di Luca Baiada (da Il Ponte, LXVIII n. 11, novembre 2012)
[Si ringrazia la rivista Il Ponte per la gentile concessione.]
Ci sono spunti da chiarire, in certe posizioni del filosofo Apostolos Apostolou. Già, sembra il nome di un pensatore tardo antico, invece scrive dalla Grecia nello stesso periodo dell’orrenda decisione a Stoccarda sull’eccidio di Sant’Anna di Stazzema.
Due sono i nodi del discorso: i rapporti fra antico rigore morale kantiano e nuova egemonia della Germania, e i tratti religiosi e dogmatici dell’economia, nel pieno della crisi.
Ora, che l’economia non possegga l’obiettività che i suoi professionisti vogliono vederci, questo s’è capito. Non mi convincono, però, neppure le tesi estreme alla Serge Latouche. Abbiamo abbastanza guai per renderci conto dell’invenzione dell’economia, non aspettiamone altri per riconoscere anche l’invenzione nella decrescita e nell’altraeconomia. Non esistono modelli preesistenti al pensiero umano, eppure anche le tesi più trasgressive passano facilmente per nuove divinità.
Metto da parte l’ipotesi che davvero i successi tedeschi crescano nell’ombra lunga del geniale scapolo di Königsberg. Lasciando Kant ai suoi scritti vertiginosi e alle sue passeggiate a ore fisse, darei una parte anche a Lutero e ad altre persone e cose. Quanto all’idea weberiana del rapporto fra etica protestante e capitalismo, mi affascina ma non mi persuade. Mi chiedo, adesso che la Cina fa la voce grossa, se Confucio farebbe differenza tra Max Weber e il gesuita Matteo Ricci, o li vedrebbe entrambi con l’occhio distante di chi non distingue una formica dall’altra. Qui però mi interessano altri aspetti.
Il mito dell’Occidente è stato costruito anche sul recupero della Grecia, quella antica. Non è stato solo saccheggio di pietre, dai fregi del Partenone portati a Londra, all’altare di Pergamo finito a Berlino. Le superpotenze si sono legittimate col mito dell’Ellade, disinvoltamente proposto insieme al Cristianesimo. Il Kulturkampf bismarckiano ruota anche attorno a un’appropriazione del mito della civiltà, e la polemica Bibel-Babel ripercorrerà lo stesso sentiero: l’uso politico delle rovine.
Va detto che più ancora della Grecia è stata l’Italia, nell’Ottocento, un faro mitologico dei nazionalismi europei, e persino del primo sionismo. A essere un museo vivente, c’è da temere i ladri. Ma ora noi italiani siamo meno desiderabili di quando le dame vittoriane smaniavano per una ciocca di capelli di Garibaldi.
Il paese cui l’Europa moderna ha guardato come esempio antico, la culla della democrazia mitica, la Grecia, langue in condizioni sociali che stringono il cuore, e implora comprensione dai suoi creditori. Ci hanno nutriti con l’Ellade e la Bibbia, ma se si fosse imparato prima, a demistificare, adesso sarebbe più facile difendersi. «Socrate e Cristo, santi e giusti, che schifo!», vaticina Rimbaud, ma è poco frequentato, specialmente in politica.
La Grecia al collasso sembra turbare solo poche anime sensibili. Coincidenza? Forse, o forse altro. Complotto? No, piuttosto il ghiotto boccone conserva ancora un sapore attraente. Chi sorregge l’antico maestro troppo debole per camminare, dimostra di esserne il più gagliardo discepolo. Altra cosa, è che il maestro negli ultimi anni abbia ricevuto un assaggino di cicuta ogni giorno, diluita bene, per farlo barcollare al momento giusto. Non si può escludere che ci sia anche questo, nel protettorato che si vuole imporre alla Grecia. Se Francoforte controlla Atene, si guarda a nord come alla nuova Ellade, e intanto a Roma c’è un vicario cui guardare come al Cristo. Strano, sul Meno si parla la stessa lingua del vicario sul Tevere.
Certo, la classe dirigente greca degli ultimi anni è un orrore. Eppure la sua corruzione non è tutta autoctona, se è vero che finanzieri stranieri hanno brigato e pagato, per farle falsificare i conti e far indebitare il paese. I nazisti invece (invece?), usavano denaro e droga, per tenere in pugno i loro collaboratori e informatori nei paesi occupati. Funziona, questo favorire trasgressione per poi imporre l’espiazione.
Non c’è solo la morale kantiana, dietro il successo tedesco, ma forse anche un metodico egoismo. Quando si trattava di prendere il caffè l’autore della Critica della ragion pura era esigentissimo. Nella sua frequentazione della nera tazzina, i biografi ricordano bizze, pretese e capriccetti che Monsieur Proust avrebbe trovato fanciulleschi. Del resto, chi ha contatti col mondo tedesco è sorpreso di incontrare una robusta gaiezza e una sincera dedizione al piacere, ma organizzate, come scritte in un quaderno a quadretti. I Carnevali di Colonia e di Düsseldorf sono fra i più divertenti d’Europa, e treni in orario vi riversano con puntualità le bellezze da capogiro di tutta la valle del Reno. È in quel ma che sta la sorpresa, per chi viene dal mondo mediterraneo, e tende a vedere il godimento nei bugigattoli della vita, invece che al davanzale. Mi ha colpito, ma in fondo non mi ha sorpreso, il partigiano Rosario Bentivegna tempo prima di morire: mi ha detto con quel suo sorriso magnifico che, se avesse avuto trent’anni, a vivere nella Berlino di oggi ci sarebbe andato volentieri.
Quanto alla questione del rapporto fra economia e sensi di colpa, oggi serpeggia parecchio nel discorso e nel sottotesto, e visto che la crisi durerà ancora, bisognerà frequentarla. Più difficile, sarà vedere come superarla. Non basteranno gli scritti di Zizek.
Venditori di soluzioni se ne trovano a ogni angolo, come alle fiere paesane le lozioni per far ricrescere i capelli. Ma il malanno è più grave, e crea dipendenza. A proposito, dipendenza in inglese si dice addiction, una parola che rimanda a addictus, lo schiavo per debiti nel diritto romano (è anche un titolo di Plauto). Vicinanza parlante: il servaggio economico, l’impero dei diritti umani l’ha trasformato in malattia, nel migliore stile della medicalizzazione del conflitto. E infatti, le vittime sono trattate come malati: sono depressi e hanno bisogno di cure. Se non si riprendono, colpa loro: non sanno pensare positivo.
Coerente con tutto questo, in Europa la decisione su Sant’Anna di Stazzema, annunciata con un comunicato dalla procura di Stoccarda, ribadisce la sostanza. Non c’è alcun valido motivo per cui coloro che hanno vinto il Secolo breve debbano sentirsi in colpa al punto da estradare, o condannare, o anche solo processare, i loro genitori e nonni che provvisoriamente hanno perso una battaglia a metà di quel secolo, quando sembrava lungo. A proposito di Secolo breve: pochi giorni dopo la decisione a Stoccarda, muore Eric Hobsbawm.
Qualcuno ha scritto che vista a distanza di secoli la battaglia di Salamina sembra una zuffa tra pescatori. La coscienza proibisce di vedere quel che è successo fra la questione di Danzica e il rogo di Berlino come una scaramuccia, ma la coscienza viene consultata poco, e non posso garantire cosa si dirà fra millenni. Ah, che ho scritto? Salamina, Danzica, Berlino. La democrazia greca, rivederla attraverso il caleidoscopio della modernità, dopo due guerre mondiali: agitare bene, aspettare, e alla fine si vedono un papa polacco e un papa tedesco. Che coincidenze.
Dovrei leggere il provvedimento di Stoccarda, ma almeno per ora non ne ho voglia. So che mi farebbe percorrere le giravolte di un labirinto, e ancora mi ricordo il senso di vertigine quando lessi il provvedimento del 2006 della Procura di Monaco, quello che evitò il processo a Mühlhauser, per l’immenso eccidio di Cefalonia (ancora una coincidenza, è in Grecia). I distinguo dei giuristi ti prendono per mano all’equatore e ti ritrovi al polo, ancora in brache corte. Se non lo sai prima, ci resti stecchito.
Un sorso di storia, col caffè. Si arriva alle due Germanie dopo la guerra mondiale. L’ufficializzazione dei due Stati segue la crisi di Berlino del 1948, a sua volta da ricollegare alla reintroduzione del marco nella parte sotto il controllo degli Alleati, un’iniziativa che l’Urss considerò con allarme. Ed ecco la moneta. Finita la guerra fredda, si consente la riunificazione della Germania (in realtà, una parte inghiotte l’altra) a patto di vincolare insieme tutto il corpaccione del continente. La Germania sarà una, ma non avrà le mani libere: gli accordi dei primi anni Novanta, e poi l’euro. Riecco la moneta. Adesso ci si accorge che il vincolo sta stretto, nel senso che la fune ha il cappio da una parte sola. Forse sto semplificando troppo, ma in molti abbiamo l’impressione che l’euro sia un marco riciclato, sottoposto a un’operazione di money laundering, anzi di Geldwäsche.
In pochi, invece, ricordiamo l’assassinio di Alfred Herrhausen, presidente della Deutsche Bank, nel 1989. Falcone e Borsellino sono ancora vivi, e Herrhausen, benché protetto da un’auto blindata, muore per la strada: una bomba collocata lungo il percorso abituale esplode al suo passaggio. Cose da Capaci e via D’Amelio, appunto, invece accade in Germania. Malgrado indagini serrate e controverse, sull’omicidio restano dubbi. Di certo, arriva a orologeria: si intravedono la riunificazione tedesca e i pingui affari che vi galleggiano, perché il Muro di Berlino è appena caduto.
Già, Berlino. Ich hab’ noch einen Koffer in Berlin, dice una vecchia canzone: ho ancora una valigia a Berlino. È un po’ fantastoria, certo, o forse è un lutto troppo difficile da accettare, l’idea che nella città di Germania anno zero, fra quelle macerie, fra quegli edifici sventrati da cui il bambino del film di Rossellini si uccide precipitandosi nel vuoto, stesse per tornare una moneta non solo figlia del furbo sistema, fatto di valuta e di compensazioni protette, escogitato dai nazisti per la loro autarchia, ma qualcosa di peggio: madre della valuta che oggi Angela Merkel stenta a prestare. Certe parentele non sono dichiarabili in pubblico come quella cui accennerò fra poco. È più comodo nasconderle, coprirle con altre aggiustate.
Per esempio, fa comodo insistere sul fatto che il nazismo sia la conseguenza dell’inflazione nella Germania di Weimar. È una tesi contraddetta da voci autorevoli, ma fila liscia: con un colpo solo si offre al nazismo almeno un’attenuante, e alle politiche antipopolari di oggi un pilastro. Sottotraccia, si ammette che la Germania deve governare. Perché? Ma perché altrimenti comanda, ovvio. Viene in mente quel testo di Brecht, in cui una sequenza di slogan di propaganda giustifica la ginnastica al suono di un grammofono: il chiassoso atleta deve assolutamente sentire la musica perché, alla fin fine, quello che vuole è mangiare. Il suo vicino, il disincantato Herr Keuner, lo ascolta e si chiede: «Warum isst er?», perché mangia?
Resta il dubbio che il Fiscal compact sia insieme una teologia e una fabbrica di sensi di colpa. Tesi suggestiva, ma scivolosa. Il cattoliberismo di Monti è la versione moderna di un protestantesimo senza Riforma? Dopo l’Oronte, l’Elba si è riversata nel Tevere? Non lo chiedo a Giovenale, che è frequentato ancora meno di Rimbaud, ma dico che qualcosa non torna: Lutero rischiò il rogo, Monti ha ottenuto un seggio di senatore a vita. E abitando a Roma, posso garantire che da un anno non tira aria di Wittenberg né di Ginevra. C’è odore di sugo come prima, magari anche di Weisswurst bavarese. Ma vediamo meglio qualcosa, nella storia del riformatore senatore.
Ancora una coincidenza. Mi capita fra le mani una raccolta di vecchi giornali, mio nonno era serbino, e con la polvere nelle dita mi ritrovo nel 1978. Grande nonno Arnaldo.
Precisamente, ecco il «Corriere della sera» del 23 agosto. In questo momento il giornale è controllato dalla loggia P2. Che si dice? È morto Jomo Kenyatta, ma a Bologna chiude l’albergo Baglioni. Qualche titolo: Come dovrà essere il ponte di Messina, Si cerca la valletta per Corrado. Sulle pagine milanesi: all’avvocato Lazagna, ex comandante partigiano accusato di brigatismo, si rifiuta il permesso di andare a un congresso a Parigi; però, Guerra alle zanzare a colpi di zampirone. Si va al cinema? Fanno La porno villeggiante, L’ultimo guappo, Le ragazze pop-pon si scatenano, Attentato al transamerican express, La ragazza col lecca lecca.
Via, siamo seri. Aldo Moro è morto da pochi mesi, al Quirinale Leone si è dimesso e da poco è stato eletto Pertini. Mario Monti invece è un professore, ed è cominciata la sua brillante carriera. È già parecchio avanti, vista la vicinanza alla Trilaterale. Ha le idee chiare, e le consegna al quotidiano di via Solferino, in prima pagina. Vuole ridurre l’inflazione, e ha una ricetta: «Condizione necessaria, anche se non sufficiente, è che le autorità monetarie (Tesoro e Banca d’Italia) impegnino tutta la loro autorevolezza nel presentare un proprio programma triennale monetario e creditizio, compatibile con l’obiettivo della disinflazione, prima che le decisioni “reali” vengano prese dai soggetti cui competono: governo e parlamento per la finanza pubblica, parti sindacali e imprenditoriali per il costo e le modalità di impiego del lavoro. Giochino cioè “d’anticipo” piuttosto che “di rimessa” come è solitamente avvenuto».
Traduzione. Le decisioni di rilevanza sociale, cioè quelle istituzionali esecutive e legislative, e quelle produttive nelle relazioni industriali, devono essere prima prese dalla finanza, e poi attuate da tutti gli altri. Detto diversamente, ogni potere deve essere subordinato alla finanza. Nel 1978, il babau per realizzare questo è l’inflazione, ma in fondo uno spauracchio vale l’altro: dopo la fine della guerra fredda, qualche pretesto si troverà (risanamento, competizione, globalizzazione, invecchiamento, demografia, terrorismo, eccetera). Non si può negare la lunga coerenza a un programma.
Leggiamo ancora il giovane professore nel 1978: «La divisione dei poteri, alla quale sempre più si va sostituendo in Italia la confusione delle impotenze, è rispettata se si lascia alle parti il potere di fissare i salari ma si sottrae loro quello di governare indirettamente anche la moneta». Ma dai. Nel più consueto stile del potere, il professore fa giochi di parole di grana grossa. Ce l’ha con la divisione dei poteri, che strano. Soprattutto, tiene a una cosa. Che cosa, che cosa, che cosa?
La moneta, il governo della moneta, bisogna accaparrarsi il governo della moneta. Nel caso non fosse chiaro, dagli anni Settanta c’è chi vuole una cosa: il governo della moneta. Ah, al cinema fanno anche La montagna del dio cannibale.