di Luca Baiada (da Il Ponte, LXVIII n. 10, ottobre 2012)
[Si ringrazia la rivista Il Ponte per la gentile concessione.]
Scrivo al suono di Addio Lugano bella, accompagnamento fuori secolo per ciò che resta di un abito antico: il mantello dell’esule.
Julian Assange, il nome più noto di Wikileaks, si eclissa nel 2010, all’epoca del colpo più clamoroso dell’organizzazione, il Cablegate. Quando ricompare, nel dicembre dello stesso anno in Gran Bretagna, è arrestato. Trascorre qualche giorno in carcere e un lungo periodo in detenzione domiciliare, con sporadiche apparizioni pubbliche. Nel giugno 2012 raggiunge l’ambasciata dell’Ecuador, sempre a Londra. Si trova ancora nella sede diplomatica, ed è impossibile sapere cosa accadrà. Riuscirà a trasferirsi in territorio ecuadoregno con un salvacondotto? Sarà catturato, violando l’immunità dell’ambasciata, come ha proposto un politico britannico? Si entrerà in una situazione di stallo e rimarrà dov’è per chissà quanto tempo? Si apriranno altri scenari? Per me, auguro a quest’uomo coraggioso di riuscire a conservare la libertà, e di sfuggire ai suoi persecutori. Dice bene sin dal 2010 Daniel Ellsberg, l’uomo dei Pentagon Papers nel 1971, a sua volta considerato allora un nemico pubblico degli Stati Uniti benché non avesse fatto che il suo lavoro: «Penso che sia della massima importanza per loro neutralizzare Assange in un modo o in un altro, e non escluderei un’aggressione fisica»
Sono già intervenuto su Wikileaks, e specialmente sul Cablegate. Allora, Julian Assange ho scelto di non nominarlo affatto, convinto come sono che la formidabile novità di Wikileaks non possa essere ridotta a un uomo solo. Però adesso le avventure rocambolesche di Assange diventano un ghiotto boccone. La storia è pur sempre delle persone, non delle sigle e neppure soltanto delle tecniche, ed è il momento di vedere se andando a spremere qualcosa dalle loro vite si riesca a distillare qualche goccia di realtà in più.
Il lavoro di Wikileaks negli ultimi anni, e specialmente il Cablegate coi suoi circa 250.000 rapporti dalle ambasciate e dai consolati statunitensi in tutto il mondo, ha messo a nudo la sporcizia di un intero ceto dirigente a livello planetario, permettendo di conoscere i dettagli di bassezze d’ogni tipo. Ma sia chiaro. Per chi non vuole vedere, le prove di intrighi, massacri, affari sporchi non saranno mai abbastanza evidenti, e contro Assange e Wikileaks si continuerà a vomitare ogni menzogna. Quale meccanismo impedisca di vedere i fatti, se sia qualcosa di simile allo «stopreato» orwelliano o peggio, sarebbe bene saperlo, visto che non tutti coloro che avversano l’approfondimento della realtà sono complici dei crimini che contiene. Forse, quando un giorno si capirà meglio quale logica di potere presieda a questo intreccio di censura e di conformismo, ci si stupirà di ritrovarvi il rovescio di ciò che spinge i migliori a battersi per un po’ di giustizia. Di certo, la stampa italiana si è distinta, già prima del Cablegate e sino ad ora, per un servilismo così ecumenico da sembrare innato, o appreso direttamente dall’atmosfera. Tutto il sistema mediatico mondiale, però, ha dimostrato fragilità e complicità: in un primo momento le più importanti testate giornalistiche hanno accettato di collaborare alla pubblicazione del Cablegate, ma presto hanno abbandonato Assange al suo destino.
In un’intervista del 2010, un giornalista gli chiede: «È vero che lei da bambino ha frequentato 37 scuole diverse?». Assange risponde: «I miei genitori lavoravano nel cinema, e poi fuggivano da una setta». Giornalista: «Uno psichiatra ci vedrebbe la paranoia». Assange: «Dove, nell’industria del cinema?». Ecco il biglietto da visita di un uomo di genio.
Stretto in una magrezza nevratile e ascetica (prima che gli arresti domiciliari lo condannassero a qualche chiletto in più, che in un’ambasciata potrebbe mettere radici), ha un’andatura dinoccolata, uno sguardo un po’ spettrale, una singolare disinvoltura di gesti. La voce è sempre bassa e calma, è rimasta così persino quando le domande insolenti di una giornalista della Cnn l’hanno costretto ad alzarsi e andarsene. Le sue risposte sono eccezionalmente mirate, iperlogiche ma mai stizzose. Privo degli orpelli della virilità, in lui non si nota però nulla dell’effeminatezza. Le mani sono lunghissime, da secchione perdente nelle sfide al muretto; sulla tastiera del computer, scivolano come cigni sul lago. Quando gli si chiede il perché del suo impegno nell’informatica sin da adolescente, spiega: «È molto normale e sano, fra maschi giovani, sfuggire alle regole e competere con gli altri». È uno dei pochi momenti dell’intervista in cui agiti le spalle.
È imperdibile un’altra intervista del 2010 in cui si accomoda nello studio, stira i piedi scalzi e non si cura affatto di un buco in un calzino. Invece in un appartamento londinese, all’epoca del Cablegate, accovacciato per terra infila veloce il suo computer in uno zaino, preparandosi a uno dei suoi innumerevoli spostamenti, e l’intervistatore descrive il suo scarno bagaglio commentando: «Quello sei tu». La risposta, «This is not me. This is… portable me!», accompagnata da un sorriso di fanciullo imbarazzato, potrebbe essere tradotta «È la parte portatile di me», e tradisce lo straniamento di un uomo braccato, che sente non solo di avere radici logiche ovunque vi siano un modello matematico e un filo di corrente elettrica per dargli corpo, ma anche di soffrire per radici sentimentali che non è disposto a mostrare a tutti.
La sua biografia è facilmente reperibile in Internet, ma va sfrondata dalle illazioni e dalle innumerevoli congetture complottistiche cui si sono abbandonati i suoi nemici. La sostanza è che un ragazzo di formidabili qualità per intuito, memoria e logica combinatoria può andare molto lontano, ma paga il prezzo del suo talento. Quanto alla sua fermezza etica, si può star certi che ci sia, anche se è probabile che necessità di sopravvivenza l’abbiano costretto a compromessi che non sarebbe certo disponibile a raccontarmi, e che io stesso forse preferirei tacere, se mai li conoscessi. Non deve trattarsi di quelli che garantiscono una tranquilla vecchiaia, però, se è vero che Assange si trova da anni in una situazione molto scomoda. I compromessi, d’altra parte, sono necessari in ogni iniziativa che sia grande, e siccome Wikileaks lo è, considero del tutto verosimile che anche Assange sia sceso a patti con qualcuno e qualcosa. Certamente, se fosse un dissidente cinese o cubano, sarebbe considerato un eroe. Invece, c’è chi vuol farlo passare per un delinquente.
Intervistato mentre è agli arresti domiciliari, gli si chiede: «Lei è un sovversivo?». Assange: «Ci sono certi punti di vista nell’ambiente di Hillary Clinton, secondo cui noi stiamo sovvertendo la loro autorità. Ma lei ha ragione, noi stiamo sovvertendo autorità illegittime. La questione è quando le autorità siano legittime e quando illegittime». Ecco, proprio questo è il punto.
Il vasto ceto dei giuristi di maniera, dei teologi della nuova religione dei diritti umani, dei giornalisti della comunicazione plasticona, stenta a riconoscere nella sua vicenda le stigmate della persecuzione. Anche per questo, mi rifiuto di entrare nei dettagli della storia scabrosa che lo vede accusato di stupro in Svezia, sulla base di narrazioni in cui solo a gettare un’occhiata si vedono i tratti di una montatura poliziesca e di una manovra pilotata. A frugare nei dettagli piccanti, poi, si rischia sempre di intorbidare tutto, e di lasciarsi trascinare in un pericoloso sviamento del discorso. Incidentalmente, va detto però che il paradiso svedese dei diritti e della legalità si è rivelato una trappola, e bisogna esserne davvero dispiaciuti, perché quel popolo è stato capace di dare lezioni al mondo, col suo culto della giustizia, la sua redistribuzione del benessere, la sua eccezionale larghezza di vedute. Ci si incontrava all’Università di Uppsala, negli anni Ottanta, fra il sorpasso tecnologico e la caduta del muro di Berlino, e in quella bolla sospesa nella Guerra fredda era dolce sentire il respiro di una terra di mezzo. E ricordo con commozione l’invito in Svezia, dopo i fatti di Genova del 2001, quando le preoccupazioni internazionali per l’Italia e l’attenzione per qualche mio scritto avevano svegliato curiosità oltre il Baltico. A riscattare però la Scandinavia c’è adesso l’orientamento dell’Islanda, che ha cercato di fare del suo territorio un porto franco per il giornalismo investigativo, anche proprio con la consulenza tecnica di Assange e con l’impegno di Wikileaks. La Svezia una trappola, l’Islanda un rifugio. Per sfuggire ai tentacoli del potere e del conformismo, bisogna andare sempre più lontano?
Parlando di Assange, ricordiamo il nome del militare Usa che è accusato di avergli consegnato i documenti e i video più importanti, e soprattutto il Cablegate: è il giovane sottufficiale Bradley Manning, anche lui arrestato, e da due anni in un carcere militare. Il castigo esemplare che lo attende servirà a ribadire coi chiodi del carnefice che le bocche devono restare cucite, quando gli occhi hanno visto i crimini di una superpotenza. A noi che per lui possiamo firmare appelli utili poco più che a farci schedare come troublemakers, in questo momento resta poco. Per esempio, cercare di capire.
Qualcosa accomuna persone di modesta forza muscolare, passato personale travagliato e animo inquieto. Soprattutto, in momenti particolari questo può far leva sulla storia. Cospiratori e gesti isolati raramente hanno avuto effetti decisivi, ma spesso hanno dissodato il terreno per novità che si sono viste molto tempo dopo, anche se le novità si guardano bene dall’ammettere il loro debito nei confronti di chi e cosa le ha precedute. Nella memoria aggiustata, Vittorio Emanuele II è un capo di stato, Cavour uno statista. Già Garibaldi sa d’operetta, Mazzini di marcia funebre. Per altri, come Buonarroti o Orsini o Pisacane, è ancora peggio: si serbano sullo sfondo quinte malmesse e poco illuminate.
Oggi la diffusione capillare della tecnologia, e il tentativo di poche mani di concentrare le informazioni importanti condannando i popoli a sguazzare nel chiasso, sono caratteristiche del capitalismo cognitivo. Assange lo descrive a modo suo, coi toni limpidi di un fumetto a china: «Ogni organizzazione riposa su una montagna di segreti». Se rifletto meglio su questo, un dubbio: quali segreti potrebbe custodire la struttura per cui lavoro? E chi mi legge, con che sicurezza può chiamarsi fuori?
La gestione di grandi quantità di dati renderà sempre più difficile limitare la loro gestione a pochi addetti ai lavori. Le persone a conoscenza di segreti saranno sempre di più, sempre peggio pagate, più frustrate, più esposte a cedimenti. Wikileaks si basa anche su questo: non paga le sue fonti, ma conta su una cosa complessa, imprevedibile e disseminata in uno scrigno insospettabile: nel genere umano. È una cosa fatta di curiosità, di malcontento, di sdegno e di angoscia: stati d’animo che il modello sociale del Ventunesimo secolo sparge in abbondanza, e da cui si può mietere sapere. Stati d’animo in cui tremola una scintilla preziosa, la coscienza. Arma imprevista, persino lama senza manico che può ferire chi la impugna. Bradley Manning (accettiamo per un momento che quanto si dice sia vero) consegna a Wikileaks dati di eccezionale importanza, ma poi, sconvolto, lo racconta su una chat a uno sconosciuto, che lo denuncia. Il travaglio interiore che sconvolge Manning è simile, quando vede i crimini immensi del suo paese, e quando teme di aver fatto la cosa sbagliata a rivelarli, ed ecco che in questa storia la logica combinatoria e i sentimenti si fronteggiano come giganti, alle spalle di uomini che l’ingranaggio della storia si affretta a macinare.
L’accusa contro Wikileaks sin dal 2010 è di minacciare la pace e la sicurezza nel mondo. Anche mettendo da parte la semplice circostanza che la pace e la sicurezza proprio non si vedono, anche se si sentono nella propaganda, quest’accusa ricalca il logoro trucco di accusare chi svela certi fatti, per sviare l’attenzione da chi ha la colpa di porli in essere o di permetterli. Assisteremo sempre più a queste accuse di stregoneria, perché la violenza cercherà sempre più di criminalizzare la comunicazione, la parola e l’arte, quando strapperanno la maschera alla prepotenza. Sia chiaro, non c’è mai stato un conte di Montecristo con le spalle abbastanza larghe da vendicare i soprusi, ma soprattutto adesso non c’è più — e invece quella c’è stata, in passato — la formazione di un ceto medio che alza la testa e rivendica diritti, cioè li crea. L’impoverimento del ceto medio in Occidente spolpa la società del suo corpo centrale, un po’ volgare ma anche robusto, zoccolo duro della consapevolezza sociale. Si formano ristrette caste di privilegiati e vaste folle di abbrutiti, troppo ignoranti per cambiare le cose. Qualcuno scrive sofisticati algoritmi per controllare ogni cosa; una turba incosciente si lascia scrivere addosso tatuaggi.
Ma adesso taci, fredda cronaca, e lasciami azzardare qualche paragone, di quelli pretestuosi e forse pericolosi.
Una politica reazionaria e superstiziosa costruisce sulla globalizzazione nuove strutture di potere, fatte di falsi diritti, di valori universali taroccati, di aristocrazie del denaro e di scompaginamento dei popoli. Come il Congresso di Vienna sancì la pretesa di conservare il mondo e le dinastie, arrogandosi il diritto di intervenire ovunque per soffocare ogni cambiamento, così il nuovo potere pretende di possedere un diritto d’intervento garantito da un apparato di controllo capillare, e persino da invenzioni giuridiche confezionate a tavolino, come la responsibility to protect.
Dopo il Congresso di Vienna, a chi non si rassegna non resta che nascondersi, tramare nell’ombra per inabissare i progetti di cambiamento e farli riemergere al momento opportuno. Ed ecco fiorire le società segrete, col loro carico di promesse, di messianismo, persino di gioco e di astratti furori. In fondo, nessuno ha mai calcolato per davvero quanto si deve a quelle consorterie che abbiamo studiato a scuola, consegnate al folklore e a volte al ridicolo, gonfie di ingenui proclami e bardate di riti bizzarri. Ma c’è anche il loro seme di sangue, nei risorgimenti europei.
Forse, oggi i cyberattivisti, gli intrepidi e gli scontenti che fanno la loro parte di storia anche da una tastiera e che non si piegano a un impero valoriale di banalità e di ovvio, e persino gli incappucciati che si fanno chiamare Anonymous e attaccano siti istituzionali o bancari, ripercorrono quel malcontento e non sanno di preparare qualcosa. Forse anche quelli che si sono messi la candida maschera di Guy Fawkes sotto l’ambasciata dell’Ecuador a Londra, col cartello «io sono Assange», sono parte di un movimento storico che va come la lancetta delle ore, apparentemente ferma ma inesorabilmente viva. E si ascolti il discorso di Assange fatto ad agosto, da una porta-finestra dell’ambasciata, attento a non mettere un piede fuori per non perdere la sua protezione giuridica: è la denuncia di un perseguitato, ma vi rintoccano proposte da statista. Si rivolge a tutti, persino a chi lavora negli apparati governativi e non si piega all’ingiustizia: «Il vostro giorno, verrà».
Sto facendo fantastoria? Può darsi, ma solo la generazione successiva potrà dire se il gioco carbonaro si impantanerà oppure si scioglierà in un nuovo Quarantotto, in cui i sussulti dimostreranno che la partita non è finita, che lorsignori non hanno vinto anche se vogliono farlo credere, che l’idolo della prepotenza è ancora un fantoccio di cartapesta e può essere consegnato alle fiamme.
Assange è rifugiato a Londra sotto bandiera ecuadoregna. Oggi come molto tempo fa, sono i margini della storia, e soprattutto il Sudamerica, a offrire rifugio e a permettere la sopravvivenza di nuove proposte. La globalizzazione è a sua volta una realtà e un pretesto. La morte dell’altrove è solo una morte apparente, dunque, se c’è ancora una possibilità di rifugio, di differenza. Si può ancora trasgredire e contestare l’ordine costituito, cioè proporre un ordine nuovo. Si è gridato allo scandalo per la mancata estradizione di Cesare Battisti dal Brasile, ed era in fondo una diatriba sul passato irrisolto di un paese ficcato nel Mediterraneo, crocifisso ai suoi fantasmi, e ostinato nel chiedere l’applicazione di sentenze controverse a un condannato per remoti reati politici, che dice di essere innocente. Adesso l’Ecuador non vuole consegnare Assange, un uomo che ha osato rivelare i dettagli di cose che accadono mentre siamo affannati a combattere col presente, e che riguardano il pianeta e il futuro. Le crepe nel mito della globalizzazione facevano sentire il loro scricchiolio già in altri casi, come quello di Battisti, e non si è voluto ascoltarle; adesso una faglia geopolitica rimbomba nel caso Assange, e non si vuole prendere atto che certi rapporti di forza stanno cambiando. Soprattutto, non si vuole vedere che la giustizia assoluta è un valore astratto, e che come muta pelle quando attraversa il tempo, così cambia nello spazio. Ciò che è crimine a Londra può essere giusto a Quito, ciò che è sentenza a Roma può essere atto politico a Brasilia. Fuori di questa ragionevole misura, ci sono gli artigli di un pericoloso universalismo, che mette radici dove ci sono orecchie troppo disponibili alla propaganda, ma che conserva la plancia di comando sulle cannoniere.
Intanto, quel blocco che si fa chiamare Occidente si spezzetta in frammenti diversi. Assange è australiano, ma l’Australia non lo protegge affatto; la strada per farlo inghiottire dalla vendetta statunitense passa per la Svezia, e Londra è il luogo dove è trattenuto, ma anche aiutato da molti amici. Un gioco che unisce continenti, blocchi geopolitici e militari. E il Sudamerica, già satellite politico degli Stati Uniti, adesso dimostra di saper accogliere e custodire scintille preziose, come già accadde nel Diciannovesimo secolo.
E le nuove tecnologie? Anche loro si sono già viste e già sentite, a dire che ormai la storia era finita. Schiacciato il 1848, rimesso sul piedistallo il trono papale, la rincorsa tecnologica celebra i suoi fasti molto presto, alla prima Esposizione universale, a Londra nel 1851, e già carsico il moto della scienza rimette tutto in discussione. Solo pochi anni prima, nel 1836, una delle menti più lucide d’Europa ha afferrato al volo nella metafora della Ginestra la condizione umana, additando la cecità di chi non vede che «magnifiche sorti e progressive». In quegli anni, è inventato il telegrafo. E pochi anni dopo quell’esposizione londinese, nello stesso periodo in cui a Solferino e San Martino è segnata per sempre la sorte dell’impero d’Austria, cioè dell’architrave militare dell’ordine in Europa (Metternich e Radetzky l’avevano capito: perduta l’Italia, l’impero è finito), ecco che Darwin pubblica L’origine delle specie. Dopo quella macelleria, così atroce da spingere all’invenzione della Croce rossa, passa un inverno, e già a maggio è proprio con la recente invenzione, il telegrafo, che a Palermo e a Napoli si viene a sapere un fatto molto strano: certi tipacci con le camicie rosse sono sbarcati a Marsala, saranno un migliaio. Li guida il pericoloso pirata Garibaldo, quello che era scappato in Sudamerica inseguito da una condanna a morte, quello che ha molti passaporti e poco rispetto per l’ordine costituito.
Basta, con Addio Lugano bella. Adesso facciamo cantare Mercedes Sosa: Todo cambia.