di Mauro Baldrati
In Italia esiste un editore che definire “splendido” non è inappropriato. Un paio di volte all’anno organizza dei party in una villa sui colli bolognesi per i “suoi” autori e autrici. C’è musica, una interessante degustazione dei vini che produce la sua azienda agricola, un generoso buffet, visite guidate nei vigneti e nella cantina. E poi presentazioni di libri, letture, conversazioni. I libri delle collane sono esposti in una bancarella, e non è raro che, alla fine della giornata, ogni invitato possa averne uno in omaggio.
L’ultimo party si è tenuto sopra un bel terrazzo in città. Un dj metteva musica simil-discotecara e gli autori e le autrici erano seduti ai tavolini oppure appoggiati al parapetto o al bancone del bar, un enorme assone grezzo che dimostrava almeno un secolo di età. Verso le 22 era prevista una maratona di letture, due o tre pagine del proprio romanzo.
All’invito ho risposto con un certo imbarazzo: non riuscivo a considerarmi pienamente un “suo” autore, essendo il mio romanzo uscito da due anni, il che, considerando la vita media di un testo in libreria — un paio di mesi, ma c’è chi dice addirittura uno — è un’eternità. Ma l’addetta stampa, una ragazza carina, intraprendente e soprattutto materna — requisito irresistibile — ha insistito. C’erano autrici e autori anche più “anziani” di me, inoltre era un’ottima occasione per incontrarci, fare nuove conoscenze, stare insieme. Insomma, un salotto accogliente e stimolante. Così, con puntualità svizzera, alle 21 ero sulla terrazza.
Appena entrato, però, mi sono immediatamente reso conto che gli incontri sarebbero stati più o meno teorici. Infatti dopo alcune occhiate ho avuto l’impressione che le autrici e gli autori, che conoscevo uno per uno dai titoli e dalle foto, fossero trincerati in capannelli, come in campi fortificati, impermeabili all’ambiente esterno. Parlavano animatamente, come se stessero discutendo di argomenti di straordinaria complessità che richiedevano grandi energie e una concentrazione fuori dal comune. Argomenti talmente impegnativi che a nessuno sfuggiva un’occhiata laterale, uno sguardo superfluo, così tanto per vedere. Non si trattava solo di tematiche gravi e severe, ma anche enormemente divertenti, perché spesso esplodevano in risate torrenziali, con battute ad alta voce, grida, rovesciamenti della testa e copertura dei volti con le mani.
D’un tratto, mentre chiacchieravo con la mia autrice preferita, che è anche una cara amica, effettivamente più “anziana” di me da un punto di vista editoriale, ho notato un tipo che vagava spaesato per il terrazzo. A un certo punto si è seduto a un tavolino da solo, circondato dai capannelli di autori e autrici che parlavano tra loro gesticolando, in iperventilazione, probabilmente senza neanche notarlo.
Ma guarda un po’ – ho pensato -, un altro outsider del secolo scorso? Infatti era evidente la sua curiosità off-side, vagamente malinconica, verso i gruppetti di autori e autrici che discutevano compulsivamente muovendo le mani, ridendo forte, coi visi sudati, coi quali non una sola volta si riusciva a incrociare lo sguardo.
Poi l’ho riconosciuto, perché avevo visto le foto e letto alcune recensioni e interviste: Fabio Bussotti, che continuo a confondere con Sylvano Bussotti, il compositore che apparve su una leggendaria copertina di Frigidaire. Il suo libro mi aveva incuriosito, un poliziesco abbastanza fuori genere con suggestioni alla Magnus, visti gli argomenti e i personaggi (in primis, l’ultimo periodo della vita di Che Guevara). Stavo per andare a chiedergli se per caso era parente (il figlio? Il nipote?) di Sylvano, ma sono partite le letture. Quando è toccato a lui sono rimasto sbalordito: una performance straordinaria, con un dialogo dialettale che mi ha ricordato, non so perché, il Pasticciaccio di Gadda. Ho pensato che sarebbe molto interessante un audiolibro letto da lui stesso, che tra l’altro è anche attore.
Intanto si è fatto tardi, al mattino dovevo alzarmi molto presto, avevo pure bevuto un paio di bicchieri di rosso, così terminate le letture sono andato via senza approfondire. Però mi è restata talmente impressa quella lettura intensa, gridata, che ha lasciato tutti a bocca aperta, che ho deciso di procurarmi il libro. E l’ho letto. E ho scritto questa scheda.
Il cameriere di Borges, di Fabio Bussotti, Perdisa Pop, Bologna 2012
L’impressione gaddiana viene confermata da due citazioni: “Lo dici tu, caro Ingravallo” (pag. 32); “Ti chiamo Ingravallo come il commissario di Gadda, perché se ti chiamo col tuo nome me piglia ‘na malincunia ca m’accide” (pag. 215). Sono due poliziotti che discutono, poliziotti che hanno letto il Pasticciaccio. Non è simpaticamente vintage? L’eroe del romanzo è il commissario Flavio Bertone, solidamente molisano, uomo sincero, onesto, non troppo impegnato, qua e là depresso, intelligente ma anche un po’ pasticcione, che l’autore ha deciso somigliante al presentatore televisivo Flavio Insinna (ma il lettore forse lo vede un po’ meno ridanciano). Seguendo, con molte licenze, la linea tracciata dal genere poliziesco, il commissa’ non è in buoni rapporti col suo superiore, il questore Alvarino (è lui che lo chiama Ingravallo); ma niente a che fare con i polizieschi americani, niente Affari Interni o dirigenti impelagati con la sporca politica: Alvarino era il suo amicone di gioventù, che ora lo odia a morte perché l’amata Giuliana ha scelto il più spiantato, meno ambizioso, meno dotato Flavio, invece del brillante, predestinato (ma timido e imbranato) futuro Prefetto della capitale. Un rapporto conflittuale/demenziale all’insegna dell’ingiustizia, dell’invidia, dell’ottusità, della superficialità investigativa (di Alvarino, mai di Flavio), sempre presente e strisciante nel romanzo ma mai invasivo, perché gestito con discrezione da Bussotti, che da attore teatrale si rivela anche un accorto regista letterario: scaltro, scafato e poco propenso a inchinarsi alle regole non scritte del poliziesco patinato moderno. Per esempio: Alvarino, spinto dal suo rancore punitivo, sospende Flavio per una settimana a causa di un arresto sbagliato (che poi si rivelerà giusto perché Flavio ha “un culo” così); ora, nel duro poliziesco metropolitano mainstream, diciamo del maestro Michael Connelly, Harry Bosch, sempre malvisto e osteggiato dai superiori cialtroni, sopporterebbe l’ingiustizia a denti stretti, continuando a fare il proprio dovere contro tutti, spinto dall’indistruttibile etica della frontiera. Ma non è il caso di Flavio, che esulta perché la sospensione capita a fagiolo, in quanto gli permette di portare avanti un’indagine privata che altrimenti non saprebbe come gestire.
Oppure i personaggi femminili: la nuova fidanzata spagnola Mafalda si annuncia secondo i più spietati stilemi del poliziesco commerciale: stivaletti, minigonna, il solito appeal ultrasexy, tanto che il lettore subito si preoccupa: ma come, anche qui dilaga la sindrome della velina, della donna-tigre predatrice, di cui soffrono tanti scrittori di genere? Ma niente paura, anche questo stereotipo viene presto sovvertito dall’ironico Bussotti con una trovata geniale che stupisce piacevolmente il lettore.
Poiché Il cameriere di Borges è un romanzo che ha avuto numerose recensioni, la trama è abbastanza nota e si può riassumere con l’accetta: il vicino di casa di Flavio, un misterioso, sfuggente ottantenne, gli chiede di custodire una busta contenente “documenti di famiglia”, perché deve partire per un viaggio. Sparirà nel nulla, come la busta, che verrà trafugata. Inizia una ricerca ossessiva della busta (e del vicino, che ha un’identità multipla), sempre con le intromissioni del tremendo Alvarino, che lo porterà a Buenos Aires, con l’amata Mafalda, tra suggestioni borgesiane, tradimenti, agenti segreti, un manoscritto inedito dello scrittore cieco che muta strada facendo, misteri e violenze che richiamano un passato oscuro, sepolto nelle fosse comuni della dittatura fascista dell’Argentina.
Anche il finale non si cura delle regole quasi mai trasgredite dei polizieschi patinati: non deve trionfare per forza il bene, dopo che tutto sembra perduto e davvero non si riesce più a vedere la luce; e neanche il male, in un risvolto “contro” che finisce per essere il lato B del genere consolidato. È un finale apparentemente anomalo, che rischia di deludere il lettore dipendente dal déjà vu letterario/televisivo/cinematografico del plot di intrattenimento; in realtà un finale che sembra seguire i fatti della vita, dove i colpi di scena, i sogni di eroismo, di amore eterno, spesso si estinguono nella banalità del presente, del caso, della forza che implode, del mutamento in fieri che fa sempre seguire l’autunno all’estate, come prescrive con implacabile regolarità l’I Ching: tutto scorre, tutto cambia, il fuoco lentamente si spegne, il principe deve ripiegare e superare l’ostacolo con la mitezza, con la forza domatrice piccola, mentre “dense nubi si raccolgono all’orizzonte, ma nessuna pioggia sulle nostre contrade occidentali”.