di Marilù Oliva
«Luca adesso sa rispondere. Perché sa che le frustrazioni di suo padre sono le sue, come sua è la paura di fallire, di essere considerato uno sconfitto. E sa anche che dietro questa paura c’è, solamente, la paura di dirsi omosessuale. Rimanere nell’esercito rappresenta una sorta di compensazione»
Quinta uscita della collezione Sabot/age di edizioni e/o — progetto diretto da Colomba Rossi e curato da Massimo Carlotto — “Non passare per il sangue”, di Eduardo Savarese, è in libreria da una settimana. L’autore vive a Napoli, è magistrato ma anche studioso di diritto internazionale — sta infatti uscendo un suo lavoro monografico sugli investimenti stranieri, a dimostrazione di quanto sia attratto dalla dimensione universale, complessa, non codificata, stratificata e, insomma, anche incasinata del diritto internazionale.
Questo è il primo romanzo di Savarese, anche se non reca in sé le ingenuità che possono caratterizzare alcuni esordi. Si tratta infatti di un’opera compiuta, forse perché l’autore non è nuovo al mondo della scrittura: ha pubblicato diversi racconti e ha curato laboratori di scrittura, senza contare che “L’amore assente”, prima versione di “Non passare per il sangue”, è stato segnalato dal Premio Calvino nel 2010.
Nelle prime pagine del libro sembrano delinearsi due protagonisti, Luca e Agar: presto ci si accorge che in realtà sono tre. Perché Marcello — il grande assente/presente — non c’è più , eppure riaffiora palpabile attraverso il ricordo, il racconto, l’oggetto. Luca, romano, giovane ufficiale dell’esercito, era il suo compagno di vita e di missione in Afghanistan prima che Marcello venisse ucciso in un attentato e ora esegue il compito che gli è stato affidato: consegnare gli effetti personali di Marcello alla famiglia. Ed ecco che avviene l’incontro-scontro con Agar, la yayà — nonna — di Marcello, cretese ma senza terra, così estirpata dai luoghi che non si sentirà a casa nemmeno quando tornerà in Grecia. Il romanzo è diviso in due parti, scandite dal duplice incontro di Luca ed Agar, il primo in Campania, il secondo in terra greca. Sono strane e suggestive queste visite, sia perché Luca si trova di fronte a una donna che già conosce, in virtù di tutto ciò che dal suo amato gli è stato narrato per filo e per segno, sia perché il terreno in cui si misurano — dove a volte scivolano, a volte si rincorrono, a volte sbattono contro l’impossibilità di decodifica — non esita a diventare campo di guerra. Ma il conflitto si combatte e poi si arriva a un esito. L’esito lo tracciano insieme, nelle ultime, toccanti pagine.
Sono diversi i punti di forza di questo romanzo, a partire dai personaggi, sia quelli minori, sia i protagonisti. Agar conquista il lettore con la sua rudezza, le sue parrucche ubertose, i suoi grossi seni e le caviglie sottili da vecchia. Agar senza un polmone, Agar cocciuta, Agar e la saggezza popolare, le spigolosità, i dolori passati rinsecchiti sulle spalle, che ora la proteggono come un’armatura inscalfibile. La comunicazione con la figlia Sofia, obnubilata da psicofarmaci, sembra che non abbia vie di scampo: parlano lingue differenti e del resto non si può accettare la morte di un nipote né tantomeno di un figlio, peggio ancora se le due cose si sovrappongono, come nel caso della yayà. Perché Agar era attaccata a Marcello come se l’avesse portato in grembo e, ora che lui non c’è più, nemmeno i luoghi hanno più senso:
«Agar ha visto migliaia di volte il paesaggio che ha davanti e da che Marcello è morto ne è stanca, quasi spaventata, come se stesse trasformandosi in una presenza ostile che le chiede la ragione della sua permanenza in questa terra straniera. Le colline appollaiate come una pancia molle di madre appena sgravata, le striature della roccia costiera, i limoneti, il ponte di Seiano, luogo prediletto dai suicidi, le sue lunghissime arcate di pietra che sprofondano nel verde selvaggio le chiedono: “Cosa ci fai qui, vecchia greca? A che ti è servita la lunga lotta per la sopravvivenza ora che Marcello, l’unico nipote, il primo della classe, il soldato modello, è morto, finito, sparito nel deserto afghano?”».
Luca è delineato con la nitidezza dei personaggi rubati alla realtà: pare di sentirlo col suo influsso romanesco, la sua aderenza spensierata all’esistenza e l’abbandono ai sensi, mentre combatte tra il riemergere della memoria del compagno — mai lo dimenticherà — e le brezze nuove che soffiano i venti.
Questo non è un romanzo sulla morte, ma sulla vita attraverso ciò che si è perso, ciò cui si è rinunciato, sulle disfatte ma anche sulle conquiste, i preconcetti — l’amore omosessuale e la strada per convivere con qualsiasi identità socialmente misconosciuta — e le affermazioni, le paure e il coraggio, l’aderenza all’esistenza, la ricostruzione. Come nel caso del percorso di Agar e della sua urgenza di riesumare il passato. Così Luca conosce la gioventù cretese della vecchia, la sua salute incerta, il racconto si dipana oltre l’occupazione nazifascista fino all’incontrò con Antonio, il nonno di Marcello, ufficiale del Regio Esercito e fino alla vita insieme a lui. Una lettera antica concluderà questa rievocazione e sarà l’elemento che chiuderà il cerchio.
Un romanzo ricco di immagini evocative, di pensieri, scritto con una bella prosa, intensa, corposa ma che scorre via con la naturalezza delle onde del mare, che scandiscono, con la loro onnipresenza, la colonna sonora del libro. Un libro che ben si inserisce nella filosofia della collana Sabot/age: qui l’elemento sabotatore è la crudezza nitida, non consolatoria, problematica, con cui i personaggi scavano nel senso delle loro esistenze, mettendo a nudo realtà solitamente passate sotto silenzio. E, data anche la voragine anagrafica e di mentalità dei due universi a confronto, il sabotaggio si acuisce.
Romanzo sulle diversità e le corrispondenze, i conflitti, l’amore, le identità, le accettazioni oltre le vie tortuose e dolorose che il pregiudizio può comportare. Sulla guerra, anche. Non solo appena lambita come lotta tra soldati che non si conoscono — e qui mi è venuta in mente “La guerra di Piero” di De Andrè —, ma anche intesa come stato di belligeranza, dove quello armato è l’unico codice eletto:
«…devi consumare la carne in qualche modo. Il mio modo è la guerra.
Questo glielo aveva detto una delle ultime notti romane. E Luca gli aveva passato la mano tra i capelli, senza sapere, né allora né poi, cosa rispondergli. Quelle di Marcello erano frasi grosse, impegnative, soltanto lui aveva il coraggio di dirsele, certe cose».