di Girolamo De Michele
Di tutto quello che si può enunciare sul mondo, e per quanto inconfutabile possa essere, ciò sarebbe pressappoco la cosa meno interessante, sia per il cosmologo che per il teologo, ed anche per chi ne ha abbastanza del loro interpretare il mondo e vorrebbe passare alla sua trasformazione.
Hans Blumenberg, Naufragio con spettatore
Con un intervento che avrebbe potuto intitolarsi “Pole la filosofia permettisi d’esse’ poppe? No! S’apre i’ dibattito”, Roberto Esposito ha argomentato questa estate contro la possibilità che la filosofia possa essere “popular”, ossia possa essere praticata secondo modalità “pop”. Col suo testo il professor Esposito ha avuto il merito di fornire un buon argomento contro la “pop filosofia”: confutato il quale, credo si possano fare alcune puntualizzazioni sulla pop filosofia, la sua pratica e la sua utilità. Scopo di questo mio intervento è dimostrare che i limiti della pop-filosofia coincidono con quelli di una diffusa e prevalente pratica (pseudo-)filosofica, e che c’è un reale (e urgente) bisogno di pop filosofia, non solo per il bene della filosofia: e, una volta fatto ciò, di liberarsi dall’inutile fardello di simili dibattiti.
Una premessa, anzi: due.
“Pop filosofia” non è un sintagma recente: esiste dal 1977 (almeno), cioè da quando Deleuze lo pronunciò (per l’esattezza: “pop’ philosophie”) all’interno dei Dialogues (in edizione italiana Conversazioni) con Claire Parnet. Il che vuol dire che sono ormai 35 anni che alcuni filosofi fanno pop filosofia. Negarne l’esistenza è un po’ come negare il movimento mentre il filosofo cinico si alza e comincia a camminare: si può non condividerne l’importanza, si può criticarne la struttura argomentativa o i contenuti, si può ritenere che sia un segno negativo dei tempi il fatto che esista — ma non negarne l’esistenza.
“Pop filosofia” è un sintagma composto da due termini (“pop” e “filosofia”), più la relazione che li lega. “Pop” è la contrazione di “popular“, o “popular culture“, e si riferisce a quei prodotti culturali che sono fatti propri da un pubblico non specializzato — non riservati ai filosofi accademici, per dire. Non è detto che questi prodotti siano “di massa” (io cito spesso i Radiohead, che non sempre hanno avuto un pubblico numeroso): e soprattutto, non è detto che “pop” annulli la differenza tra cultura e spazzatura, tra — per capirci — La strada di Cormac McCarthy e Striscia la notizia, tra The Wire e La pupa e il secchione [1].
Se è banale che non tutto ciò che è filosofico è popular, meno banale è (ma non dovrebbe esserlo) che essere pop(ular) non basta per essere filosofici. E che la relazione tra i due termini va costruita, o almeno individuata: la filosofia ha a che fare con l’esprimersi per concetti (che li si pensi, come vuole Platone, o li si crei, come vogliono Deleuze e Guattari), e un pensiero pop o esprime concetti e diventa (pop-)filosofia, o non lo fa, ed è un’altra cosa.
Ma pensare i concetti è cosa diversa dal riassumerli, dal ripeterli a pappagallo, dal fotocopiarli, dal saccheggiarli dai libri altrui (o dalle tesi dei propri allievi). Come diceva negli anni Ottanta Salvatore Veca, tutti sanno qual è la differenza tra Gigi Riva e Gianni Brera, mentre nel campo filosofico basta scrivere di filosofia per essere definito “filosofo”. Ora, una delle critiche che potrebbe essere mossa alla pop filosofia è che l’uso della rete ha permesso la proliferazione di siti, blog, pagine fb (pseudo-)filosofici, nei quali le citazioni rimbalzano come palle di gomma, millantando una lettura dei testi che non esiste (accanto a siti e blog di alto livello filosofico, beninteso).
Ecco un esempio di come ciò che si imputa alla pop filosofia è in realtà una continuazione con altri mezzi di un malvezzo assai diffuso nell’accademia italiana.
Veniamo ora all’argomento principale del professor Esposito, che riportiamo dal suo testo (leggibile per intero qui):
«Sarebbe disonesto, per amore di consenso, tacere su un punto tanto delicato – per le sue risonanze apparentemente elitarie – quanto decisivo. Ferma restando la legittimità, e anche l’opportunità, della divulgazione, la pratica filosofica ha sì un’anima intrinsecamente politica, tesa alla critica dell’esistente e alla prefigurazione di un mondo migliore, ma non è, né può essere, “popolare”, come il calcio o la cucina cinese. Non solo, ma la stessa comunicazione filosofica ha precisi limiti, che è grottesco ignorare. Non si può spiegare in maniera credibile l’Ereignis di Heidegger o lo schematismo trascendentale di Kant a chi non abbia una conoscenza sufficiente del loro linguaggio e anche di parte della storia della filosofia. La quale, come la musica e l’architettura, ha un lessico tecnico che non è possibile saltare o banalizzare. Non è che ascoltando uno, o dieci, concerti, s’impara a suonare uno strumento musicale. Il linguaggio della filosofia si può apprendere solo con un lungo, difficile, appassionato, apprendistato. Tutto il resto sono chiacchiere filosofiche. La filosofia, in quanto tale, non può servire a risolvere questioni di cuore o a consolare qualcuno che ha perso il lavoro. Semmai può contribuire a penetrare nell’enigma dell’amore o chiarire il significato globale del lavoro nella nostra vita. Io credo che i filosofi, sfidando il “filosoficamente corretto”, debbano pronunciare una parola di verità su questo punto. Come ben sapevano Spinoza, Nietzsche e Heidegger, pensare non è un attività naturale dell’uomo – come invece vivere, immaginare, sentire, sognare».
In punta di verità, bisognerebbe ricordare a Esposito che per Spinoza l’affermazione «l’uomo pensa (homo cogitat)» è, nell’Etica, non una proposizione (che richiederebbe una dimostrazione, come ad es. con «Dio è una cosa pensante» [E., II, pr. 1]), ma un assioma [II, ax. 2]: è un fatto in sé autoevidente. Un significativo lapsus, che tende a negare l’esistenza di pensatori per i quali il pensare è un fatto naturale, e che dunque, in qualche misura, «tutti gli uomini sono “filosofi”» (Gramsci, Q. 11) [2], ed esprimono la propria “filosofia spontanea” in diversi luoghi, tra i quali il linguaggio. Il che ci porta alla sostanza dell’obiezione: può un linguaggio popolare, folcloristico, spontaneo esprimere i concetti filosofici senza cadere nella “chiacchiera filosofica”?
Sì. Ce lo dimostra quello che potremmo a giusta ragione considerare il primo esempio di pop filosofia moderna, che data 1605 ed è firmato da un ignoto padovano di nome Cecco da Ronchitti de Bruzene: il Dialogo in perpuosito de la stella Nova.
Ma Cecco de Ronchitti è il nickname di Galileo Galilei, che facendo dialogare due contadini veneti nella lingua di Ruzante si schiera per la prima volta in favore del sistema copernicano, prendendosi anche qualche sfizio [3]: ad esempio, chiamando Aristotele “Stotene”, termine che richiama per onomatopea “totani” ossia “cojoni” [4].
Qui potete vedere un breve estratto del Dialogo, prima di continuare la lettura..
Nel negare che il linguaggio tecnico della filosofia non può tradursi in un linguaggio “altro”, il professor Esposito si comporta come l’aristotelico preso di mira dai due contadini di Galilei, che nega l’esistenza di ciò che esiste per non averlo mai veduto:
«Doh cancaro a i scagarieggi da Pava, fuossi, per che questù no l’hà vezua ello, el vuole, che tutti ghe cherza, que mè pì la no ghe suppi stà? Gnan mi a n’hò mè vezù le Toescarie, e si le ghe xe» [«Che venga un canchero ai cacherelli padovani! Forse costui, per non averla vista, vuole che tutti gli credano, che non sia mai esistita? Neanch’io ho mai visto la Germania, eppure esiste!»]
Del resto, anche la termodinamica non è cosa che s’impari in quattro e quattr’otto, e il suo linguaggio è ancor più tecnico e complesso di quello filosofico: però quando il caldaista ci spiega perché il nostro impianto di riscaldamento, col passare degli anni, consuma sempre più, è di termodinamica che sta parlando.
Proviamo però a formulare una seconda obiezione: nei testi dei pop filosofi si citano in modo illogico, senza relazioni causali stringenti — insomma, come i cavoli a merenda — i più disparati autori. Esiste un’intera serie di libri di pop filosofia la cui formula è unire quel che ci pare (Matrix, I Simpson, South Park, I Metallica, Harry Potter e via dicendo) all’espressione “… e la filosofia” (negli USA ci ha costruito sopra una fortuna, come autore o editore, William Irwin): e il risultato è come quelle mostre in cui, attirati dal grande nome (Picasso, Monet…) non ci accorgiamo del resto del titolo — …e la pittura a Codroipo, …e l’impressionismo in Brianza, e credendo di vedere Picasso o Monet (dei quali ci sono 4-5 quadri poco rilevanti) ci becchiamo una mostra di pittori insulsi e provinciali. Resta che ci troviamo in mano un libro nel quale Heidegger, Hegel, Harry Potter, Conan il barbaro, Lady Gaga, Gianni e Pinotto, Ignazio di Loyola e Jena Plissken si susseguono l’un l’altro senza la minima connessione logica.
È vero, quasi sempre è così: perché c’è molta spazzatura, nel campo della pop filosofia. Ma potremmo dire cosa diversa nel campo della “filosofia filosofante”? In un non lontano passato, la filosofia italiana produceva libri che erano, per lo più, bibliografie commentate: «I pensieri deboli e le categorie della modernità. Le categorie dell’impolitico e le nuove scienze politiche. La seria apocalisse viennese e gli angeli necessari. Gli squisiti gnostici heideggeriani e le mistiche col bollino blu. Schopenhauer a Beyreuth e la camolatura dell’essere. Destra e sinistra si univano come parti di un Centauro, mentre qualunque Carneade, meglio ancora se teologo-politico, era argomento bastevole per un convegno di studi nel quale, mentre i relatori stranieri parlavano alle sedie vuote, gli accademici si spartivano amabilmente cattedre e concorsi» [5].
Certo suscita una legittima irritazione l’uso pseudo-provocatorio delle citazioni da parte di un filosofo che si vuole “pop” come Slavoj iek: l’esaltazione dei b-movies italiani a sostegno di complesse costruzioni concettuali, citazioni, diciamolo senza remore, quasi sempre a membro di segugio.
Ma sono cosa diversa le citazioni ad minchiam che si incontravano in quei succitati libri o convegni (e in molti altri, posteriori), quando capitava di sentir citati nello stesso contesto Broch, Roberto Bellarmino, la Gnosi e Augusto Del Noce con la stessa pregnanza con la quale Zizek può citare Tarantino o Edwige Fenech?
Il punto non è la differenza tra le idee politiche Roberto Bellarmino e le tette di Edwige Fenech (che non vi mostreremo: questa è carmilla, mica l’Espresso!) — posto che Edwige Fenech non ha mai mandato alcuno sul rogo: è l’uso della citazione. Citare un autore ha senso se la citazione rafforza l’argomentazione, o per analogia o perché inserisce forza argomentativa alla tesi che si sta sostenendo. Altrimenti è espressione del principio di autorità (ipse dixit), o delle sue varianti, compresa quella avente per fine épater la bourgeoisie — meglio: che crede di scandalizzare, e finisce per diventare un’involontaria caricatura della Corazzata Potëmkin di Fantozzi [6]. Che poi l’autorità sia nominata per difetto di autonoma capacità di argomentazione, o per alludere a questo schieramento accademico a discapito di quello, non fa differenza.
Si veda, ad esempio, il dibattito sul cosiddetto realismo, o nuovo realismo “lanciato” da Ferraris (sul quale ritorneremo) [7]: un dibattito che finisce spesso coll’esaurirsi nella questione su cosa ha davvero detto Derrida sul mondo esterno nei suoi ultimi testi — questione peraltro già risolta da Boris.
È però lo stesso iek a fornirci un controesempio, nella citazione della “pestis illa fantasmatum” (nella traduzione italiana del suo saggio: L’epidemia dell’immaginario) tratta dal Secretum di Petrarca, che rivelando un’analogia con la concezione lacaniana dell’immaginario ne rafforza la capacità euristica — e (ma questo iek e i lacaniani non lo ammetterebbero mai) rende ancora più evidente l’origine teologica, verticale del lacaniano Altro per analogia col Dio di Petrarca e Agostino: che è poi la critica di Guattari e Deleuze a Lacan. In altri termini, la seconda citazione produce un concetto, la prima una stronzata: ma in questo non c’è alcun ruolo nei rispettivi statuti epistemici delle opere di Petrarca o di Edvige Fenech.
Ma se è la pregnanza, la coerenza interna, l’uso allegorico (nel senso benjaminiano) delle citazioni a discriminare la chiacchiera fine a se stessa dal concetto filosofico, perché non dovrebbe essere legittimo l’uso popular della citazione, dell’analogia, dell’inserzione? E dove andrebbe a finire la rilevanza dell’allegoria, quale Benjamin ce l’ha spiegata, se l’accademia filosofica o letteraria fosse legittimata a porre paletti e steccati?
E, aggiungo: se è vero (non c’è bisogno di aver letto Bühler, Jakobson o Grice per saperlo, anche se è sempre meglio averlo fatto) che il linguaggio ha una forza argomentativa che dipende anche dall’uso retorico, dal mezzo di comunicazione, dalle strategie argomentative, perché non argomentare usando strategie oblique, spurie, trasversali?
Faccio un altro esempio. È nota la lettera in cui Heidegger spiegava perché aveva scelto di rimanere ad abitare in provincia, e nella quale parla della silenziosa comunicazione tra sé e un contadino dagli occhi immancabilmente azzurri [SPOILER: quello che segue è tutto vero, il testo integrale è qui]:
«Recentemente ho ricevuto la seconda chiamata all’Università di Berlino. In una tale circostanza mi ritiro, fuori dalla città, nella baita. Ascolto quello che dicono le montagne, i boschi e le fattorie. Visito per l’occasione il mio vecchio amico, un contadino settantacinquenne. Ha letto sul giornale della chiamata a Berlino. Cosa dirà? Egli dirige lentamente lo sguardo sicuro dei suoi occhi chiari nei miei, tiene la bocca ermeticamente chiusa, posa sulla mia spalla la sua mano fida e prudente – scuote impercettibilmente il capo. Ciò significa: assolutamente no!»
Qui si tratta di uno di quei filosofi i cui concetti richiedono, a dire del professor Esposito, «un lungo, difficile, appassionato, apprendistato». La tesi di Heidegger è che la comunicazione muta tra il filosofo e il contadino, entrambi radicati nella cura per l’Essere dell’Esserci, cioè nel radicarsi dell’Esserci nel proprio lavoro, è resa possibile proprio da questa comune appartenenza: «Come il giovane contadino trascina su per il pendio la pesante slitta cornuta per riportarla poi, carica di ciocchi di faggio, in pericolose discese, giù alla propria fattoria; come il pastore spinge con passo lento e meditabondo il suo gregge su per pendio; come il contadino nella sua stanza appronta con cura le innumerevoli scandole per il suo tetto, così il mio lavoro è dello stesso tipo. Qui si radica l’immediata appartenenza al mondo dei contadini». E che questo radicamento antecede la dimensione linguistica, e non richiede parola.
Si potrebbe agevolmente mostrare come Heidegger prenda per un fatto la propria soggettiva percezione; che questa abbagliante lucciola scambiata per una lanterna viene espressa col concatenarsi di frasi la cui unica forza argomentativa è “è così perché lo dico io”; e che Heidegger non ha mai trascinato una slitta su e giù per pericolose discese, pur avendo sempre del faggio con cui scaldarsi mentre faceva ai frammenti dei presocrastici ciò che il boscaiolo aveva fatto all’albero per ricavarne i ciocchi ora scoppiettanti nel camino: e sarebbe una confutazione filosofica. Ma lo stesso lavoro può essere svolto in modo più agevole controargomentando, con pari legittimità e minor spreco di tempo e noia, che il contadino glauco guarda il filosofo senza parlargli perché si chiama Alexander, e ritiene che il filosofo si chiami Franz:
Anche qui, dunque, non è questione di pop o non pop. È questione, piuttosto, di una moda che cominciò a dilagare con la penetrazione dell’heideggerismo e delle sue affermazioni altisonanti, ma prive di senso [8], e si è prolungata fino ad oggi attraverso teorie e pensatori che rivendicano come differimento indefinito ed interpretazione senza limiti la propria incapacità di chiudere un ragionamento, seguire un filo logico riconoscibile e verificabile, concludere un banale sillogismo: heideggeriani di risulta, lacaniani che travasano senza batter ciglio l’acqua dell’analisi nei vasi della filosofia senza aver mai praticato l’analisi, decostruzionisti spudorati, ultra-relativisti alla Rorty per i quali anything goes (un modo cool di dire “tutto va bene, madama la marchesa”): in breve, ermeneuti che non riuscendo a trovare l’ago si cimentano in una interminabile fenomenologia del pagliaio [10]. Affabulatori per i quali il discorso (o il monologo recitato agli yes men) filosofico non ha per obiettivo incidere nella carne del mondo, tantomeno produrre effetti di verità: basta che produca un effetto purchessia (che se chiamato “evento” suona più figo).
Rimane il sospetto che gli accademici avversino la pop filosofia perché vedono, nelle sue degenerazioni, la deriva di quelle degenerazioni dell’accademia che non vogliono riconoscere.
Come ricordava Melandri introducendo nel 1964 il Manuale di logica di Irwing M. Copi [9], la logica è una «introduzione alla democrazia», quantomeno perché «esige che si sappia sempre meglio distinguere fra ciò che vien detto e il perché (si suppone che) chi lo dice, lo dice». E non mi sembra che Franca D’Agostini dica cosa diversa quando sostiene l’esigenza di «applicare la logica al discorso pubblico». Non si tratta, di nuovo, di pop o non pop: accademici che rivendicano per sé «un lungo, difficile, appassionato, apprendistato» non ne sono capaci, pop filosofi si. In via provvisoria, diciamo che si tratta del fatto di avere una mente, e di come la usiamo. Perché l’inverificabilità, cioè la chiacchiera che sostituisce alla verifica il principio di autorità (o di autoaffermazione), ha sempre a che fare, presto o tardi, con una qualche forma di fascismo: o in quello storico, che non ha smesso di inquietare, perché il ventre che lo generò è rimasto gravido; o quello, come ci ricordano Foucault e Deleuze, che è dentro di noi, quel microfascismo che «è in tutti noi, che abita i nostri spiriti e le nostre condotte quotidiane, il fascismo che ci fa amare il potere»; o quello che si veste da mosca cocchiera del potere politico, accademico, mediatico.
Ma affermare di avere una mente non basta, non può bastare: perché la mente non è disincarnata, è in un corpo, e il corpo non vola nei cieli come i fidanzatini di Chagal, ma è nel mondo.
Di nuovo un esempio, tratto dalla questione del cosiddetto “mondo esterno”. Tale tema è stato rilanciato da Maurizio Ferraris, in seguito all’esperienza di un terremoto esperito a Città del Messico:
«La mattina del 28 settembre 1999 ero a Città del Messico, e avevo da poco incominciato a lavorare a questo libro […]; a un certo punto il mondo esterno ha battuto un colpo: la stanza ha cominciato a tremare, sulle prime credevo che fosse una allucinazione, non mi ero mai trovato nel pieno di un terremoto […]: non sapevo granché di come si presentino i terremoti, non mi aspettavo alcunché di simile, e invece le cose sono andate come sono andate per me e per altri 25 milioni di persone».
Il filosofo ne ha tratto la conclusione che «il creato è un mondo esterno incontrato, in cui le cose erano quelle che sono prima della nostra nascita, e tali permarranno dopo la nostra morte, fra la Terra e il cielo, in barba a tutte le nostre filosofie trascendentali» [11].
Io vivo a Ferrara, ed ero a Ferrara sia la notte del 20 maggio 2012, quando una scossa di terremoto ha colpito l’Emilia causando 6 vittime, sia il mattino del 29, quando una nuova, violenta scossa che è costata la vita ad un’altra ventina di esseri umani ha dato un colpo di grazia alla regione. Nel secondo caso ero in classe, e ho dovuto rassicurare, e poi portare in sicurezza i miei alunni.
Ne ho tratto conclusioni diverse da quelle del professor Ferraris: ad esempio, che c’è chi crepa perché alle 4 di notte, tra il sabato e la domenica, è in officina a lavorare; che la morte rende uguali nativi e migranti; e che però esistono differenze, ad esempio tra il fighetto figlio del dottore che festeggiava il rinvio di una verifica e la figlia del profugo bosniaco che sapeva suo padre essere al 30mo piano di un grattacielo in costruzione, o la studentessa in lacrime perché sua sorella, lavoratrice precaria in una libreria, era costretta a rientrare in libreria e a rimanere a lavorare all’interno. E credo che a chi non è rimasta né la casa, né ciò che in essa era contenuto, a chi ha perso il proprio mondo in 20 secondi, dell’invarianza della struttura atomica della materia non gli importi un granché. Diciamo che non mi è venuta voglia di pensare che ci sono cose che rimarranno come sono sempre state, dopo di me: al più, mi si è rafforzata la voglia di distruggere lo stato di cose esistente, come scriveva Marx.
Ferrara, peraltro, aveva già conosciuto un terremoto, ben più devastante, nel 1570: evento che diede vita a una “disputa ermeneutica” tra il Papa Pio V e i suoi accoliti, che sostenevano la scossa e i morti essere una punizione mandata da Dio per punire l’empio duca Alfonso II d’Este per non aver questi scacciato i giudei dalla città, e addirittura aver consentito loro di avere botteghe accanto alla Cattedrale, e il duca, sostenuto da uomini di scienza (tra i quali Pirro Ligorio, che progettò il primo edificio antisismico moderno), che sostenevano essere il terremoto evento naturale, e le morti doversi addebitare non a Dio, ma alla cattiva costruzione degli edifici.
Che noi si possa o meno stabilire la realtà oggettiva di quel “mondo esterno” che ci viene incontro in modo inaspettato, la questione è meno rilevante di come noi interpretiamo l’evento, quali scelte ne facciamo conseguire, quali pratiche mettiamo in atto, quali valori preserviamo piuttosto che modifichiamo per effetto di questa nuova esperienza. Ancora con le parole di Franca D’Agostini ( La morale della filosofia): «non è affatto vero che non c’è torto né ragione, e non c’è giusto né sbagliato: piuttosto si tratta di tagliare, nel continuo della realtà, il giusto e l’ingiusto, la ragione e il torto. Siamo noi, evidentemente, a tagliare, e non sempre la realtà ci dice dove farlo. Ma certo è che ci sono tagli buoni e tagli cattivi. Bisogna allora imparare l’arte di tagliare, che è in definitiva l’arte di parlare, e di pensare». Cioè l’arte di costruire concetti radicati nella realtà. Il problema della realtà si intreccia così con la pratica della verità, quella parrhesia (che significa “verità” nel senso di “nulla nascondere”) che Foucault faceva coincidere con uno stile di vita: perché anche il mentitore e l’ipocrita hanno qualcosa da nascondere — ma questa, direbbe l’indimenticabile Moustache, è un’altra storia…
E la pop filosofia, con tutto questo, che ci azzecca?
Guardiamoci intorno. Siamo in un paese in profonda crisi, prima ancora che economica, sociale, morale, culturale. Attorno a questo paese, la dura realtà di una crisi dell’economia globale che non ci lascia alcun elemento per pensare alla sua transitorietà: una crisi irreversibile, dopo la quale nulla sarà più come prima. Una crisi che concerne le stesse categorie con le quali, qualunque cosa ci sia al di là delle nostre rappresentazioni e interpretazioni, ci siamo costruiti l’immagine del mondo all’interno della quale ci collochiamo. Siamo come mosche rinchiuse in una bottiglia creata da noi stessi: e il nostro principale problema è quello di riconoscere il vetro, perché finché non lo riconosceremo continueremo a girare nella bottiglia, mentre là in alto il pesante paiolo smosso dalla scossa di terremoto oscilla sulla credenza e sembra sul punto di caderci addosso. Persino Mathio e Nate, i due contadini veneti di Cecco de Ronchiti de Bruzene aka Galileo Galilei erano capaci di capire che, davanti all’apparizione della nuova stella, il problema non era se il cielo fosse generato o ingenerato, ma di misurarlo, il cielo:
«S’i stà lome su’l mesurare, que ghe fà quello a iggi se ‘l suppie zenderabile, ò nò Se’l foesse an de Polenta, no poraegi ne pì, ne manco tuorlo de smira? mo el me fà ben da rire, con ste suò sbagiaffari» [«Se [i matematici] si occupano della misurazione del cielo, cosa gl’importa se esso sia generabile o no? Foss’anche fatto di polenta, non potrebbero né più né meno prenderlo di mira? Mi fa davvero ridere [il Lorenzini], col suo sproloquiare».]
La filosofia (e non solo quella italiana), per conto proprio, arriva a questo cruciale passaggio storico in una situazione di profonda crisi di idee, originalità, fors’anche di intenti. Da tempo non si vede nulla di originale nell’orizzonte filosofico: e se facciamo un confronto con lo statuto di altre episteme (la biologia, la fisica, le neuroscienze), il quadro diventa davvero fosco.
La pop filosofia può essere una chance per la rinascita della disciplina. Ma soprattutto, può essere, se non la via d’uscita, un segnale per affrontare la crisi: perché è certo che da questo mondo che sta rovinando — e non c’è ragione di sperare che non rovini nella sua miseria, nella sua ingiustizia, nella sofferenza — è necessario dismettere gli occhiali con i quali lo abbiamo finora inquadrato, e cercare di agire e pensare in modo radicalmente diverso, rovesciando certe gerarchie che ci appaiono “naturali” e istituendone di nuove. Ad esempio, mettendo in discussione il preconcetto economico che orienta la nostra visione del mondo e ci fa subordinare ad esso la pienezza della vita; ad esempio, mettendo in discussione il pregiudizio religioso che ci fa interpretare il concetto di “debito” come colpa da espiare — anche quando sarebbe giusto, e anche ragionevole, praticare il diritto all’insolvenza; ad esempio, mettendo in discussione che la logica giuridica sia il criterio attraverso il quale filtrare la complessità della vita.
Se mi è permesso concludere su di me (da accademico di nulla accademia quale sono), è la ragione per cui ho scritto un “Corso di sopravvivenza” filosofico: che non a caso si conclude in modo “pop”, e cioè con un non-filosofo, David Foster Wallace, che ha diagnosticato come pochi la gravità della crisi in cui il mondo è entrato. La felice, produttiva mescolanza di linguaggi e saperi al di fuori dei recinti del lessico filosofico ufficiale può favorire la creazione (o la scoperta) di nuovi concetti e nuove pratiche.
Sono questioni la cui soluzione non può essere demandata a raffinati riassuntini del post-strutturalismo atti a passare una mano di smalto filosofico sopra una teoria politica buona per tutte le stagioni: come – per non nascondere la mano dopo aver lanciato il sasso – fa il professor Esposito (in buona e consolidata compagnia) quando dismette i panni dell’Italian theory per vestire quelli dell’opinionista autorevole [12].
Le questioni sono a dir poco urgenti: lasciamo le mosche alle loro bottiglie, nelle quali staranno ottimamente (paiolo permettendo), e non perdiamo altro tempo.
C’è, fuori dalla bottiglia, un mondo intero da costruire.
Note al testo
[1] Mi riferisco soprattutto a Henry Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007 (e alla prefazione dei Wu Ming all’edizione italiana).
[2] Aggiunge il professor Esposito: «Contro quella che sarà la tradizione del cogito ergo sum cartesiano, il più geniale interprete di Aristotele, Averroè, aveva affermato che il pensiero costituisce una sfera separata e impersonale rispetto agli individui viventi. Con ciò intendeva dire che il pensiero, in quanto tale, non appartiene a nessuno – è di tutti. Ma a patto che si sottopongano ad un arduo esercizio, ad una conversione radicale, destinata appunto, dopo averlo incontrato, a cambiare la loro vita». Esposito sembra però sorvolare sulle letture politiche di Averroè — il cosiddetto averroismo latino di Sigieri e del Dante del De Monarchia — che estendono alla comunità degli uomini la sfera del pensiero, cioè la mente comune, teorizzando di fatto l’esistenza di una comunità che pensa il bene comune grazie al possesso di una mente comune.
[3] Ad esempio, alla p. 12 per “adoperare” viene usato il verbo “voveràr”, che significa “far l’uovo”, e richiama l’espressione veneta “sentarse al logo comodo e far l’ovo”, ossia “cagàr”. Il Dialogo (con testo a fronte in italiano ottocentesco) è nel II volume dell’edizione nazionale delle opere complete di Galilei (la cui edizione digitale è qui).
[4] E infatti ad essere coglionato è Antonio Lorenzini da Montepulciano, autore di un Discorso intorno alla nuova stella stampato in Padova nel 1605.
[5] Questo giudizio è tratto dalla mia postfazione a Pipe-line. Lettere da Rebibbia, di Toni Negri, ed è stato ribadito qui.
[6] «La corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca!» è lo sberleffo del proletario contro l’uso normativo e repressivo della cultura, foss’anche di un monumento come il film di Ėjzentejn: e, nella sua forma icastica, svela molte illusioni buoniste sulla pretesa neutralità della cultura. A quasi quarant’anni di distanza dall’urlo fantozziano, la sua reiterazione da parte di esponenti della fascia medio-alta della società o della cultura suona patetica come i tormentoni della comicità televisiva con le risate preregistrate e gli applausi a comando: il tweet di Bret Easton Ellis su David Foster Wallace – «il più noioso, sovrastimato, combattuto, pretenzioso scrittore della mia generazione. Una truffa» – né è un tipico esempio (e infatti non sono mancati gli applausi a comando e le risate preregistrate).
[7] Sul tema della realtà del mondo esterno vedi il saggio di Enzo Melandri ripubblicato su carmilla ieri. Quel che avevo da dire sull’argomento l’ho scritto qui.
[8] Ad esempio: «la tecnica non pensa». Come pure non pensano i calamari, le penne stilografiche e certe cocorite che ripetono ciò che l’abitante della Foresta Nera ripeteva (da Hölderlin): «dove più grave è il pericolo, dimora ciò che salva». Qual è l’insieme, o il campo semantico, che accomuna tutto ciò che “non pensa”? Mah…
[9] L’introduzione di Melandri alla prima edizione del Manuale di logica di Copi, edito dal Mulino, nelle successive edizioni non è stata ristampata; Logica, introduzione alla democrazia era, per l’appunto, il suo titolo.
[10] Nel mio Filosofia. Corso di sopravvivenza, pp. 149-150, ho attribuito al decostruzionismo il carattere, derivato dal cartesianesimo (checché ne dica Derrida), di sintomo di un’epoca solipsistica, nella quale proliferano i pensieri disincarnati. Oggi correggerei questa affermazione solo in un senso: chiarendo che non solo, ma anche i decostruzionisti esprimono, in una folta compagnia, un pensiero solipsistico e disincarnato.
[11] Maurizio Ferraris, Il mondo esterno, Bompiani, Milano 2001, p. 16.
[12] Un esemplare esercizio di cerchiobottismo è il commento “Il progetto che manca alla sinistra”, col quale Esposito si proponeva, nel luglio 2011, come mosca cocchiera di non importa quale governo di alternativa all’allora centro-destra. Ma sarebbe ingiusto accusare il solo Esposito di una pratica che è largamente diffusa tra gli accademici saliti sullo strapuntino del “partito-Repubblica”.