di Riccardo Falcetta
Robert Hültner, La dea madrina, Del Vecchio Editore, 2010, pp. 240, € 14,00.
Ai naviganti che, intuendo l’enneunesimo giallo noir di provenienza nordica, siano immediatamente indotti a passare oltre da un istintivo senso di comprensibile insofferenza, chiedo di resistere alle tentazioni del pregiudizio e indugiare qui giusto qualche attimo.
Sia chiaro, “La dea madrina” è un giallo: c’è una morte da indagare. È anche un noir perchè c’è l’ambiente del crimine, dove il crimine mostra le sue connivenze col potere, gli interessi del potere, la tendenza alla sopraffazione e allo sfruttamento. L’ambientazione è storica, per giunta: il protagonista è infatti Paul Kajetan, perfetta icona di ispettore abile, sensibile, impulsivo il quale vive, intraprende e procura guai seri a sé e a chi gli capita vicino, nella Germania del turbolento primo Dopoguerra. Sento il coro di detrattori erompere, “Cavoli, è pure seriale! ‘Sto libro insomma ha proprio tutti i crismi dell’ennesimo giallo cliché!”. Allora chiedo pochi attimi di pazienza e provo a spiegare perché questo libro non è il solito giallo cliché.
L’ho trovato unico, a partire da un incipit sul quale grava una buia atmosfera da tempesta imminente che spinge il lettore nella realtà fosca e primigenia della provincia bavarese di inizio Novecento: un margine del mondo e della Storia di quelli dove brutale fatalismo, ceto, potere e miseria sono concetti “di natura” e non “di cultura”, spaventosi ritornelli che riecheggiano costanti lungo l’intero racconto, che comincia davvero a Monaco, nell’estate del 1924, a qualche mese dal fallito putsch hitleriano. Dove troviamo l’ispettore Kajetan rimosso per insubordinazione e assunto presso uno sviluppatore di pellicole cinematografiche. Qui Hültner, già cineasta ed esercente, offre in pochi passi l’istantanea di un’epoca che nelle pieghe ombrose della propria inquietudine nutrì alcune delle esperienze più fruttuose del cinema di ogni tempo. Un’istantanea: l’ex ispettore ci mette il tempo di qualche battuta a farsi cacciare ancora, assieme a un collega che lo ha difeso e che il suo gesto di generosità lo pagherà a un prezzo altissimo. Il nostro ex ispettore, ormai a spasso nei budelli brulicanti e malfamati della notte bavarese, entra in una bisca popolata da loschi e bislacchi avventori dai nomi lombrosiani e donne al seguito, e per difendere una prostituta scatena una rissa. Catturato riesce persino a portarsi dietro un omicida, un poveraccio in realtà, sfuggitogli agli inizi della carriera, il quale “grazie” al nostro e complice l’automazione delle telecomunicazioni che sta investendo i pubblici uffici, viene identificato e mandato a marcire in gattabuia.
Hültner asseconda il problematico cammino del suo personaggio con un registro narrativo greve di indolente lentezza, costellato di dialoghi strambi, artificiosi e digressivi, realizzando in tal modo un contrappeso al rigore di scene austere, di respiro teatrale come nel cinema di Lars Von Trier. Un livello ulteriore di ricchezza testuale è dato dai passi in cui lievi mutamenti di registro frenano la narrazione sospendendola su voragini temporali in fondo alle quali, non senza qualche vertigine, è possibile scorgere gli accadimenti del passato.
Liberato ma ridotto sul lastrico, Kajetan intraprende la ricerca disperata e vana di un altro impiego, in una città agitata dagli spettri della recessione e del nazionalismo insorgente — una Weimar chiazzata di ombre, paurosamente attuale — fino a quando non rivede Mia, la ballerina e prostituta che aveva difeso nella bisca. Un po’ per gratitudine, un po’ per attrazione, lei lo trascina alle dipendenze del suo pappone, il gangster Fritz Urban, trafficante d’armi per organizzazioni irredentiste, tedesche e non. Mia è una dark lady di quelle che proprio ti si ficcano dentro: bellissima, fragile, imperscrutabile. Lei e Kajetan fanno l’amore poi, ricevuta una lettera, la ragazza lo cerca invano, parte e, quando torna, muore.
Sul fondo della spirale, per Kajetan comincia una detection tutta personale. Risalendo con prepotente determinazione un ripido intrico di antiche menzogne e violenza atavica, l’ex ispettore arriverà a svelare tragiche, inimmaginabili connessioni che si annidano nel passato di Mia e Fritz e dell’antica comunità rurale di Sarzhofen. È dal dolore della perdita che prende il via il recupero di un codice che deve ricondurre Kajetan a se stesso sulle tracce di una verità altra, urgente, eppure distante e impensabile. Sopra ogni cosa l’ombra di una sorte spietata e necessaria che tesse le fila, preordina, schiaccia gli individui tra le maglie del divenire storico. Hültner le dà forma concreta, umana, rappresentandola come “la dea madrina” del titolo, che ben traspone la sottile ambiguità semantica dell’originale “Die Godin”.
La dea madrina è un libro che possiede il respiro avvolgente di un racconto complesso, ambizioso e magistralmente condotto, che tenta di fondere le regole delle attuali narrazioni d’indagine e di ambiente criminale con l’estremismo tragico che impregna la grande drammaturgia tedesca.
Ecco in quale modo un romanzo di genere, che in patria ha fatto incetta dei più alti riconoscimenti destinati alla letteratura poliziesca nazionale, può demolire gli angusti limiti di una gabbia imposta. O, meglio, come non le etichette o le gabbie debbano qualificare i romanzi, ma il peso della scrittura, della preparazione di un autore e la sua creatività.
Una citazione di merito va in fine ai tipi della Del Vecchio che rilascia il romanzo in una edizione semplice e curata (di questi tempi è un plusvalore), arricchita da un generosissimo apparato di note che favorisce l’inquadramento della storia.