di Sandro Moiso
Maurizio Pagliassotti, Chi comanda Torino, Castelvecchi 2012, pp.190, € 14,90
Ha una copertina talmente anonima che, se non avessi incontrato libro ed autore ad una manifestazione No TAV in Val di Susa, avrei anche potuto non accorgermi della sua esistenza.
Proprio la modesta scelta editoriale (titolo e veste tipografica) mi ha convinto, però, della necessità di parlare di un libro utile e ricco di dati economici e politici.
Anzi, dirò subito di più: un libro realmente in contrasto con le scelte politiche ed economiche operate dalle attuali falangi di governo.
Maurizio Pagliassotti è un giornalista giovane e ha collaborato con Liberazione, Diario ed altre testate. Si è sempre occupato di questioni “torinesi”: FIAT, Thyssen Krupp, TAV, ma lo sguardo, lo si capisce dal testo in questione, non è mai stato localistico.
Anzi l’esposizione dei fatti ci rivela subito che attraverso la finestra su Torino in realtà si sta guardando all’Italia, al suo governo e all’attuale fase di sottosviluppo capitalistico.
Il titolo Chi comanda Torino si deve alla collana in cui è stato collocato il testo (Chi comanda Milano, Roma, etc.), con la quale l’editore sta evidentemente cercando di cavalcare l’attuale momento di anti-politica moralizzatrice.
L’intento di Pagliassotti si pone, però, ben al di là tale prospettiva.
A parte il titolo, che l’autore avrebbe preferito sostituire con La marmellata (in riferimento alla confusione di ruoli economici e sigle politiche che si va via via affermando nella società attuale), il testo si rivela subito politico e schierato. Con i movimenti antagonisti e di sinistra.
A pagina 49 troviamo l’affermazione intorno a cui ruoterà gran parte dell’inchiesta: “la Fabbrica è morta e sepolta. La Fabbrica Italiana Automobili Torino non esiste più in questa città […] e con lei è scomparsa l’industria in genere”. Da lì discendono gli altri temi ovvero come è potuto succedere, chi l’ha voluto o ne ha condiviso la responsabilità e, soprattutto, cosa ha sostituito l’attività manifatturiera nell’area torinese.
Non a caso il sottotitolo del libro recita:”Hanno pensato una metropoli senza la FIAT con due sole alternative: il debito e il cemento”.
“Nel 1997 a Torino Mirafiori venivano costruite 568.368 automobili. Dieci anni dopo le auto prodotte sono più che dimezzate: 220mila. Il 2004 e il 2005 sono anni terribili in cui la produzione scende sotto le 200mila vetture […]e diviene catastrofica tra il 2010 (123mila unità) e il 2011 (83mila). Dalle linee di Mirafiori nel 2012 usciranno solo sessantamila auto” (pag. 53).
Questi i dati, tralasciando la chiusura dello stabilimento di Lingotto nel 1982 e di quello di Rivalta sul finire degli anni novanta, senza contare la progressiva chiusura di imprese piccole, medie e grandi (Carello solo per citarne una) che dell’indotto torinese e piemontese dell’auto facevano parte, oltre che del settore Materiali Ferroviari della FIAT stessa (la Mater-Ferro) e degli ex-stabilimenti Lancia di Chivasso (ceduti dalla FIAT nel 1993 e chiusi definitivamente nel 2003).
Il tutto in una città in cui le amministrazioni sono state di sinistra (1975 — 1985) oppure di centro-sinistra (1995 — 2012).
Certo gli stabilimenti di Rivalta e Chivasso non ricadevano sotto la diretta giurisdizione amministrativa del comune di Torino, ma è evidente che entrambi gli stabilimenti, distanti meno di venti chilometri dal centro del capoluogo, rientravano nelle logiche che hanno accompagnato la dismissione e la chiusura degli altri, condividendone anche il destino post-mortem.
Sostanzialmente o trasformati in magazzino per ricambi (Rivalta) o destinati ad area commerciale (Chivasso).
Ma procediamo con ordine.
Antonio Gramsci, al suo arrivo in città all’inizio del XX secolo, aveva visto in Torino una sorta di città laboratorio in cui sia il capitale che la classe operaia avrebbero, per così dire, “simulato” i loro destini. In effetti il fondatore de “L’ordine nuovo”, il primo quotidiano comunista torinese, aveva colto un elemento fondamentale delle partite destinate a giocarsi a Torino: la loro rilevanza a livello nazionale.
In effetti la costruzione degli stabilimenti di Lingotto (inaugurato nel 1922) e Mirafiori (inaugurato nel 1939) segnarono la nascita della centralità dell’industria automobilistica italiana e ne accompagnarono lo sviluppo fino alla fine degli anni settanta.
Così come le due aree (la sola Mirafiori ricopre 2.000.000 di metri quadri e vede svilupparsi al suo interno venti chilometri di ferrovie e undici chilometri di strade sotterranee) videro la formazione di una moderna classe operaia che diede prova della propria forza, consapevolezza ed organizzazione nel 1943 e per tutti gli anni sessanta e settanta.
Oggi, si diceva prima, di tutto ciò è rimasto ben poco.
Dalla Metropolis di Fritz Lang (1927) si è tornati indietro all’infernale Gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene (1920). Dalla fabbrica dello sfruttamento e delle rivolte agli intrighi ipnotici e folli di demoniaci burattinai destinati alla catastrofe finale.
E il libro di Pagliassotti, nonostante qualche eccessiva nostalgia per le giunte Novelli, proprio a questi manovratori, nemmeno troppo oscuri per chi vive a Torino o ne conosce la storia degli ultimi trent’anni, assegna volti, ruoli e responsabilità.
L’intreccio di potere e responsabilità tra ex-membri del PCI (poi PDS, poi PD), rappresentanti della maggiore istituzione bancaria italiana (il gruppo Intesa Sanpaolo), tecnocrati di governo (Elsa Fornero in primis), cooperative “rosse”, gruppi immobiliari e grandi imprese edili oltre che l’immancabile ed immarcescibile famiglia Agnelli, ha portato uno dei maggiori centri industriali italiani (forse il maggiore in assoluto) sull’orlo del collasso economico, finanziario e sociale.
Al momento in Piemonte, il cui quadro occupazionale ruota intorno all’asse torinese, “è precario l’82,2 per cento dei nuovi inquadramenti […] Il tasso di disoccupazione nel 2009. nel primo periodo di recessione, era il più alto tra Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Liguria, Toscana. Il Piemonte detiene il record di persone disoccupate da oltre dodici mesi, e quasi la metà dei disoccupati attuali lo è da più di un anno” (pag. 39).
Inoltre “le ore di cassa integrazione straordinaria sfruttate a Torino non sono mai state così elevate […] da 13.174.762 nel 1993 a 63.829.926 nel 2010, la Cigs, come è noto, è l’ultimo stadio prima del licenziamento […] mentre i dati Api relativi alla Cig del secondo trimestre del 2011 evidenziano un ulteriore aumento del 20 per cento” (pag.52).
La popolazione della città, che nel 1971 aveva raggiunto 1.200.000 abitanti è scesa a poco più di 800.000 nel 2001, oggi “conta circa 910mila cittadini e solo dal 2007 l’emorragia si è stabilizzata […] Gli stranieri erano 129.057 nel 2010 e la loro incidenza demografica in venti anni è decuplicata […] Chi ha tenuto insieme il tessuto economico della città sono quindi gli stranieri, senza il loro apporto la bolla edile che ha sostituito la FIAT non si sarebbe sviluppata” (pag. 58).
E sì, perché l’unica attività che ha sostituito quella industriale è stata quella edile e speculativa.
Altro che città del cinema o dei servizi, altro che città della innovazione tecnologica e delle attività turistiche…tutte panzane raccontate, promesse, spacciate come miracolosi toccasana dalle amministrazioni di centro-sinistra avvicendatesi al governo della città dell’auto.
Tutte fallimentari e spesso mai, realmente, avviate o anche solo tentate.
La Detroit in salsa savoiarda ha visto soltanto un susseguirsi di investimenti nel settore edilizio che, dalla dismissione delle ex-aree industriali FIAT, lautamente rimborsate, fino alle Olimpiadi invernali del 2006 e passando per i vari piani di ridestinazione delle aree urbane e costruzione di nuovi, inutili e costosi grattacieli, ha visto i profitti convergere sempre più verso i maggiori gruppi bancari (Intesa Sanpaolo in testa), le coop ex-rosse, imprese edili locali e nazionali, studi di architettura blasonati, la solita famiglia Agnelli ed i vertici del centro-sinistra locale.
I costi invece sono ricaduti in gran parte sulla cittadinanza attraverso un implacabile e progressivo taglio dei servizi e della spesa pubblica.
Il tutto presentato, con una faccia tosta incredibile, come svecchiamento della città e liberazione dal patronato degli Agnelli. Che da buoni lupi, in realtà, sulle ceneri cittadine hanno continuato ad ingrassare e a far ottimi affari.
Perché, per tutto il periodo preso in esame, le diverse amministrazioni pubbliche della città, pur di“scongiurare il pericolo” di un abbandono del territorio torinese da parte del colosso dell’auto, hanno continuato a far concessioni di ogni tipo ai fratelli Agnelli, prima, e, dopo la loro morte, agli Ad e a Marchionne in particolare.
“Ecco allora arrivare poche vie obbligate per scongiurare il peggio:[…] facendo pressione sul sindacato di cui un tempo erano compagni; edificare il territorio il più possibile (soprattutto con grandi opere in cui far convergere anche gli interessi della FIAT attraverso Impregilo); privatizzare tutte le municipalizzate che fanno gola agli investitori; aumentare il più possibile il debito con le banche amiche; costruire infrastrutture anche se non hanno senso” (pag. 55).
“Torino non ha inventato nulla che non sia stato fatto in una qualsiasi città industriale d’Europa impoverita dalla globalizzazione. E’ solo tutto amplificato – ma a Torino —Morta è l’idea che il capitale possa essere governato in qualche maniera tentando di convincerlo con le buone: agevolazioni fiscali, infrastrutture, media compiacenti. Torino è l’esempio: la libera concorrenza lasciata a se stessa genera povertà ove prima c’era un minimo di benessere” (pag. 57).
“I Giochi Olimpici invernali nascono sulle ceneri della fuga della FIAT da Torino. Dovevano essere il traini per un’economia de-industrializzata, simbolo di quella innovazione che la classe dirigente invocava da anni come un mantra.[…] Sono costati complessivamente quasi tre miliardi e trecento milioni di euro […] oltre mille e cinquecento milioni di euro sono stati elargiti dal governo, quattrocento dagli enti locali e solo cento milioni dalle banche.[…] la parte coperta dalle banche, ottocento milioni di euro, è infatti garantita dallo Stato. Originariamente, nel 1996, si preventivò un esborso totale otto volte inferiore, pari circa a cinquecento milioni. L’introito complessivo ha coperto meno di un terzo dei costi. […] Nella migliore delle ipotesi le Olimpiadi di Torino 2006 sarebbero in perdita secca di ottocento milioni di euro. Una immensa tassa su tutti gli italiani ha coperto la dipartita FIAT, gli interessi delle banche e un bagno di popolarità per Castellani, Bresso e Chiamparino” (pp. 68 — 76).
Mentre il disavanzo comunale si amplia sempre più, avvicinandosi al disastro (Torino è la seconda città più indebitata d’Italia dopo Roma), il sindaco Chiamparino, nel 2008, riesce a far nominare come presidente della Compagnia San Paolo — la fondazione che detiene il pacchetto azionario più sostanzioso di Intesa Sanpaolo — un personaggio di spicco della Fondazione Antonio Gramsci: l’avvocato Angelo Benessia. Vicepresidente della Compagnia è Elsa Fornero.
Così il piano del sindaco ovvero il Dpef 2008 — 2011 finirà con il concidere, stranamente, con quello del nuovo presidente della Compagnia e consisterà, sostanzialmente, in “quanto sta accadendo oggi. Il Comune di Torino mette in vendita — originariamente si cerca di piazzarle proprio alle fondazioni bancarie, in primis Compagnia di San Paolo e Fondazione Crt — quote corpose (il 40 per cento) di tre ex-municipalizzate strategiche: Amiat (raccolta rifiuti), Trm-Inceneritore e Gtt (trasporto urbano). Il tutto dovrebbe avvenire attraverso la costituzione di una nuova holding Beni Comuni Torino, una Srl di diritto privato” (pp.98 — 99).
Sul fronte dell’edilizia invece, dai primi anni duemila ad oggi e transitando per le opere olimpiche, “sono circa trentacinque milioni i metri quadri di superficie che hanno cambiato destinazione d’uso o sono stati oggetto di nuove costruzioni, in maggioranza destinate alla residenza (circa il 62 per cento degli interventi). Nonostante questo, oggi gli alloggi vuoti e non affittati sono circa cinquantamila in città” (pag. 123).
Alla domanda “chi comanda a Torino?” si può quindi, oggi, rispondere come un esperto del mondo delle cooperative ha risposto all’autore del libro:”I costruttori in genere, e sicuramente in questo settore chi ha dominato il ventennio 1992 — 2012 sono state le cooperative. Le cooperative edili emiliane hanno lo stesso potere della Compagnia di San Paolo — Fondazione Cassa di Risparmio di Torino” (pag. 125).
Cooperative che per i Giochi Olimpici del 2006 hanno costruito praticamente tutto.
“Le cooperative che una volta si definivano rosse hanno edificato il 70 per cento degli impianti di gara e il 50 per cento delle infrastrutture. I lavori, spesso, sono stati presi i in appalto dalle cooperative emiliane più importanti aderenti al cr (Consorzio cooperative costruzioni di Bologna) che ne raggruppa 240 circa, solo in qualità di general contractor e poi subappaltati a cooperative ed imprese locali” (pag.126).
L’intreccio tra poteri locali, cooperative e grandi fondazioni bancarie si è definitivamente esplicitato con la nomina di Sergio Chiamparino a presidente della Compagnia di San Paolo, dopo il passaggio di ruolo di Piero Fassino, suo compagno di partito e di corrente (quella migliorista di Napolitano e Bassolino e della maggioranza dei dirigenti delle coop) a sindaco della città. “Chiamparino diverrà quindi padrone del suo debito, dato che una parte cospicua dei mutui che la città ha acceso, con Banca Sanpaolo e Intesa Sanpaolo poi, porta come data di nascita il decennio in cui il prossimo presidente della Compagnia più potente d’Italia ha retto le sorti della città […] La Sinistra per anni si è strappata le vesti di fronte al conflitto di interessi dell’ex-presidente del Consiglio. E adesso? Adesso tace […] Anche perché a questo punto gli ex-compagni dal lunghissimo percorso possono davvero flettere i muscoli nel mondo finanziario che conta. Hanno il controllo di Monte dei Paschi di Siena, di Unipol-Fonsai e ora della Compagnia di San Paolo- Intesa Sanpaolo” (pp. 146-147).
Occorre aggiungere altro per comprendere cosa e chi governa oggi l’Italia, e non solo Torino, e per comprendere che gli scontri ideologici sono stati sostituiti dallo scontro per chi si accaparrerà il prossimo affare miliardario? Con buona pace di chi pensa ancora che il PD, o qualsiasi altra forza parlamentare che voglia essere coinvolta nelle sue “primarie”, possa fare la differenza ed opporsi davvero ad un Monti bis.
Dulcis in fundo non poteva mancare, naturalmente, l’affaire TAV.
“Non per nulla l’ex-sindaco Chiamparino ha definito il Tav in val Susa il paradigma del riformismo odierno.[…] Fare un buco nella montagna, estrarre circa tre piramidi di Cheope di terre di scavo (il cosiddetto smarino) e costuire all’interno una ferrovia […] non è altro che la continuazione della politica economica torinese della grande opera, spesso fine a se stessa” (pp. 161-162).
Senza stare a considerare l’inutilità di un’opera assolutamente non necessaria là dove, attualmente, su una linea già esistente (quella che passa per il tunnel del Frejus) che potrebbe sopportare fino a 226 treni al giorno, transitano giornalmente soltanto 57 treni, quello che preoccupa di più è ciò che già la Corte dei Conti ha stigmatizzato nel 2008 a proposito della TAV Torino — Milano — Napoli e cioè che i debiti sussunti dallo Stato per far fronte a quelli contratti dalle imprese interessate alla costruzione della stessa pregiudichino “l’equità intergenerazionale”.
Altro che tagli alle pensioni e al lavoro per favorire i giovani.
L’unica equità proposta oggi è quella delle manganellate distribuite, in tutte le piazze d’Italia, agli studenti in lotta, da un lato, e dell’equa distribuzione di favori e commesse alle cooperative ex- rosse ed imprese edili dall’altro.
Torino docet.