di Vittorio Catani
Quella mattina Genno si svegliò con un odore di mare nelle narici. Aveva sognato un suo antico desiderio: distendersi sulla riva d’una sconfinata spiaggia polinesiana, in un’isoletta remota dimenticata da dio e dal mondo, dalla crisi ancora in atto e da Internet. Per qualche minuto i dettagli del sogno — particolarmente realistico, ma che doveva esser durato non più di un minuto — gli rimasero inchiodati dentro, quasi dolorosamente. Cielo azzurro. Consapevolezza di non dover pensare al denaro. Attingere ai cibi che la natura terrestre e marina offriva gratis. Indossare solo un perizoma che comunque spesso dimenticava nella sua capanna sotto gli alberi. La presenza di una donna, di cui era fortemente consapevole ma che nel sogno non appariva. Una giovane hawayana di cui ricordava il nome: Liliuoku, e che a sua volta spesso scordava in capanna il perizoma…
Si riscosse, sollevandosi sulle coperte. Il sentore di mare fu immediatamente sostituito da un tanfo stantio che da qualche giorno stagnava nel piccolo appartamento. Mirina non c’era, si era alzata e doveva essere già uscita: il pretesto era l’interminabile ricerca di un lavoro, ma Mirina preferiva squagliarsela ogni volta che per Genno si presentavano turni di lavoro FastTime.
— Non sopporto di vederti andare via in quel modo — gli aveva detto fin dalla prima volta. — Anzi, detesto l’intera procedura.
— Già — aveva risposto lui — ma non detesti i quattrini, quando arrivano.
— Se tu non soffrissi di pigrizia mentale — aveva ribattuto lei — con le specializzazioni che hai la fortuna di possedere ti cercheresti un lavoro più decente, anzi più umano.
— Pigrizia mentale, io? — aveva ribattuto con una risatina di scherno. — Ma se a me piace sperimentare cose nuove! Odio la normalità, capisci? Mi piace l’avventura, a me.
— E questa la chiami avventura? Strano eufemismo per una geniale trovata, peggiore della schiavizzazione. Innovazione? Ma andate a fa’ ‘nculo, tu e loro!.
Sì, la vita non era facile per nessuno. E a volte le cose peggioravano, se si aveva una compagna di vita così puntigliosa.
Sbirciò l’ora, le 8:45. Si alzò e andò in bagno. Seguì una sobria colazione. Mirina — che sapeva essere anche dolce e servizievole — gli aveva preparato proprio tutto sul tavolino in cucina, anche la sua pillola Meta-x-20, che lei detestava insieme al resto.
Dette uno sguardo alle ultime notizie in rete: il Pil nazionale restava insoddisfacente, l’indebitamento catastrofico sfiorava il 130%, la produttività era in lieve crescita con i nuovi sistemi “innovativi” di lavoro, che però recuperavano ancora in modesta parte i milioni di posti perduti. Si era ancora lontani dalla fine d’un periodo critico che, con alti e bassi, perdurava da un decennio. Per qualche minuto cincischiò fra i canali tv, alla fine decise di spegnere. Non poteva ulteriormente procrastinare, giocare con se stesso. Mandò giù la Meta-x-20, poi si stese sul divano. Era scritto nel “bugiardino” del medicinale: una bella mezz’ora di pausa, per fare entrare adeguatamente in circolazione i componenti.
Chiuse gli occhi ripensando al sogno. Ah, Liliuoku…
Si chiuse alle spalle la porta di casa e scese in strada. Si sentiva ritemprato, con nel corpo un’energia che premeva per essere scaricata. Guardò l’ora, le 9:21:17. La città — anzi la realtà — lo aggredì con la sua nuova veste, simile a un filmato al ralenti.
Una sorta di scenario-moviola, o una gigantesca scultura vivente partorita da un folle artista (o forse un demiurgo) d’avanguardia. Stentava ancora ad abituarsi a quella visione. Oggetti mobili e persone erano protagonisti d’un balletto surreale, onirico, lentissimo. Solo lui, lì, si muoveva normalmente. Gli edifici del CLIFT, il Centro di Lavoro Innovato FastTime, distavano cinque isolati da casa, ed era periferia. Alzò il passo. Un tram sembrava bloccato al centro d’un incrocio, stipato di viaggiatori quasi immobili. Parevano manichini. Voci umane rumori di traffico e clacson giungevano attutiti, come distanti chilometri e deformati in modo inintelligibile. Camminando sfiorava persone che avresti pensato avanzassero non attraverso l’aria ma su un fondale marino. Movimenti degli arti e modo di procedere, eseguiti in un arco interminabile di tempo, violavano la legge di gravitazione, realizzando equilibri e piroette impossibili.
Continuò a procedere, testardo. L’unico normale lì era lui, si ostinò a pensare. Che il mondo intero continuasse ad avvitarsi nel suo fatato valzer lento: erano quelli come lui che avrebbero salvato capra e cavoli, cioè l’umanità. Avrebbero dovuto fargli un monumento un giorno o l’altro, avrebbero dovuto.
Gli venne anche da pensare che il tutto, intorno, somigliava più a una gigantesca astronave volante quasi in assenza di gravità, anche se la sua persona era nella norma. Gli venne voglia di bloccarsi e rivolgere la parola a qualcuno intorno per vedere cosa accadeva. Evitò di farlo. Aveva già provato una volta. L’interpellato aveva risposto con lunghe smorfie, ruotando le pupille verso di lui con lentezza allucinante, mentre la voce giungeva remota e roca come da un contrabbasso stonato. Riprese a muoversi di buon passo evitando di soffermarsi ancora sul contesto.
Giunto agli edifici del CLIFT entrò, facendo scattare il pass automatico aziendale che tratteneva i dati personali e segnava l’orario d’ingresso. Finalmente!
Lì dentro, almeno, il mondo non sembrava impazzito. Riconobbe in giro alcuni colleghi di lavoro e altri operatori. Il Centro ne ospitava circa settecento — tutti, pensò, con la loro Meta-x-20 squagliata nelle membra e nel cervello — e c’era gran trambusto. Molti venivano da lontano. Il Centro smistava il personale per l’esecuzione di lavori diversissimi, manuali e non. Genno si diresse alla sua postazione, al terzo piano.
La stanza non era molto grande e ospitava quattro scrivanie. La finestra era semiaperta. — Ciao Aurelio… Ciao, Vladi. Ci ritroviamo. Tutto bene?.
I due sollevarono gli occhi dai loro computer. Aurelio fece un cenno con la mano continuando a leggere qualcosa. Vladi disse: — Tutto bene, ammesso che sia bene reincontrarci qui.
— Dunque — disse Genno sedendo al suo posto — vediamo cosa mi tocca stavolta…
— Io — borbottò Vladi — ora scopro che come Prima Fase ho otto ore di raccolta dei carciofi di serra. Santo cielo!
Genno scorse veloce i suoi fogli. Dette un pugno sulla scrivania e gridò: — …’Azz! E a me toccano pomodori.
— Certamente carciofi e pomodori di quel mafioso, il Cavalier Aldo Boccardi. “Fiat Cupola, amen”.
— Consolatevi, gente — fece Aurelio. — Io avrò otto ore al cimitero comunale…
— E per i loculi, “fiat Cupola De Mastri” — rispose Vladi. — Non deprimerti, magari ti mettono a riesumare salme.
— Ma dai, potrebbe toccarti solo di curare crisantemi e i fiorellini nei contenitori — celiò Genno.
— Crepate! — troncò Aurelio.
A Genno le otto ore della Prima Fase risultarono più che faticose. La serra non era distante dal Centro. La città era circondata da aziende agricole, ma lui non era allenato a lavori manuali. Doveva staccare gli ortaggi e risollevarsi per depositarli nei contenitori facendo attenzione alla roba non buona, da scartare in contenitori diversi. Depositarli di propria mano, non lasciarli cadere: sarebbero rimasti a mezz’aria in discesa lentissima intralciando tutto il lavoro. E quindi doveva curvarsi e poi ancora alzarsi e ricurvarsi. Un lavoro banale, ripetitivo e da spaccare la schiena. Quella mattina era pur sempre una mattina estiva.
Terminò le sue otto ore grondante, a pezzi. Poi riparò nella Hall. Sedette. C’erano parecchi lavoranti, ma non vide Aurelio né Vladi. Mangiò la Merendina FastBody, che suppliva al fabbisogno energetico e al contempo riequilibrava sistema muscolare, enzimatico e cardiocircolatorio per l’accresciuto sforzo fisico. Lesse qualche rivista, poi andò al dormitorio. Il sonno lo prese immediatamente.
Genno entrò nella stanza per le direttive della Seconda Fase. Vide sulla sua scrivania una pila di fogli alta una ventina di centimetri. Stavolta lavoro d’ufficio, forse? Nella stanza c’era solo Vladi, che pestava come un forsennato la tastiera del computer borbottando qualcosa, incupito.
— Ho raccolto pomodori — disse Genno — ma adesso dovrebbe andare diversamente. Credo sia trasferimento dati. Vediamo un po’… — Forse i dirigenti avevano organizzato appositamente così, per alternare con il lavoro manuale? Ma Genno non fidava in una tale intelligenza o umanità dei capi. A conferma, Vladi disse:
— Beato te! Ieri mi sono rotto la spina dorsale nel campo delle rape e oggi mi spediscono in una miniera a 400 metri di profondità. Sono pazzi! A dieci gradi sotto zero. A fare che, poi? Aiutare in un lavoro di perforazioni. Io neanche so com’è fatta, una miniera.
— Imparerai presto — disse Genno. — Chissà dopo cosa verrà, anche per me. Dai, dobbiamo tenere duro.
Vladi non rispose.
I documenti impilati, vide Genno, erano tutti simili e numerati. Per prenderli in consegna dovette verificarne la quantità apponendo la firma elettronica. Una qualche azienda di qualcosa — di cui non aveva voglia di saper nulla — sistemava periodicamente la propria contabilità e la propria organizzazione trasferendo i dati di tutte le vendite, delle operazioni, del personale lavorativo o quant’altro, su un nuovo tipo di supporto quantistico, e occorreva preventivamente assemblare gli elementi in un certo modo. I fogli erano pieni di segni sconosciuti e Genno dovette pazientemente studiarsi come riportare il tutto nelle caselle giuste del programma, sulla videata.
Poco dopo Vladi andò via.
Per la fretta di togliersi quell’ingombro (che, si accorse, non era affatto lavoro leggero come aveva creduto), sfondò involontariamente con le dita due tastiere del computer, che peraltro gli furono subito sostituite dai servizi automatici. Con il Lavoro Innovato FastTime non era raro che capitasse. Ogni gesto, anche premere le lettere della tastiera, aveva effetti amplificati.
Il Lavoro Innovato FastTime non prevedeva attività di facchinaggio. La spinta o la presa divenivano troppo rapide, ed era come se l’oggetto acquistasse una massa eccessiva, risultando inamovibile. E meno male…
Ad ogni modo il lavoro proseguì senza particolari intoppi. Terminò le sue otto ore che era sempre giorno: lo stesso giorno della Prima Fase. Una sola volta si allontanò dalla postazione, per andare in bagno, e lì si divertì un po’ a osservare la sua urina scendere con lentezza inverosimile, ballando anch’essa una sorta di valzer.
Le Fasi si succedevano e i lavori erano quasi sempre diversi. Una fabbrica di concime (che gli lasciò addosso un puzzo quasi inestirpabile), una via periferica da asfaltare, suolo roccioso da picconare, piantagioni da curare, ancora inserimento dati… Genno perse il conto delle Fasi. Sapeva che sarebbero state venti. La giornata, fuori, restava afosa, ma con il quasi impercettibile passare al pomeriggio, poi all’imbrunire, operare all’aperto divenne meno pesante. Erano lavori solitari, benché il più delle volte ci si ritrovasse con sconosciuti colleghi, molti dei quali non avrebbe più reincontrato. Il che non spingeva a socializzare e neanche a solidarizzare contro quella specie sofisticata di tecno-sfruttamento. Terminata ogni Fase, tornava nella Hall — se aveva lavorato nelle adiacenze del Centro — o in qualche altra sala, se era stato inviato altrove. Per legge, i luoghi di lavoro esterni dovevano trovarsi nel giro di pochi chilometri: motivi di sicurezza, perché solo il CLIFT disponeva di un Pronto Soccorso specializzato. Mangiava la solita merendina, andava nel dormitorio e appena si stendeva crollava nel sonno.
Al termine di una Fase si accorse, quasi con sorpresa, che era stata la ventesima. L’ultima. Reduce da un’azienda di inscatolamento di alimentari nella quale aveva trascorso cinque turni consecutivi.
Fuori era notte fonda.
Quando era uscito da casa, ricordò, aveva annotato l’ora, 9:21:17. Al suo ingresso nel Centro, il badge aveva segnato 9:25:01. Adesso erano le ore 1.01.41. Le sue venti Fasi, compresi i periodi di sosta e sonno — calcolò al computer da polso — in tempo reale erano durati esattamente ore 15:36:41. Poco più della metà di un giorno.
Ora doveva solo sostare nella Camera di Decompressione Metabolica, per azzerare gli ultimi rimasugli del medicinale nel sangue e tornare senza problemi nello SlowTime.
Uscì dal Centro di Lavoro Innovato verso le quindici. La decompressione era durata dodici ore standard, durante le quali aveva dormito saporitamente. I successivi esami medici erano risultati perfetti: rientrava nella normalità fresco e pimpante più di prima. E soprattutto con il denaro in tasca.
— Ciao, Mirina! — disse entrando in casa. — Tutto bene?
— Ciao! — disse la moglie, abbracciandolo. — Sono contenta di rivederti… Sapessi… stavolta avevo un’ansia che non puoi immaginare. — Genno vide un volto patito.
— E perché? — le chiese. — Non è mica la prima volta.
— Sì, ma non è una cosa umana… Accelerare di venti volte il metabolismo… Sapessi, proprio oggi in tv hanno detto che…
Le mise una mano sulla bocca. — Ssssstt… Tesoro, ho lavorato, e in fondo per te sono stato fuori neanche una giornata. Ora sono qui sano e salvo, e ho… Voilà!
Infilò la mano in tasca e tirò fuori delle banconote, che depositò sul tavolo. — Vedi? Duemila euro.
Mirina sbiancò. — Coooosa? — Raccattò le banconote, tremante. — Solo duemila! — strepitò in falsetto. — Per una faticaccia eseguita in condizioni di stress ad altissimo rischio, con un’accelerazione a 20?!? Ma l’altra volta non avevi incassato tremila?
— Mirina, i tempi sono tristi. La crisi non passa. Dobbiamo accontentarci, c’è chi non ha neanche la possibilità di lavorare in questo modo… a partire da te. Pensa se per esempio mi ammalassi…
Mirina era scoppiata a piangere e sedette sul divano. — Duemila euro… Con questi soldi oggi ci compriamo un mazzo d’insalata! — Il pianto si fece dirotto.
— Su, dai… — cercò di consolarla prendendole una mano.
Ma sapeva che Mirina aveva ragione.
La crisi, stranamente ma non troppo, era diventata cronica. Anche se i politici sostenevano che fosse passata. Il tutto giovava alle mafie industriali, finanziarie e governative. E la famigerata “innovazione” era stata inventata, ma a spese dei lavoratori e con il consenso dei sindacati. Eseguire il lavoro di venti giorni in mezza giornata, con una retribuzione proporzionata più alla mezza giornata che ai venti giorni. Brillante soluzione!
Mirina si alzò. — In cucina ti ho preparato una cena fredda — disse rigida, andandosene verso la camera da letto e continuando a piangere in silenzio. Giunta sulla porta si voltò ed ebbe uno scatto rabbioso. — E tu non reagisci. Stronzo!
Estenuato, Genno si distese a occhi chiusi sul divano.
Si sentì stanco, ma non fisicamente. E di colpo gli balenò qualcosa cui di solito preferiva non pensare. Cioè che per lui i giorni vissuti al CLIFT erano stati — soggettivamente ma anche biologicamente — davvero venti. Ma se in mezza giornata era invecchiato di circa un mese, di questo passo avrebbe abbreviato la sua vita di anni, almeno rispetto al mondo SlowTime… e a Mirina.
Si addormentò.
Sognò un’isola polinesiana con una spiaggia infinita. Doveva esserci anche una ragazza hawayana… Eccola, sì… gli veniva incontro da lontano a braccia aperte.
Si alzò per correrle incontro. — Liliuoku! — chiamò.
Vide che lei aveva dimenticato in capanna il perizoma.