di Alberto Prunetti
[Approfitto di questa recensione per segnalare la presentazione del libro qui recensito nel corso della manifestazione La Terra trema. Ecco il programma] A.P.
Corrado Dottori, Non è il vino dell’enologo. Lessico di un vignaiolo che dissente, Roma, Deriveapprodi, 2012, pp. 132,
132 pagine che toccano una miriade di problematiche per vignaioli e bevitori appassionati di vino. In questa recensione cercherò di evocare alcune delle problematiche poste da questo piccolo e fondamentale libro, arricchito da una fiammante introduzione di Jonathan Nossiter, che ricordiamo come il regista di Mondovino.
Cominciamo dal gusto: c’è stato un cambio nel senso del gusto a partire dagli anni novanta. La necessità di voltare pagina dopo la tremenda vicenda del vino al metanolo ha sicuramente prodotto dei miglioramenti qualitativi nel vino italiano. Ma forse si è esagerato. Il vino ormai è costruito dagli enologi. Il risultato è un vino sempre più globalizzato, aromatizzato, “barriccato”, lignificato, accattivante, morbido, senza asperità, aromatico, fruttato, addirittura vanigliato.
Oppure molto tanninico e colorato. Magari buono, al gusto imperante, ma omologato. addomesticato. Colmo di adiuvanti e addittivi. Parafrasato in descrizioni linguistiche piene di aggettivi (come quella paradossale che ho appena fatto io). Un vino che magari passa attraverso scorciatoie furbette, quali l’uso di chips di legno (per simulare l’affinamento in barrique) e di mosto concentrato (per aumentare colore e densità alcolica). Una bevanda per nulla dionisiaca. Un vino uguale a tanti altri, appetibile ma senza un carattere distintivo, senza particolarità, levigato e smussato. Altro che “sentire il terroir”, altro che “cru”, termini che la stampa specializzata mesce in quantità parlando a s/proposito di vini sempre più identici gli uni agli altri (terribile destino che unisce cibo e vino: tanti più aggettivi e parole, tanto meno sapore).
Dai fiaschi siamo arrivati alle bordolesi, dalle botti grandi al legno piccolo, dai lieviti indigeni, presenti naturalmente nelle bucce degli acini, ai lieviti selezionati, che garantiscono una fermentazione perfetta ma nella loro neutralità inibiscono la gamma degli aromi secondari. E poi l’espandersi dei vitigni internazionali, lo scomparire dei vitigni autoctoni. E la morte delle vecchie vigne dei piccoli produttori, spianate con l’aiuto dei finanziamenti europei per garantire nuove quote ai grandi produttori che impiantano nuove vigne dopo aver sbancato con le ruspe e aver messo a piombo i colli con un teodolite. Vigne che non devono durare troppo, che dopo vent’anni vengono sradicate per essere rimpiantate altrove, vigne che si potano senza troppe preoccupazioni, perché tanto dopo pochi lustri devono scomparire.
Gli anni novanta, il boom dei nuovi vigneti “tirati col goniometro”, i doc che nascono come funghi a proteggere un marchio commerciale più che l’origine di un territorio. Il vino che diventa un fatto di moda, meglio se bevuto in un winebar assieme a gente che non ha mai visto una vendemmia. I vitigni internazionali che spuntano ovunque (merlot, sauvignon e chardonnay). Una grande “bolla del vino”, un oggetto di mercato creato ad arte dall’intersezione tra enologi alla moda, giornalisti, guide, esperti di pubbliche relazioni e nuove aziende che competono sul marchio con vini tutti assolutamente simili.
Vini che pretendono di non avere difetti, al contrario di quelli del contadino, che erano ipso facto più buoni, come sosteneva Luigi Veronelli. Ma il vino del contadino è stato bersagliato negli ultimi venti anni dalle frecce acuminate di una critica sistematica, demolito nella sua immagine come cattivo e pericoloso dagli esperti di marketing e comunicazione delle grandi aziende vinicole. Eppure è dalle imperfezioni di certi vini dei contadini e soprattutto dei piccoli vignaioli “dissidenti” dal produttivismo, di chi “restaura” vecchi vigneti abbandonati, da cui si ricava poca uva ma di splendida quantità, forte, resistente alla siccità degli ultimi anni per la profondità del radicamento, concimata dalla pratica secolare dell’inerbamento e del sovescio, che ci si deve aspettare grandi cose nel futuro del vino vero, naturale, genuino e non globalizzato nel gusto.
Vitigni antichi, ponti tra generazioni. Esperimenti. Propagare viti senza piede franco, come si faceva un tempo, sfidando la filossera. Pur con tante imperfezioni, da limare di anno in anno. Un vino irrepetibile, sempre diverso in funzione del clima, magari no doc, in cui quel che conta è la combinazione di terra, vite, annata e vignaiolo.
E qui alcune linee guida su cui muoversi (e qui pongo interrogativi miei, in cui comunque nel libro di Dottori si trovano delle risposte). In vigna: eliminare le concimazioni chimiche e praticare la concimazione organica e il sovescio. Ridurre e attenuare le medicazioni a base di rame e zolfo. Verificare anche i prodotti ammessi dalla conduzione biologica: guardare le schede, molti sono pieni di fissatori chimici che possono risultare cancerogeni. Evitare i prodotti sistemici. Si può praticare la vecchia medicazione con rame e zolfo minerale (con la calce associata al rame)? Si può ridurre lo zolfo per non aggredire i lieviti indigeni? Le domande sono tante. E in cantina? Un punto fondamentale per la salute dei bevitori è la riduzione della solforosa. Soprattutto in macerazione, direi, quando si rischia di inibire la fermentazione naturale, che non è sempre forte come quella dei lieviti selezionati (e dei loro nutrienti dall’odore d’ammoniaca).
Un vino naturale che nasce in vigna, che è anche alimento. Una vendemmia che si fa guardando la vespa scendere sull’uva e poi perché no, aiutandosi anche con un mostimetro. Allungando in cantina le fermentazioni, rallentandole, godendo della tumultuosa e dionisiaca vitalità dei mosti. Inebriandosi dell’anidride carbonica che si libera dalla trasformazione degli zuccheri in gradi alcolici, annotando su vecchi calendari ingialliti la discesa dei babo a ogni rimontaggio. Discettando per giorni con i compagni di bicchiere sull’opportunità o meno di rompere il cappello delle bucce.
Senza fondamentalismi. I lieviti selezionati sono il male minore, in fondo, e Dottori lo dichiara senza dogmi alternativi. Ben più grave è l’uso della solforosa, adottata in dosi massicce a ogni passaggio di cantina da chi usa i conservanti per fare vini capaci artificialmente di sostenere anni di affinamento o peggio ancora per uccidere la carica batterica di uve ammalate. Anche Dottori dichiara senza indugi di apprezzare “vini convenzionali”, non biologici né biodinamici. Se sono buoni bisogna ammetterlo. Anzi: il rischio è che adesso sia il biologico la nuova moda per le enoteche di nicchia (e lo dimostra il fatto che grandi nomi del vino italiano globalizzato stanno vocando qualche ettaro dei loro vigneti al biodinamico, al solo fine di intercettare un compratore modello e occupare una nuova nicchia di mercato). Lo sostiene anche Dottori con parole cariche di solare modestia: “non mi considero un estremista del vino biologico. Mio obbiettivo è fare vini buoni, spontanei, bevibili usando le tecniche più naturali possibili”.
Un piccolo grande libro, in cui l’autore riesce anche a raccontare la propria storia, che tiene come un romanzo anche se si maschera nella forma enciclopedia del lessico e che si legge come si beve un vino vero: a gargana.
PS: Colgo l’occasione per segnalare uno studio di Massimiliano Coviello sui rapporti tra cinema e vino: Il cinema italiano racconta il vino (Enoteca Italiana, Siena, 2012, pp. 95).