di Sandro Moiso
Paco Ignacio Taibo II, Alamo, Tropea 2012, pp. 288, € 14,00
In un momento in cui l’aquila americana, sempre più spennata, si prepara all’ennesima avventura imperialista a fianco dei falchi di Israele e della NATO, la lettura dell’ultimo libro di Paco Ignacio Taibo II, dedicato ad uno degli eventi che fondano la retorica imperiale degli Stati Uniti, può risultare utile oltre che divertente. E’ qui forse inutile ricordare che Taibo, oltre che abile romanziere, è anche saggista e biografo di rivoluzionari più o meno famosi come Che Guevara, Pancho Villa e Tony Guyteras ed autore di una dettagliata storia dell’insurrezione delle Asturie, purtroppo mai tradotta in Italia.
“Il mito fondante, la pietra angolare degli Stati Uniti d’America, che si tramanda nell’educazione e si riproduce all’infinito in questo settore della pubblica istruzione, la verità vera, che per gli statunitensi è quella sancita dalla televisione, ha le sue fondamenta nella battaglia di Fort Alamo, El Alamo. Curiosamente, l’essenza è proprio lì, il number one, il cuore perverso del Nord America. E altrettanto curiosamente, si tratta di un mito texano, e solo per estensione statunitense, e, fatto singolare, è un mito creato sopra una schiacciante sconfitta ma — e questo non è affatto curioso — è ovviamente un mito militare e profondamente imperiale. E, per di più, ha gettato le basi su una formidabile catena di menzogne” (pag. 11).
Ma quali sono i fatti o il fatto cui si fa riferimento quando si parla della battaglia di Alamo?
La storia maggiormente diffusa narra che alla fine dell’inverno del 1836 alcune centinaia di volontari texani, sostenitori dell’indipendenza del Texas nei confronti del Messico, occuparono la città di San Antonio de Béjar e il vicino presidio ricavato dalla vecchia missione di El Alamo.
Lì furono sterminati dall’esercito del generale, nonché dittatore del Messico, Antonio López de Santa Ana.
Quarantacinque giorni dopo, lo stesso Santa Ana sarebbe stato sconfitto e fatto prigioniero dai volontari di Sam Houston nella battaglia di San Jacinto, mentre circa dieci anni dopo, a seguito dell’annessione del territorio texano agli Stati Uniti nel 1845, si sarebbe giunti ad un’altra guerra che avrebbe portato il Messico a perdere definitivamente almeno una metà del territorio nazionale a favore della potenza norteña, che avrebbe così acquisito definitivamente gli stati della California, dell’Arizona e del New Mexico.
Il tutto condito da figure entrate nella leggenda del coraggio e della libertà, al pari di Leonida e delle Termopili: David Crockett, Jim Bowie, William Barret Travis.
Ma le cose andarono davvero così? Oppure, come afferma Taibo:”si tratta di memoria di seconda mano infarcita di letture e dicerie? Una sorta di accumulazione di storie che si sostengono l’un l’altra e, una volta raccolte dagli storici, si convertono nella verità?” (pag. 154).
La mole di prove che l’autore porta a dimostrazione del fatto che questa fosse tutt’altro che la verità è impressionante.
Dai “volontari texani” in realtà arruolati, prima di tutto, a New Orleans tra avventurieri e vagabondi provenienti da diversi stati della federazione e dall’Europa e organizzati nella milizia dei Greys, la cui divisa diventerà il modello per quella dell’esercito confederato un quarto di secolo dopo, agli interessi degli speculatori terrieri che sulla spinta della promessa delle fertili e rigogliose terre del Texas vendevano e commerciavano terreni e titoli inesistenti o fasulli.
Dalla meschinità e marginalità, rispetto alle vicende storiche, di figure poi esaltate come quelle di Bowie e Crockett all’alcolismo e alla dipendenza dall’oppio di Houston, fino alle vicende di una serie di figure, minori e meno conosciute, che portano inevitabilmente alla loro personale catastrofe finale, fatta di errori, contraddizioni, egoismo e, spesso, viltà.
Tutto concorre a delineare un quadro ben diverso da quello raffigurato, soprattutto, dall’iconografia voluta e diffusa dall’industria cinematografica di Hollywood.
Che con le produzioni della Disney, prima, (1955) e di John Wayne, poi, (1960) ha certamente contribuito a rafforzare il mito di Alamo e dei suoi eroi; non solo con le due citate, ma anche con le oltre duecento pellicole, tra documentari e fiction, dedicate all’evento tra il 1911 al 1987.
Tutte assolutamente distratte nel ricordare che quella guerra “per la libertà” non fu altro che il tentativo di affermare la libertà di possedere, usare, comperare e vendere schiavi. In un territorio in cui lo schiavismo era stato già formalmente interdetto.
E proprio la questione della schiavitù, e del razzismo ad essa collegato, rivelerà la gigantesca menzogna contenuta nelle istanze di libertà sempre avanzate nelle campagne militari statunitensi.
Libertà per i cittadini WASP (white, anglo-saxon, protestant), ma non per tutti gli altri: neri, rossi, olivastri, cinesi, cattolici irlandesi, polacchi o italiani.
Apertamente manifestata nella dichiarazione di indipendenza del Texas del 1836.
“Il documento venne redatto in ventiquattr’ore e fu approvato in pochi minuti. Il testo seguiva piuttosto fedelmente le idee di Thomas Jefferson e ricalcava quella statunitense.[…] sanciva la libertà religiosa, garantiva la proprietà privata, la libertà di stampa, aboliva il carcere per debiti e stabiliva che i processi avessero una giuria, permetteva ai cittadini di girare armati «in difesa di se stessi e della repubblica», ma negava la cittadinanza agli africani, ai discendenti di africani e agli indios, proibiva l’ingresso in Texas di schiavi liberati e si spingeva oltre, impedendo che un cittadino potesse liberare i suoi schiavi senza il permesso del Congresso.”(pag. 161)
Non si limitava a sancire la speculazione e la schiavitù, ma, di fatto, affermava anche la differenza di razza tra texani e messicani. I primi erano da ritenersi, sostanzialmente anglo-americani, mentre i secondi costituivano una razza meticcia derivante da “spagnoli degenerati e indios più depravati di loro” (pag. 162). Tanto da far sì che nel 1860 il trenta per cento della popolazione del Texas fosse in stato di schiavitù.
Fu lo stesso John Quincy Adams, che era stato il sesto presidente della federazione statunitense, a denunciare al Congresso degli Stati Uniti, fin dal 25 dicembre 1835, che la guerra per separare il Texas dallo stato messicano era “stata scatenata da provocazioni messe in atto da parte nostra, fin dall’inizio di questa amministrazione e alla recente autorizzazione data al generale Gaines di invadere il territorio messicano”, e che era “una guerra per ripristinare la schiavitù là dove era stata abolita […] e sono stati fatti tutti gli sforzi possibili per restarne coinvolti, schierandoci dalla parte dello schiavismo.” (cit. pag. 77)
Cosa avrebbe detto, allora, Adams della guerra contro la Spagna, scatenata dopo l’esplosione della cannoniera Maine della marina degli Stati Uniti nel porto dell’Avana, nel 1898? E dell’entrata nella guerra europea del 1914/18, dopo l’affondamento nell’Oceano Atlantico di una nave passeggeri americana da parte di un sommergibile tedesco nel 1917? E dell’entrata in guerra dopo Pearl Harbour? E delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein?
C’è un filo rosso che attraversa tutta l’espansione imperiale degli Stati Uniti fin dalla prima metà dell’ottocento: l’esser “costretti” ad entrare in guerra, sempre per la libertà propria od altrui (anche quando non richiesto) a seguito di una “vile e proditoria aggressione”.
Ecco come si spiega l’amore per le sconfitte (iniziali) e per gli eroi “gloriosamente caduti”.
Custer, Crockett, i marinai della Maine o i marines di Pearl Harbour: i morti giustificano la vendetta, qualsiasi ritorsione e “obbligano” alla guerra la nazione.
Nazione “guerriera” per eccellenza, gli Stati Uniti d’America si ammantano di pace, libertà e democrazia per giustificare ogni aggressione, ogni espansione, ogni richiesta di resa senza concessione di trattativa e, sempre e comunque, ogni guerra senza quartiere.
Da David Crockett a Batman, gli eroi americani devono molto soffrire per potersi poi vendicare, quasi che il puritanesimi delle origini abbia bisogno di una sofferenza a priori per poter, poi,dar libero sfogo ai propri più bassi istinti.
Se, poi, la battaglia sia durata mezz’ora (come nella realtà) oppure più ore o addirittura giorni (come narrato dalla leggenda o dal cinema) poco conta. E ancor meno conta che gli avversari non siano un’orda di sei-settemila feroci soldati (come narrano certe versioni), ma 1500 giovani, in gran parte indios, male armati, male equipaggiati e ancor peggio comandati.
L’importante è sottolineare l’eroismo e rimuovere tutti quegli episodi che potrebbero oscurare l’onore della nazione. Come i soldati ammutinati e in rivolta sulle navi dopo il mancato rientro dai fronti della seconda guerra mondiale. Oppure gli ufficiali uccisi dai propri sottoposti durante la guerra in Viet Nam o le diserzioni di massa ad essa collegate.
Oppure, ancora, gli uomini della brigata irlandese che, proprio durante la guerra contro il Messico del 1846/47, passarono armi e bagagli al fronte nemico, sotto la guida del capitano John Riley, per combattere contro lo schiavismo e gli anglo-sassoni protestanti che già li avevano vessati in patria e ai cui ordini si erano ritrovati a dover obbedire una volta arrivati nella Land of Freedom*.
La home of the brave deve nascondere la polvere della storia sotto un tappeto di menzogne e falsificazioni per non perdere, letteralmente, la faccia.
L’espansionismo imperiale si è sempre travestito da guerra di liberazione e chi gli si oppone deve soccombere, senza pietà. Come fu per gli irlandesi del battaglione San Patricio che nell’ultima battaglia, dopo essersi arresi soltanto per aver finito le munizioni, furono passati tutti per le armi. Tranne due che furono marchiati a fuoco con la D di disertore ed abbandonati nel deserto.
Taibo, però, da storico abile ed esperto, non si accontenta di disvelare le false promesse americane e i miti di cartapesta di cui sono portatrici.
Anche le miserie dell’arrivista ed opportunista Santa Ana e del suo stato maggiore vengono messe bene in mostra. Così come le sofferenze di un esercito mal nutrito, male organizzato e ancor peggio addestrato, su cui ricadono le pretese di un generalissimo più attento all’arricchimento personale che non alla vita dei propri soldati. Costretti a marciare nei deserti o tra le bufere di neve, con perdite elevatissime dovute più all’inefficienza dei generali al comando che non al piombo nemico.
Se Alamo era caduta in mezz’ora, l’esercito messicano sarà sconfitto in diciotto minuti nella battaglia di San Jacinto. Preso di sorpresa mentre il dittatore del Messico si stava, probabilmente, ancora trastullando nella sua tenda con una giovanissima prostituta.
E anche questa è una storia già vista, da Saddam a Gheddafi e, forse, domani da Assad ad Ahmadinejad: dittatori gonfiati dalle proprie parole e dalla paura diffusa con il terrore tra gli oppositori, incapaci di far fronte davvero, per timore di esser rovesciati dai propri concittadini, alle aggressioni dell’imperialismo straniero.
Su tutto questo, anche indirettamente, costringe a riflettere il libro di Taibo, che si rivela dunque molto utile non soltanto per coloro che sono direttamente interessati alla storia americana ed ai suoi miti di cartapesta.
E poiché l’autore è sempre pronto a sottolineare le ironie della storia, val la pena di sottolineare con lui che “per quella che potremmo definire come una forma di giustizia poetica […] oggi in Texas il nome più diffuso per i nuovi nati è José” (pag. 268).
*Ricordati di recente in un bel cd prodotto dai Chieftains, Ry Cooder e una miriade di ottimi musicisti messicani: San Patricio (2010)