di Girolamo De Michele
[Una versione ridotta di questo testo è uscita su “L’Indice dei libri del mese” di novembre, p. 5 col titolo Almeno i nostri morti non sembrano sporchi. Le immagini che corredano il testo sono del regista Paul Haggis e degli attori Adrien Brody e Vinicio Marchioni, che hanno solidarizzato con la campagna “RespiriAMO Taranto” durante le riprese del film Third Person]
Tre anni fa, riflettendo sul gran numero di narratori che Taranto, oggi al centro dell’attenzione per la vicenda dell’Ilva, produceva, Mario Desiati notava come la narrazione si fosse incaricata di riempire quello spazio bianco dell’immaginario creato dall’emergenza ambientale: «Nell’emergenza spesso si crea un vuoto, un vuoto che a volte è anche un vuoto di immaginario» [1]. E che i narratori del terzo millennio hanno infranto l’egemonia della «Taranto classica borghese, quella che apparteneva a una sorta di sinistra illuminata, che si raccontava in relazione alla città», per dirla con Alessandro Leogrande, anche lui uscito dal liceo Classico, «una sorta di Eton nostrana»: «Era la Taranto di Sandro Viola, di Giancarlo De Cataldo, passando dal giudice Spataro sino allo stesso Leogrande».
«Era, quello, un ceto intellettuale che si era formato quasi sempre sui banchi del liceo classico “Archita”»: un liceo, aggiungiamo noi, che ha sì prodotto uomini illustri, ma senza dare a Taranto una classe dirigente degna di questo nome. La novità, sottolineava Desiati, è l’emergere di una narrazione delle periferie, della provincia, che tematizza il rapporto della città con la fabbrica. E che, soprattutto, mette al centro l’asprezza dei contesti reali piuttosto che quelli immaginari (che erano quelli di una memoria sempre accomodante e un po’ dolciastra): «Taranto, scrive Rossano Astremo in un’altra rassegna di narrazioni joniche, è la città dei due mari, dei tre ponti e dei mille problemi. È la città della Marina Militare, la città di un dissesto finanziario senza precedenti, frutto della gestione criminale della cosa pubblica da parte di politici sconsiderati, ma soprattutto è la città dell’Ilva, lo stabilimento siderurgico più grande d’Europa» [2]. Attraverso queste narrazioni Taranto ha qualcosa da dire all’Italia letteraria, così come l’insorgenza contro il “Vulcano”, cioè la grande fabbrica, in nome di una vita degna di essere vissuta — che richiama alla mente quei «pericolosi, inquieti pirati […] ben nascosti, ma pronti all’arrembaggio» che descriveva, o forse sperava, il “giovane” De Cataldo [3] — può dire qualcosa sul futuro dell’Italia, in una saldatura tra protesta sociale, azione politica partecipata dal basso e urgenza della scrittura che non sembra arrestarsi.
Rottura con il carattere memorialistico, con l’amarcord (in tarantino: m’a recuèrde) borghese: rottura con la figura dell'”intellettuale cataldiano” e con lo stereotipo delle “due citta”, attraverso una narrazione che non si limita a fotografare l’esistente, ma ne fa oggetto d’inchiesta [4], fino a confondersi con l’inchiesta giornalistica stessa. «La condizione di perifericità porta spesso a guardarsi — e giudicarsi — con gli occhi dell’altro, dell'”uomo del centro”. Questa è una tentazione cui cedono soprattutto le élite intellettuali del Sud: provano istintiva ripugnanza per il contesto nel quale si trovano perché non vi si riconoscono, o meglio: non lo valutano conforme al modello che hanno in testa, che è lo stesso che promana dal centro. Ciò che dovrebbe essere “chiaro” si presenta quasi sempre come “opaco”», scrivevano i redattori di “Siderlandia. Cronache dalla città dell’acciaio “, rivista on line che per un anno ha indagato la realtà tarantina, e da cui viene Francesco Ferri, autore dei migliori reportage sulla protesta anti-Ilva [5].
L’ideologia “cataldiana” (dal nom de plume Cataldo Selaride, che compariva sulla testata locale “La voce del popolo” all’inizio del 900) è la mentalità che pervade l’intellettuale tarantino «disorganico, non funzionale né ad una strategia del consenso né alla proposizione operaia del dissenso, sprovvisto di una qualunque analisi delle classi e delle forze in campo», secondo la ficcante definizione che ne diede Roberto Nistri, all’epoca insegnante e raffinato critico delle lettere locali, oggi autore di vaste ricerche storiche [6]: la dimensione industriale viene rimossa, e in suo luogo viene creato il mito di una “tarentinità” che sublima alcuni tratti antropologici e caratteriali — due fra tutte: lo scetticismo e l’insularità, la chiusura verso l’altro eternizzate come costanti caratteriali, invece di essere indagate nella loro genesi dai processi economico-sociali. L’anima della tarentinità, scrive per contro Cosimo Argentina, «nasce col marchio di fabbrica, anche se per cesellare lo stampo ci sono voluti fonditori bastardi che a loro volta hanno creato una dinastia meticcia» [7]: se non si capisce questo si finisce per dipingere una sorta di “buon selvaggio”, una «mappa sentimentale, una Taranto del cuore». In una battuta, «l’oppio degli intellettuali tarantini, residenti o fuggiaschi» [8]. E le “due Taranto”, fascinosa chiave di lettura che ha tra i suoi padri nobili Alberto Savinio che, ospite nella città, ha fornito due metafore all’altezza della sua penna: «Taranto mi rivela la sua fisionomia: è una faccia rasata per metà — Taranto nuova è la gota rasata e Taranto vecchia è quella non rasata». Ma soprattutto, il contrasto tra il girevole ponte di ferro, «meraviglia delle meraviglie» agli occhi del giovane scrittore vicino ai futuristi, e lo schifo dell’infernale traghetto che collega, quando il ponte è aperto, la città nuova alla vecchia: tra l’ingegneria moderna e «una specie di Caronte pugliese» [9]. Città vecchia-città nuova, natura-cultura: sono chiavi di lettura desuete, e tuttavia consuete. E quindi la Taranto che fu, e la Taranto moderna, industriale, operaia: un paradigma che si prolunga fino all’opera di esordio di Leogrande Un mare nascosto, nei cui limiti dimora l’odierna incomprensione di una protesta che l’intellettuale liceale non ritrova nel proprio album di famiglia e fraintende come «teppa forcaiola» [10]. «Se l’intellettuale non capisce quasi sempre demonizza», si scriveva in “Siderlandia”. Fatto è che il paradigma della dualità — che giustificherebbe l’emergere di personalità in grado di operare una reductio ad unum, come l’ex sindaco-malavitoso Cito — non morde il reale, se le conflittualità concrete non sono indagare nella loro materialità, all’interno di un contesto nel quale non c’è più “natura”, essendo il paesaggio jonico devastato dall’edificazione selvaggia verso la quale anche la classe operaia ha le proprie responsabilità [11], come anche la città vecchia riplasmata e devastata dai processi di industrializzazione: come metteva in luce, arrivando sino alla deriva della malavita dalla fase “romantica” sino a quella stragista, De Cataldo nei bozzetti di Terroni, opera con la quale, con qualche legittimo senso di colpa — «e tu, perché te ne sei andato? Già, perché ce ne andiamo sempre tutti via, appena possibile, dal nostro Sud? Avremmo potuto, noi ragazzi del post-sessantotto, ereditare una tradizione d’impegno civile che non era mai esistita? È colpa del nostro abbandono se la città va alla deriva?» — prendeva congedo da Taranto alla vigilia della lunga elaborazione di Romanzo criminale (e si vedano, alla luce di questo, le pagine sul boss Antonio Modeo) [12].
E come ha fatto, in una importante trilogia (Cuore di cuoio, Maschio adulto solitario, e soprattutto Vicolo dell’acciaio) Cosimo Argentina, con i suoi pastiches linguistici e la sua schiettezza senza concessioni che danno dignità letteraria a quel linguaggio della chimica che prelude all’avvento del “brutto male” («Abbiamo in corpo, a famiglia, più benzene, polveri cancerogene, diossina, policarburi aromatici e gas saturi di non so nemmeno io che cosa»), entrando nel vivo della carne di una città che sembra dominata dall’ombra lunga di un tragico destino e di una morte annunciata che, come nel romanzo di García Márquez, è invece costruita giorno per giorno. Non è casuale che proprio contro Argentina, e con lui contro «artisti, cineasti e romanzieri — che sinora hanno indugiato in visioni approssimative, parziali e del tutto riduttive dell’industria siderurgica, della comunità umana che in essa vive e lavora ogni giorno e della città che la ospita» abbia tuonato Federico Pirro, membro del Comitato scientifico del centro Studi Ilva e ideologo della ineluttabile necessità del matrimonio tra la città e l’acciaio [13].
Risuona in Cosimo Argentina uno scetticismo che non è esonero, ma presa di distanza per meglio entrare nel contesto: come fece a suo tempo Franco Zoppo, in Belmonte, gioiello narrativo che è rimasto schiacciato tra le ristrettezze dell’editoria locale e le illusioni di quella a pagamento, nel quale si finge un Ottocento linguistico e romanzesco per parlare dell’oggi, denunciando l’archeologia delle «militari sorti e siderurgiche» prima ancora che «una selva di alti camini, o vuolsi ciminiere» [14] vomitasse polvere e morte sulla città.
Narrazioni di una città in cui vivere non è certo facile, e morire non è di certo nuovo: per comprenderle basta allungare di quindici passi lo sguardo dalla fabbrica al cimitero, che «ha lo stesso colore delle case, che hanno lo stesso colore dell’acciaieria, che ha lo stesso colore delle polveri rosse di minerale di ferro e di quelle nere di carboncoke. Le polveri insozzano tutto. Cappelle, tombe, statue, puttini,lapidi, croci, fiori, cipressi, viali, lumini» [15].
«A chi mi chiede dell’Ilva, scrive Desiati, dico di andare a San Brunone, il camposanto lì, a due passi; i tarantini hanno iniziato a dipingere di rosa quei sepolcri, lo stesso colore della polvere che cade» [16]. Lasciamo la parola a Tina, la donna che ogni giorno spazza tre volte il balcone dalla polvere del Vulcano («non pensare che sia una cosa così, guarda che è una schiavitù, una cosa brutta assai non riuscire a tenere la casa pulita»): «Ora le cappelle le pittano già di rosa, perché tanto diventano di quel colore dopo qualche giorno e a questo punto meglio farlo subito, si risparmia tempo e una brutta figura: almeno i nostri morti, almeno loro, non sembrano sporchi» [17]. «Quando inizi a dare il rosa all’urna in cui riposa chi hai amato, conclude ancora Desiati, vuol dire che preferisci nascondere quello che dentro si è rotto perché altrimenti faresti parlare l’animo di chi è nato e cresciuto qui».
Nei tardi anni Settanta, in cui si usava gridare roboanti slogan contro le carceri, in una manifestazione nazionale partì da uno spezzone di giovani e irridenti tarantini lo slogan «da sant’Antonio a san Brunone / un solo grido: evasione!». Com’era abitudine, lo slogan fu rilanciato dagli altri gruppi, ignari dell’ironia del messaggio: perché se era forse noto che a sant’Antonio era intitolato il carcere di Taranto, nessuno poteva immaginare che san Brunone fosse il nome del cimitero. Trent’anni dopo, il ricordo di quel momento di allegria non fa più sorridere, perché la storia di Taranto sembra avere inverato la tetra profezia di Walter Benjamin: neanche i morti saranno al sicuro, se questo nemico vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.
Note
[1] Mario Desiati, Le ferite di Taranto viste dai suoi scrittori, “Repubblica — Bari”, 24.02.2009.
[2] Rossano Astremo, Le mani degli scrittori sulla Taranto ferita, “Pubblico giornale”, 17 agosto 2012.
[3] Giancarlo De Cataldo, Terroni (1995), Sartorio, Pavia 2006, p. 129.
[4] Carlo Vulpio, La città delle nuvole, edizioni Ambiente Verdenero, Milano 2009; Giuliano Foschini, Quindici passi, Fandango, Gorizia 2009; Ornella Bellucci, Il mare che non c’è, in Il corpo e il sangue d’Italia, a cura di C. Raimo, Minimum Fax, Roma 2007; Taranto sotto le ciminiere, inchiesta radiofonica, www.radioarticolo1.it.
[5] Francesco Ferri, Taranto, reddito vs lavoro: finalmente il cielo ci è caduto sulla testa; Il paradosso del treruote; La lunga marcia del treruote, in www.uninomade.org.
[6] Roberto Nistri, Scritture joniche di fine secolo, Scorpione Editrice, Taranto 2005, p. 8.
[7] Cosimo Argentina, Nud’e cruda. Taranto mon amour, Effigie edizioni, Milano 2006, p. 40.
[8] Roberto Nistri, Scritture joniche di fine secolo, cit., p. 9.
[9] Alberto Savinio, La partenza dell’Argonauta (1918), in Hermaphrodito, pp. 141-195, Einaudi, Torino 1981.
[10] Alessandro Leogrande, Un mare nascosto, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 1999 (su cui vedi Roberto Nistri, “Jonici graffiti”, in Scritture joniche di fine secolo, cit., pp. 119-125); Una scena umiliante per la spappolata Taranto, “Corriere del mezzogiorno”, 03.08.2012.
[11] Non ha timori a dirlo Sergio Natale Maglio, Taranto new wave, manoscritto inedito.
[12] «Avremmo potuto, noi ragazzi del post-sessantotto, ereditare una tradizione d’impegno civile che non era mai esistita? È colpa del nostro abbandono se la città va alla deriva?»: Giancarlo De Cataldo, Terroni (1995), Sartorio, Pavia 2006, p. 127. Il racconto del Romanzo criminale tarentino è alle pp. 42-60.
[13] Federico Pirro, Ilva moribonda? Quanti stereotipi, “Quotidiano di Puglia”, 09.11.2010.
[14] Franco Zoppo, Belmonte. La notte chiara dei sensi, Congedo Editore, Galatina (LE), 1991, p. 245.
[15] Carlo Vulpio, La città delle nuvole, cit., p. 111.
[16] Mario Desiati, Quelle tombe tinte di rosa, “Repubblica — Bari”, 02.08.2012.
[17] Giuliano Foschini, Quindici passi, cit., p. 64.