di Alberto Prunetti
Andrés Caicedo, Viva la musica! , Roma, Sur, 2012, trad. di Raul Schenardi, pp. 229, 15 euro
Viva la musica è un romanzo che straripa d’energia alla maniera delle migliori opere del beat nordamericano. Un flusso di musica e di adrenalina, una vampata nichilista che brucia la vita per l’ansia di viverla fino in fondo. A ritmo di rock americano e poi di salsa colombiana, con un passaggio che forse è in certo modo anche ideologico: dalla musica colonizzante degli yanquies alla riscoperta afro-caraibica di un suono indigeno. Protagonista è una giovane donna, María del Carmen, avida di feste e di musica ad alto volume, un personaggio estremo, a tratti anche antipatico e stereotipo, e tuttavia perfetto a suo modo, come emblema di una parabola esistenziale che porta all’annientamento, annientamento condiviso appunto dall’autore del romanzo, suicida a ventisei anni dopo aver ricevuto le copie della sua opera d’esordio. C’è il viaggio in Viva la musica, la notte, gli eccessi, gli errori, gli amici, la violenza, l’egoismo adolescenziale, l’amore per il cinema e per le droghe, la miopia, l’incapacità di guardare oltre se stessi, soprattutto nel personaggio egotico della donna dagli splendidi capelli biondi che brucia in queste pagine.
Sur pubblica un grande romanzo americano (del sud) di un autore poco conosciuto che merita attenzione. Un autore a cui provo con l’immaginazione a cucire addosso i panni di un suo personaggio molto riuscito, Ricardito l’infelice, contraltare della luminosa bellezza della bionda protagonista, così bionda e luminosa da aver forse accecato anche il suo stesso creatore.
Alan Pauls, Storia dei capelli, Roma, Sur, 2012, trad. di Maria Nicola, pp. 183, 15 euro
Storia dei capelli mi ha lasciato a tratti perplesso. La scrittura di Alan Pauls è formalmente stupenda. Apre periodi che si avvitano come scale di Escher e che si percorrono nella lettura senza perdita di senso per righe e righe di avvitamenti sintattici. Eppure, per chi è legato a tematiche sociali, le circonlocuzioni virtuose sul tema dei capelli lasciano un po’ sorpresi. Ma dopo lo scooncerto iniziale ho deciso di lasciarmi allettare dal sapiente meccanismo della lingua di Pauls e in effetti devo ricredermi: il suo non è un minimalismo formale, ma dal tema dei capelli risale in maniera obliqua a tematiche rilevanti della vita sociale della capitale argentina dagli anni settanta fino ai nostri giorni. Anche con troppo cinismo, a tratti, come quando affronta il tema dei familiari dei desaparecidos e delle loro tristi riunioni. (Nota: ad Alan Pauls devo gratitudine per aver definito meglio di chiunque altro il mestiere del traduttore, ovvero quello d’essere un “contrabbandiere di cultura”).
Antonello Ricci, Fuori da dove. Il ritorno, Arcidosso, Effigi, pp. 53, 8 euro
“Fuori da dove” di Antonello Ricci è una breve composizione poetico narrativa (l’autore la definisce a ragione “racconto metricato”, e il metro è quello della tradizione contadina) sul tema della reclusione della follia. A partire da un fatto storico: l’ospedale di San Niccolò a Porta Romana a Siena, che un tempo era un manicomio, rinchiudeva i devianti che arrivavano non solo dalla provincia di Siena ma anche dal viterbese. Devianti, perché la malattia mentale del protagonista del racconto di Ricci è quella di un agitato che non sopporta le forme e le busse dell’ordine fascista insediatosi a Viterbo. Un racconto ─ che si distende sulla Cassia, quella strada curvilinea che da sempre collega Siena e la città dei papi ─ arricchito dagli acquerelli di Gino Civitelli.
Luciana Bellini, Il mestiere finito, Pitigliano, Laurum, pp. 83, 10 euro
Luciana Bellini è molto nota nel circuito ristretto della provincia di Grosseto e viene spesso definita “la scrittrice-contadina”. Luciana ha lavorato per una vita con le pecore e gli ulivi, e quando finalmente è andata in pensione ha cominciato a prendersi un po’ di tempo e si è messa a scrivere, prima con i quaderni e poi anche con un computer. Ha raccontato la storia del podere di suo marito Elvo nei travagli della riforma agraria ─ La capitana e C’era una volta in Maremma, usciti entrambi per Stampa Alternativa ─ quando i figli dei braccianti come lei hanno recuperato i poderi dai latifondisti e si sono spezzati la schiena a renderli produttivi (quegli stessi poderi che dagli anni novanta sono stati acquistati da grandi nomi dell’enologia italiana per togliere le pecore e impiantare vigne molto più remunerative). Ha raccontato le storie delle donne contadine (La terra delle donne) e ha raccolto proverbi e forme dell’oralità vernacolare maremmana tra una trebbiatura e una vendemmia (Detti e ridetti). L’oralità per Luciana è così forte che chi ha la fortuna di sentirla presentare i suoi libri si ritrova dentro alle storie come capita durante la lettura, perché Luciana è una narratrice meravigliosa e ha questo entusiasmo per la parola, per il racconto condiviso con qualche seggiola messa in circolo che incanta chi se la ritrova davanti e la ascolta parlare a braccio. Luciana l’ho incrociata dopo tanti anni in un paesino delle Colline Metallifere dove presentava il suo ultimo libro, “Il mestiere finito”. Racconta a voce dei prossimi progetti di scrittura, di quando “arrivò la plastica” per la prima volta, di quando le donne in Maremma potevano andare in centro al paese solo portandosi una giara (col pretesto di prendere l’acqua, giammai passassero per perditempo). Racconta dei primi tempi che si era messa a scrivere nel podere e lo faceva quasi di nascosto, perché scrivere era una cosa strana che facevano i dottori e i professori. Racconta di quando uscì il suo primo libro e dopo non trovava il coraggio di farsi vedere in paese e faceva il giro lungo per non passare dalla piazza, perché si sentiva strana a raccontare le storie del posto. Di quando una sua parente inviò a sua insaputa un suo racconto a un concorso letterario e un giorno la raggiunse nella stalla spiegandole tutto e dicendole che era arrivata quinta, e lei — “ancora con le mani insugnate di pecora”, perché era a mungere gli ovini — le chiese. “O che s’era in cinque?”. E la critica della sua vecchia madre, che la rimbrottò perché in un racconto aveva fatto morire un ometto che ancora non era morto. Quasi a dire: che inganno è la scrittura?