non basta essere pagati per proteggere delle merci per avere il diritto di uccidere delle persone, con la scusa che “forse”, “eventualmente”, “potrebbero essere dei pirati”.
Intermezzo milanese
C’è qualcuno che pensa che i due pescatori indiani e le loro famiglie potrebbero ottenere giustizia in Italia? Prendiamo un caso più vicino e più recente: quello del “cileno” ucciso pochissimi giorni fa a Milano da un agente della polizia municipale. Quanti si ricordano di quel caso, già sommerso e seppellito dalle chiacchiere sullo spread? Chi ha mai visto la sua faccia, chi si ricorda il suo nome? Forse non aveva neanche un nome, perché nei tg lo chiamavano solo “il cileno”. Pensate che i familiari di lontani e poveri pescatori che guadagnavano un euro al giorno possano avere qualche possibilità di ottenere giustizia in un paese distante migliaia di chilometri con un’opinione pubblica che ha già assolto i due militari? (Detto per inciso, la fantasia dei giornali italiani non aveva suggerito l’ipotesi che il cileno fosse un pirata, però anche qui erano spuntate le armi ma poi erano sparite. Mancavano invece le miglia marine come spartiacque del limite entro il quale si può con ogni titolarità crivellare di colpi un poveraccio in fuga che urla “non sparate”).
Deliri giornalistici: l’India vista male e da lontano
Intanto da ieri i giornali italiani fanno il gioco delle tre carte con una nave greca (ma non ho letto di conferme delle autorità greche riguardo alle attività di questa nave, che per ora sembra un asso nella manica degli italiani) e dipingono le acque del Kerala come infestate da pirati: neanche i tigrotti di Mompracen erano di quelle parti e gli atti di pirateria si registrano più al largo della costa indiana, da pirati che hanno per l’appunto le loro basi sulle coste della Somalia. Ancora sul fronte dei deliri giornalistici, apprendiamo che i due soldati detenuti in India, in attesa di divenire “eroi italiani”, sono “due papà coraggiosi”, “due papà premurosi”. Come tutti “tengono famiglia”: la strategia giornalistica funziona in questo modo ma non aiuta a capire meglio le cose e si sgretola davanti al fatto che qualche figlio ce lo avevano anche i pescatori Jalastine e Pinku, quindi siamo al pari. La disinformazione lascia passare l’idea che i due militari abbiano appena passato un giudizio sommario o starebbero per essere condannati a morte, laddove la giustizia indiana, nel rispetto di un sistema di procedura penale diffuso ovunque, li ha sottoposti a un semplice fermo di tre giorni, che verrà esteso ancora in attesa di approfondire la loro situazione. Non li hanno neanche messi in una cella, ma in un bungalow circondato dalle splendide palme del Kerala, con ampia disponibilità di cibo e sigarette. “Non ci hanno fatto vedere la nave crivellata”, si lamentano i giornali italiani, ma è anche vero che fino a ieri la rappresentanza italiana in Kerala era composta da fricchettoni, alcuni dei quali amici miei, che di solito non frequentano caserme e palazzi di giustizia, in qualsiasi paese si trovino. Di passaggio si erano visti un console e un paio di vescovi indiani che fanno notoriamente le veci dello stato italiano (il Vaticano ha per ora la rassegna stampa più aggiornata sul caso e la sua diplomazia sarà il terzo che gode tra i due litiganti: ci scommetterei), ma solo oggi qualcuno che conta si è fatto vedere, mentre il ministro degli esteri arriverà a giorni ma se ne andrà a Delhi, che rispetto al Kerala è su un altro pianeta. Insomma, gente, ci vuole un po’ di tempo per avere qualche foglio legale e in cancelleria bisogna mandarci gli avvocati: questa è la procedura penale in India e per quanto possa sembrare strana, pare vada rispettata (come diceva Bud Spencer in un noto film). In ogni caso smettiamola di spaventare i bambini e i cuori puri con la pena di morte (quella che i nostri boys elargiscono a piene mani nei luoghi in cui la loro presenza viene richiesta dalle necessità del capitalismo globalizzato): a me risulta che la pena capitale, che si rischia tra l’altro con più frequenza negli Usa piuttosto che in India, non sia stata finora applicata nel subcontinente indiano neanche nel caso di Ajmal Kasab, l’unico detenuto del commando che ha provocato il 26 novembre 2008 centosessantacinque morti e più di trecento feriti negli attentati di Mumbai (per capirci è l’uomo più odiato d’India).
Il gioco delle tre carte con la nave greca
Intanto al posto dell’olandese volante ha fatto la sua comparsa un mercantile greco fantasma: è il tertium datur che potrebbe guadagnarsi la responsabilità dell’assassinio dei pescatori. Le cose non cambierebbero molto: stessa faccia, stessa razza, direbbero i miei cosmopoliti amici in malayalam (non è una parolaccia, è la lingua del Kerala) Per ora questa nave veleggia solo sulla blogsfera italiana e non dà notizie di sé nel mondo anglofono. Però chissà che non guadagni anche questa sponda: i greci come capri espiatori in questo periodo funzionano bene. Magari consegnarsi alle autorità indiane al posto degli italiani potrebbe essere l’ennesimo sacrificio chiesto in cambio dello sblocco del super prestito europeo. Comunque la vogliamo mettere, le cose sono le stesse. Uccisi da europei e da militari, cioè da colonialisti europei. Se non si tiene a mente questo elemento, non si capisce nulla di quel che sta succedendo a Kochi in questi giorni (come fanno i sapientoni di geopolitica internazionale che parlano di elezioni in Kerala e di beghe tra Congress, Bharatiya Janata Party e Sonia Gandhi: a proposito, detto per inciso, al potere in Kerala c’è un partito comunista che stravince da anni e anni ogni elezione garantendo la proprietà della terra ai contadini e la possibilità di far educare i loro figli anche nelle scuole cattoliche. Magari domani i nostri giornali possono farci una bella paginata sopra, l’idea ve la regalo). Questo elemento è significativo per gli indiani. Per gli italiani dovrebbe contare qualcosa, oltre la solidarietà verso le vittime, anche il fatto che questi soldati sono inviati a proteggere interessi privati e sono pagati con i soldi pubblici da uno stato che a quanto si dice non ha un euro per sanità, pensioni e welfare sociale. Non è una cosa da poco, visto che all’ordine del giorno al senato oggi c’era proprio il rifinanziamento delle missioni militari all’estero, che destra e sinistra concordemente plaudono (provvedimento approvato con 223 sì, 35 no e 2 astenuti). E non venite a dire che lo fanno per garantirci il petrolio, con quel che costa. Quanto alle loro paghe, facciamo una bella operazione trasparenza con gli insegnanti degli asili, gli operai e i precari dei call-centre: ne vedremo delle belle. Sui giornali circolano cifre che vanno dalla misera cifra di 2000 euro al mese ai 500 al giorno. I pescatori del Kerala guadagnano pressappoco un euro al giorno.
Di pirati e castelli di carta
Si continua a parlare di pirati, almeno in Italia. Ora, le navi dei pescatori in Kerala sono migliaia e intrecciano continuamente nelle acque costiere, dentro e fuori il limite del tirassegno consentito. Talvolta si avvicinano ai grandi mercantili per allontanarli dalle loro reti, che potrebbero recidere (è quello che probabilmente stava facendo la Saint Antony). Le coste del Kerala sono poi controllatissime dalle autorità marittime indiane. Non si sono mai registrati casi di pirateria per quel che ne so io, e per quel che ho letto (non sono un esperto ma ne so più di un giornalista italiano, avendo vissuto e lavorato da quelle parti per svariati mesi). Due casi di pirateria in un solo giorno è uno scoop che solo i nostri media possono vantare. Ma sì, prendiamola così: mettiamola nella più benevola (per la creduloneria italiana) ipotesi che la nave tricolorata abbia mitragliato una nave di pescatori (forse senza colpirli) e che l’ipotetica e fantasmagorica nave greca abbia mitragliato un’altra (o la stessa) nave di pescatori, per giunta colpendola. Siamo ai limiti dell’assurdo, di peggio si potrebbe solo arrivare a pensare che non fossero pescatori ma pirati. Ma bisogna per l’appunto sostenere che fossero pirati: altrimenti come giustificare il fatto che gente armata e pagata da noi fosse lì? Bisognava infatti tutelare le merci dai pirati. Ma proviamo a crederci. Siamo quasi nella migliore tradizione della scienza investigativa italiana, siamo prossimi alla teoria del malore attivo di Pinelli. Siamo al ridicolo o alla cattiva coscienza. Ma non importa. Prendiamola per buona, diamo la colpa ancora una volta ai greci e sventoliamo il tricolore. Ci credete? Vi sentite a posto con la vostra coscienza? E con la vostra intelligenza? Se sì, abbandonate la lettura di questo articolo. Tutto risolto?
No, invece. Perché gli indiani non ci credono e hanno il dovere di non crederci e di portare avanti le loro indagini. Fossi in loro non ci crederei neanch’io. E infatti non ci credo ma sarei felice di sapere che in mio nome (malgrado tutto, c’è chi potrebbe pensare all’estero che come italiano io condivida le scelte dei governi del paese in cui sono nato) non siano stati ammazzati due pescatori del Kerala di origini Tamil. Io me lo auguro che i due soldati italiani non abbiano ucciso i due pescatori. Mi risulta difficile crederci, ma quasi lo vorrei. Not in my name. Ma sono scettico, perché di solito in questo mondo chi uccide porta una qualche divisa e chi muore è disarmato. Ma se anche le cose stessero in maniera diversa da come sostengono gli indiani, l’unico modo per sapere come le cose sono andate davvero è lasciare che siano gli indiani a condurre le indagini. Non che anche la loro giustizia non conosca abusi. Ce ne hanno eccome. Non che anche i loro poliziotti non uccidano a casaccio. Non che sia una bella situazione finire nei guai con le autorità locali anche da quelle parti. Vi assicuro che non scherzano e che è facile, come ovunque, come anche da noi, ritrovarsi in una montatura. Ma in questi frangenti loro hanno più possibilità per andare in fondo alle cose. Perché da noi la verità, come in tanti altri casi in passato, come nel caso del Chermis, o come nel caso delle tanti morti all’interno di caserme e prigioni (Cucchi e Bianzino, per citarne solo un paio), non emergerebbe mai.
Riassumiamo la questione. Dimentichiamoci le lenzuolate dei giornali, le sparate nazionaliste del fascista al microfono di turno, quelle dei suoi omologhi indiani del BJP, le menate contro Sonia Gandhi… sono tutte figure di un balletto delle parti ridicolo che non mi interessa. Lo ripeterò fino alla noia: quel che conta è che due lavoratori disarmati che guadagnavano una miseria facendo un lavoro bellissimo e dignitoso sono stati uccisi in nome di interessi di classe (che non sono i nostri) da gente venuta da lontano, pagata con i soldi tolti alle scuole e agli ospedali. Che sia Italia (probabile) o Grecia (tant’è), lo vedremo. In ogni caso questo è ingiusto, è ignobile.
Ma il peso più grave è ancora sulle spalle degli indiani, e non sui politici o sui parlamentari ma sui poveri pescatori che devono guadagnarsi il pane sfidando il neocolonialismo e la violenza degli stranieri: ancora una volta gli europei si presentano in India con le vesti del generale Dreyer e dei suoi cecchini. La risposta degli indiani non può passare dai soliti slogan del BJP o dello Shiv Sena ma deve recuperare tutta la radicalità dei freedom fighter industani: Down with imperialism. Inquilab Zindabad.
PS: Il presidente del consiglio Monti parlando davanti a una platea di ufficiali ha pronunciato il termine Kerala sbagliando l’accento, come se fosse una parola piana e non sdrucciola. Probabilmente il professore sull’India non è granché preparato, ma una cosa buffa, che la dice lunga sull’indipendenza critica dei nostri mezzi di informazione, è il fatto che immediatamente alcuni telegiornali italiani, a cominciare da La7, hanno “copiato l’errore”, spostando l’accento sulla penultima sillaba.
PPS: “Pirati a Kerala” è una fiction televisiva spacciata dai telegiornali che ha poco a che vedere con la grammatica italiana e con la realtà. L’India è una confederazione di stati e la grammatica prevede la preposizione semplice “in” (e relative articolate) con i nomi di stato e “a” con i nomi di città: “a Cochi, nel Kerala”, per esempio va bene, oppure “Pirati nel Kerala”. Quest’ultima espressione è solo molto irrealistica, però grammaticalmente corretta.