di Emanuele Manco
Monsieur Lazhar (Bachir Lazhar, Canada 2011) di Philippe Falardeau
Monsieur Lazhar è un film dalle diverse anime.
In una scuola elementare di Montreal una maestra si suicida impiccandosi a una trave dell’aula dove insegna. A scoprire il corpo è proprio uno degli alunni, Simon.
Mentre la scuola e i genitori non sanno ancora come affrontare le ricaduta dell’evento sui bambini, urge la necessità di un nuovo insegnante. Pertanto alla direttrice dell’Istituto non sembra vero che, dopo tanti rifiuti a ricoprire la scomoda cattedra, le si palesi davanti l’immigrato algerino Bachir Lazhar, che si è presentato di sua spontanea volontà dopo aver letto della notizia sui giornali. Dopo un controllo frettoloso dei suoi titoli, l’insegnante viene subito messo al lavoro.
Le vicende che a questo punto scorrono in parallelo sono la costruzione del rapporto tra Bachir e i ragazzi — in special modo con la “preferita” Alice (che sembra conoscere il segreto del piccolo Simon, collegato al suicidio dell’insegnante) — e il vero motivo per cui l’insegnante si trova in Canada.
E niente è come sembra in apparenza.
Non aspettatevi però melensi stereotipi in nessuna delle direzioni che il film prende. Sul fronte del dramma psicologico gli ottimi dialoghi e la strepitosa interazione tra Fellag (interprete di Bachir) e i piccoli attori pongono la vicenda al di fuori di qualsiasi scorciatoia sentimentalistica e il senso della misura è la cifra stilistica del film.
Tutti gli interessanti spunti di riflessione sono sfruttati con naturalezza ed efficacia e se Monsieur Lazhar all’inizio sembra un film sul lutto, l’argomento diventa in realtà uno spunto per un’indagine su cosa sia la scuola oggi e su come l’eccesso di “politicamente corretto” abbia cambiato — in taluni casi in peggio — la nostra società, rendendo impossibile a un sistema educativo, basato su contatto ed empatia, di assolvere al proprio ruolo. È una questione emblematica, che riguarda la gestione del rapporto tra adulti e bambini. L’insegnante di ginnastica che si lamenta di non poter fare esercizi ginnici degni di questo nome per l’impossibilità dell’interazione fisica rappresenta l’estrema conseguenza di una serie di regole che, seppur nate per tutelare i piccoli dai malintenzionati, hanno trasformato una serie di rapporti stabiliti da millenni.
L’argomento sembra marginale, ma diventa sempre più esplicito durante lo sviluppo della vicenda, quando alcuni dei misteri iniziali vengono svelati.
Non è questo, inoltre, un film solo sull’immigrazione. Bachir è soggetto terzo, che arriva sulla scena di un dramma con uno sguardo e un atteggiamento non coinvolto, ma la sua terzietà non è dovuta all’essere immigrato. La sua storia personale, vissuta parallelamente, lo rende più un catalizzatore del processo di guarigione dalla tragedia, che soggetto attivo. Questo è inevitabile, e uno dei pregi del film è che la storia di Bachir sia narrata rifuggendo da luoghi comuni: l’insegnante non è “buono, bello e bravo” solo per il suo status, ma è un essere umano dotato di pregi e difetti. E Monsieur Lazhar non vuole darci lezioni etiche o di civiltà: la vita vera, vissuta dalle persone vere, fatta di momenti di lavoro, di inviti a cena, di feste, di dialogo, supera in modo pragmatico qualsiasi proclama politico.
Dopo un incipit drammatico e incisivo come una stilettata, il film ha qualche momento di lentezza, specialmente nella parte centrale, ma il finale da soddisfazione allo spettatore. Pur se adattamento di un testo teatrale, la pellicola di Falardeau è cinema in senso compiuto, con efficaci movimenti di macchina, eccellente gestione delle inquadrature e del montaggio, apparentemente invisibile e proprio per questo riuscito. Il risultato è un film che sa raccontare con semplicità uno spaccato di vita e che possiede il raro sapore dell’autenticità.