di Franco Ricciardiello
Appreso con gioia che il Nobel per la letteratura è stato assegnato a Mò Yán, che seguo da sempre nelle traduzioni italiane, ho letto con costernazione che c’è chi lo considera scrittore “allineato” al governo cinese. Questo mi ha sinceramente stupito. Il dissidente Wèi Jīngshēng, naturalizzato americano, è arrivato a affermare che questo premio “non è basato sulle sue capacità di scrittore, ma ha altri scopi e per questo non è degno di nota.” L’artista Ài Wèiwèi ritiene che sia “un insulto all’umanità e alla letteratura,” e che una scelta del genere “non è all’altezza della qualità del premio negli anni precedenti”.
Sono rimasto di stucco. Sono convinto che chi la pensa così non ha mai letto nulla di Mò Yán. Ho provato a ripassare a memoria tutto ciò che ho letto di suo, cioè il bellissimo “Sorgo rosso”, la monumentale epopea “Grande seno, fianchi larghi”, l’efferato “Il supplizio del legno di sandalo” e la raccolta di racconti “L’uomo che allevava i gatti.” Nobel o meno, aspetto con avidità la pubblicazione in tascabile di ogni nuovo libro di Mò Yán che le case editrici italiane decidano di tradurre, mentre invece non ho mai letto nulla di 3 autori tra gli ultimi 5 vincitori del premio dal 2008 a oggi. Anzi, non avevo mai sentito nominare Jean-Marie Le Clézio, Herta Müller e Tomas Tranströmer prima che ricevessero il Nobel. Non so se questo sia indicativo di qualche significato. Mò Yán è stato nominato dalla Reale accademia in una terna insieme al giapponese Murakami Haruki e alla canadese Alice Munro, tutti e tre tradotti e pubblicati in Italia da Einaudi.
Faccio qualche altra ricerca in rete sui commenti dei dissidenti cinesi. Lo scrittore Yú Shìcún sostiene che questo premio non ha senso perché “le sue opere sono state influenzate dalla letteratura latino-americana, non penso che abbia creato delle cose proprio originali.”
Prendo dalla mia libreria “Grande seno, fianchi larghi” e apro una pagina a caso di questo volume di 900 pagine. Di nuovo, mi cattura irrimediabilmente. Le parole bruciano come fuoco e gocciolano sulla pagina, fuochi artificiali esplodono tutto intorno a me, i pensieri strisciano ai piedi della mia sedia. Mi domando come sia leggerlo in originale. È risaputo che Mò Yán non scrive con il computer, bensì a mano; questo non perché sia un luddista, come qualsiasi scrittore occidentale che usasse la penna, ma perché in Cina la scrittura ha caratteristiche molto diverse. I computer cinesi utilizzano una tastiera con caratteri latini, una QWERTY come le nostre: il software di trascrizione dal pīnyīn a ogni tasto mostra l’opzione di ideogrammi che iniziano con quei caratteri. Per esempio, voglio scrivere l’ideogramma “táng”; il dito preme i tasti t e á, lo schermo del computer mostra 5 segni: i due che si possono trascrivere come “tán”, cioè “discorso” e “elastico”, e i tre segni che si trascrivono con “táng”, vale a dire “sala di tribunale”, “zucchero” e “dinastia Táng”. Lo scrittore può scegliere tra gli ideogrammi proposti.
Il risultato finale è un testo scritto in caratteri cinesi, ma pensato in pīnyīn, e questo è ciò che Mò Yán rifiuta. Dunque, per costringersi a pensare in segni grafici, usa pennello e carta tradizionali. Proviamo a considerare che uno dei suoi romanzi più lunghi contiene circa 500 mila ideogrammi.
Nelle motivazioni del Nobel, l’Accademia di Svezia scrive: “Tramite una miscela di fantasia e realtà, con risvolti storici e sociali, Mò Yán ha creato un mondo che ricorda nella sua complessità quelli di William Faulkner e Gabriel García Márquez, trovando al tempo stesso un punto di partenza nella vecchia letteratura cinese e nella tradizione orale.”
Ecco, forse è qui il problema dei dissidenti. Mò Yán non è tradizionale cinese, anzi è decisamente imbevuto di cultura internazionale. Chi cerca nei valori classici della Cina pre-rivoluzionaria l’alternativa al governo “comunista” (le virgolette non sono messe a caso), evidentemente non può apprezzare Mò Yán. Gli rimproverano di essere vicino al Partito, e di ricoprire la carica di vicepresidente dell’Associazione scrittori, che in Cina è un organismo ufficiale. Eppure se leggessero senza pregiudizio i suoi libri, senza aspettarsi che uno scrittore debba per forza di cose mantenere un atteggiamento contro non solo nella scrittura ma anche nella vita, capirebbero come l’opera di Mò Yán sia assolutamente non assimilabile a nessuna ufficialità socialista; non solo perché non contiene nulla di realistico, ma soprattutto perché è inutilizzabile ai fini del totalitarismo.
Mò Yán è uno pseudonimo. Il vero nome dello scrittore è Guăn Móyè, nato nel 1955 nella provincia di Shāndōng, che con i suoi quasi 100 milioni di abitanti è la più popolosa della Cina. Costretto a lasciare scuola durante la rovinosa Rivoluzione culturale, viene inviato a lavorare in campagna e poi a vent’anni si arruola nell’esercito. Quando inizia a pubblicare, per sentirsi più “scrittore” decide di non usare il nome vero; da piccolo i genitori gli imponevano di non dire a voce alta quello che pensava quando era di casa, per evitare problemi in una società schiacciata dall’ossessione del controllo. Mò Yán significa proprio “non parlare”, quasi una rivincita dopo un’infanzia di repressione del pensiero. Visti i suoi interessi, Guăn Móyè diventa insegnante di letteratura nell’Accademia culturale dell’Esercito, e ha la possibilità di continuare gli studi interrotti, laureandosi all’Università normale di Beijing.
Il suo primo racconto ha un titolo accattivante, “Pioggia fitta e improvvisa nella notte di primavera”, e poi il successo arriva con l’incredibile, torrenziale “Sorgo rosso”, portato sullo schermo da Zhāng Yìmóu (il regista di “Hero”, “Lanterne rosse” e “La foresta dei pugnali volanti”). Il film, Orso d’oro a Berlino 1988, riprende solo una parte del vastissimo romanzo, che nel 1986 guadagna il primo posto in un referendum fra i lettori della rivista “Letteratura del popolo”. Mò Yán è autore di grandi saghe familiari che si allungano attraverso le generazioni,e in questo si inserisce nel solco dei contemporanei: per esempio il colombiano García Márquez, la cilena Allende, l’indiano Salman Rushdie e la pakistana Kamila Shamsie, tutti eredi dell’ampio respiro dei classici ottocenteschi, filtrati da una sensibilità post-moderna. “Il supplizio del legno di sandalo” è invece una tragica vicenda storica osservata da tre punti di vista successivi, ambientata a inizio Novecento durante la rivolta degli yìhétuán, i “Gruppi della giustizia e dell’armonia” che in occidente chiamiamo sbrigativamente “boxer”.
La lingua di Mò Yán è originale e estremamente riconoscibile, violenta e grammaticalmente complessa, e colpisce in profondo per la sua fantasmagoria sensoriale. L’autore (per sua stessa ammissione) apprezza i grandi classici della letteratura cinese, come il seicentesco “Viaggio verso occidente” di Wú Chéng’ēn, o “Il sogno della camera rossa” di Cáo Xuěqín nel secolo successivo; però l’idea di ambientare le sue storie nei dintorni della città di Gāomì dov’è nato gli viene da un autore contemporaneo. In una nevosa sera dell’inverno 1984, Mò Yán prende in prestito “L’urlo e il furore” di William Faulkner, e ne rimane catturato. Incuriosito, cerca su una cartina degli Stati Uniti la contea di Yoknapatawpha e scopre che si tratta di un’invenzione letteraria. Da questo momento comprende che una delle caratteristiche di un grande scrittore è creare da sé il proprio mondo.
La Gāomì dei suoi libri è una città trasfigurata, che diventa il crocevia esemplare di tutti gli sconvolgimenti della storia cinese delle ultime tre/quattro generazioni. A poca distanza dalla metropoli di Qīngdăo, che ha una forte vocazione marittima, Gāomì galleggia invece in un oceano di terra. In un certo senso, scrivere significa farla ritornare la città della sua infanzia, dove ancora oggi si reca a trovare il padre (tra l’altro, è qui che l’ha raggiunto la notizia del Nobel). Quando è ancora bambino, Gāomì è un villaggio agricolo circondato da campi a perdita d’occhio; non vi si coltiva né il riso come nella Cina del sud, né il grano come al nord, ma il sorgo rosso cinese. Mò Yán gioca con il colore ambivalente di questa monocultura, oggi quasi scomparsa: il sangue versato durante l’occupazione giapponese, il colore della bandiera comunista, il libretto di Máo.
Un’altra delle critiche rivolte a Mò Yán in occasione del premio, è quella di avere partecipato alla commemorazione di “Sulla letteratura e l’arte” di Máo Zédōng, per 40 anni base della funesta politica ufficiale nel campo della cultura: all’iniziativa hanno partecipato cento scrittori, ognuno dei quali ha ricopiato a mano un frammento di Máo. Questa critica non tiene conto delle particolarità della scrittura cinese; è risaputo che Máo Zédōng, al di là del giudizio politico sulla persona, possedeva una bella calligrafia, che nella cultura cinese è una vera e propria forma d’arte. Mentre in Europa fioriva la pittura figurativa, in Cina il forte legame tra il segno-ideogramma e la cosa rappresentata è continuato nei secoli, malgrado l’attenuarsi della sua riconoscibilità. Una parte considerevole della pittura classica cinese consiste in calligrafie tracciate a mano libera, con il pennello, su rotoli di carta pregiata. Ricopiare a mano uno scritto di Máo Zédōng può significare il riconoscimento del valore artistico della sua calligrafia. Tra l’altro, Máo è considerato un ottimo poeta per i suoi componimenti giovanili; ecco, si può contemporaneamente ammettere la sua responsabilità per il disastro umano della Rivoluzione culturale (chi legge Mò Yán non può avere dubbi sulla sua opinione in proposito) e la qualità estetica della sua scrittura, intesa in senso grafico. È questo aspetto che sfugge in Occidente.
Considerato quello che ho letto in questi giorni sui quotidiani, mi sembra quasi uno scherzo del destino il fatto che Mò Yán sia stato accusato in Cina di eccessivo rigore nei confronti dell’Esercito del Popolo, per esempio nel grandioso affresco di “Grande seno, fianchi larghi” (per qualche tempo censurato in Cina), e addirittura di revisionismo per il ruolo dell’esercito repubblicano del Guómíndăng nella guerra contro i giapponesi. Evidentemente, sono in molti a provare fastidio per il successo dello scrittore. A ogni modo, a leggere i commenti, sembra che oggi la notizia sia stata accolta con entusiasmo nel suo paese, sia dalle autorità che dai lettori.
Nel 2009 Mò Yán ha partecipato alla Fiera del libro di Francoforte, e anche in questa occasione è stato aspramente criticato perché si è allontanato dalla manifestazione in polemica con la presenza di scrittori dissidenti, probabilmente gli stessi che tentano di sminuire il valore letterario del suo lavoro. Eppure, la migliore chiave per interpretare la sua letteratura potrebbe essere contenuta nel discorso che l’autore ha tenuto proprio quell’anno a Francoforte, in cui sostiene che ci sono scrittori che vorrebbero urlare la verità scendendo in piazza, ma che “dovremmo tollerare quelli che si nascondono nelle proprie stanze e usano la letteratura per dare voce alle proprie opinioni”. Per chiarire il concetto cita un aneddoto della cultura tedesca classica, in omaggio al paese che lo ospita: durante una passeggiata insieme, Beethoven e Goethe incontrano il corteo reale. Il primo fa finta di nulla e continua per la sua strada, mentre il secondo invece si sposta di lato e leva il cappello.
“Quand’ero giovane,” spiega Mò Yán, “ammiravo il gesto di Beethoven. Ma con l’età, mi sono resto conto che la sua è la scelta più comoda, e che potrebbe occorrere più coraggio per fare come Goethe”.