di Mauro Baldrati
Il rudere della casa colonica, muri panciuti fuori piombo sormontati da travi di legno che ancora reggevano stracci di tetto sfondato, si ergeva come un monumento scaleno nella pianura lombarda. La luce rossa del tramonto scaldava i vecchi mattoni sbrecciati, chiazzati di muffa. Sul pavimento di quella che un tempo doveva essere stata la cucina cumuli di macerie, legname, calcina sbriciolata, polvere, ciuffi d’erba. Topi e piccoli scorpioni erano nascosti negli angoli bui che la notte incombente aveva già ghermito.
La notte. Il freddo umido di marzo stava scendendo sulla campagna fradicia per le recenti piogge. Giovanni “Giova” Nerini era seduto sopra alcune piastrelle impilate, con le ginocchia premute contro il petto. Rabbrividiva. La notte era dentro di lui, il buio dell’anima di chi non riesce a vedere la luce del domani. Non riusciva più a illudersi ormai. “Loro” arrivavano ovunque, come i tentacoli di una enorme piovra. A nulla sarebbe servito viaggiare per strade secondarie, anche se fosse riuscito a passare in Svizzera non avrebbero mai mollato, mai. La caccia procedeva senza sosta, si moltiplicava nei paesi, nelle città, nei commissariati di polizia, dove loro avevano dei militanti o dei simpatizzanti, nelle chiese, nei mercati, nelle fabbriche, nelle scuole, non c’era un solo luogo della società degli umani dove non avessero contatti, interessi, informatori.
La ragazza stava cercando di accendere un fuoco nel camino mezzo crollato. Si muoveva maldestramente, sembrava incapace di organizzare qualunque operazione. D’altra parte cosa ci si poteva aspettare da una punkabestia tossica? Dieci minuti prima aveva trafficato con un cucchiaino, una candela, una siringa. Gli aveva chiesto di stringergli il laccio mentre si faceva un’iniezione. Poi si era messa a ridere, ammesso che si potessero definire risate quelle smorfie e quei ciondolamenti di testa. L’aveva conosciuta per caso in un’area di servizio, dove cercava un passaggio per il confine di stato. Giova inforcava un paio di occhiali scuri con una stanghetta rotta e sulla testa portava un vecchio berretto calcato fino alle orecchie, per sembrare un vagabondo. Infatti era escluso il viaggio in treno, o in autobus. Controllavano tutte le stazioni, e anche l’aeroporto. Avevano occhi e orecchie dappertutto, come un gigantesco radar. Nulla poteva sfuggire alla ragnatela che avevano steso sul territorio.
Lei era arrivata con un decrepita Nissan alle pompe di benzina mentre lui si chinava con discrezione verso gli abitacoli delle auto in transito. Era diretta proprio a Chiasso, ma non si sentiva bene, aveva detto, doveva fare una sosta.
Non si sentiva bene un corno. Era in crisi di astinenza.
La ragazza riuscì ad accendere un fuocherello incerto e tremante, poi venne a sedersi accanto a lui barcollando. I capelli raccolti in treccine colorate ondeggiavano sulle guance, sulle spalle. Forse sarebbe stata carina, se solo si fosse curata il minimo indispensabile. Quelle mani sporche con le unghie nere, quel trucco dozzinale e sfatto, quegli orrendi scarponi sporchi e sformati la rendevano goffa, sgradevole, qualunque fosse il suo vero aspetto.
“Hai freddo?” chiese, con quella cantilena che usava da quando si era bucata.
“Sì” rispose Giova.
“Ma non ce l’hai una giacca pesante?”
“No” tagliò corto Giova. Non aveva avuto il tempo di prenderla. Loro avevano fatto irruzione nel suo appartamento, era riuscito a scappare saltando dal balcone e mettendo fuori combattimento uno dei tipi che vigilavano al piano di sotto. Aveva corso a perdifiato ed era entrato in un palazzo vicino, fuggendo dalle cantine. Avevano preso tutto, i file, le chiavette, certamente si erano portati via anche il computer. Tutto ciò che gli restava era la busta con le due fotografie che custodiva nella tasca interna del giubbotto, stampate su carta comune perché aveva finito quella fotografica.
“Ma che cazzo… ti è successo?” chiese la ragazza, con voce spenta. Dondolava la testa, chiudeva gli occhi poi li riapriva di colpo, trasalendo. Era fusa. Non era neanche in grado di guidare. E lui era esausto, infreddolito, probabilmente aveva anche la febbre.
Maledì il momento in cui gli era venuta quell’idea assurda. Doveva immaginarlo che si stava imbarcando in un’impresa più grande di lui. Ed ora era troppo tardi per tornare indietro. Anche se avesse consegnato le foto non si sarebbero certo fermati. Non avrebbe mai potuto garantire di non averne altre copie. Sapeva che lo avrebbero torturato. Ormai non aveva più nulla da perdere. L’unica soluzione era andare avanti.
La ragazza gli appoggiò la testa su una spalla e una mano su una coscia. Quel tocco caldo, quel piccolo gesto tenero gli provocarono una crisi. Sentì le lacrime che sgorgavano, la gola che sussultava per i singhiozzi. Gli mancavano le forze per resistere, stava male, si sentiva perduto, senza risorse. Quello non era il suo mondo. Era un ragazzo che faceva dei lavoretti saltuari, ogni tanto spacciava qualche stecca di fumo, un sempliciotto che aveva sperato di rimediare qualche migliaio di euro con un piccolo ricatto. Invece aveva smosso un vespaio. L’aveva capito quando era troppo tardi.
“Trànqui, stai trànqui” disse la ragazza, nel suo assurdo gergo da tossica. Sentiva il suo calore, la sua vicinanza. Ne aveva bisogno, perché il suo isolamento lo faceva sentire già morto.
Prese la busta. Al diavolo quelle dannate foto, maledetto il giorno in cui la sua ragazza, ridendo come una matta, gliele aveva mostrate dal telefonino.
“Ma… che cazzo è… ‘sta roba?” disse la ragazza, cercando di tenere aperto l’occhio destro che si chiudeva in continuazione. Giova sospirò Se le veniva un collasso cosa avrebbe fatto? Forse la cosa migliore sarebbe stato abbandonarla al suo destino e prendersi la macchina. Non aveva la patente ma era in grado di guidare un catorcio come quello. Certo l’impresa era molto rischiosa. Se l’avesse fermato la polizia sarebbe stata la fine. Guida senza patente, identificazione, tempo un’ora e loro sarebbero arrivati.
“Ma… chi è questo fuori di testa?” disse la ragazza, con lo sguardo fisso su una delle foto, che ritraeva l’uomo carponi, nudo, con un collare borchiato stretto intorno al collo mentre una ragazza che indossava uno slip di cuoio nero, calze a rete, stivali lucidi con la punta di metallo e un berretto da nazista lo teneva al guinzaglio.
Giova guardò per l’ennesima volta la foto. Era straordinariamente nitida per essere stata scattata con un telefono cellulare, senza flash. Ma la sua ragazza gli aveva detto che durante le orge amavano tenere sempre le luci accese. Prese la seconda foto: l’uomo era in piedi su un cubo, sempre nudo, col pene semieretto, circondato da ragazze con la svastica sulla giarrettiere, alcune col frustino, le braccia distese nel saluto nazista.
“Fuori di zucca completo” disse la ragazza, che aveva la lingua sempre più impastata. “E’… un tuo amico?”
“Macché” disse Giova, e a quelle parole gli venne da ridere.
“E allora… chi cazzo è questo tipo?”
“E’ Matteo Renzi” disse Giova.
“Chi?” riuscì a dire la ragazza, prima di crollare la testa, che ciondolò inerte sul petto.
“Il sindaco di Firenze” disse Giova, consapevole di parlare solo a se stesso. La ragazza ormai era andata. “Le ha scattate la mia fidanzata, che due anni fa era una delle escort invitate alla festa che si è tenuta ad Arcore, nella villa del Presidente del Consiglio. Ufficialmente Renzi è andato dal Premier per parlare di politica, e magari l’hanno anche fatto, poi la serata si è conclusa con un’orgia sado-maso-nazi. Roba esplosiva, ho pensato, questo Renzi era sempre in televisione. Vuoi vedere che ci tiro su qualcosa? Così gli ho chiesto diecimila euro per le foto. Pensa un po’, diecimila, per uno come lui sono spiccioli. Invece il suo partito ha scatenato l’inferno. E come potevo saperlo? Sarebbe nato uno scandalo internazionale, ha detto il negoziatore, la rovina del partito e lo smantellamento del quadro politico che in questo momento regge le sorti del paese. Volevano che gli consegnassi immediatamente il computer, tutto, ma io ho insistito. Avevo bisogno di quei soldi.”
Seguì una lunga pausa. Giova sentiva il fuoco scoppiettare, un cane che abbaiava lontano, le auto in transito sulla statale. Una risata amara gli chiudeva la gola. Credeva di tenerli in pugno, di farla franca. Invece il partito aveva sguinzagliato centinaia di migliaia di militanti sulle sue tracce. A nulla era servito minacciarli di spedirle ai giornali o alle televisioni. Nessuno le avrebbe mai accettate. Il partito aveva stretto un patto d’acciaio con le altre forze politiche, se un direttore le avesse pubblicate sarebbe stato licenziato all’istante. Sapeva di non avere scampo. Volevano la sua testa, gli avrebbero strappato la pelle di dosso per avere le copie che, secondo loro, aveva nascosto da qualche parte. L’ultima speranza era raggiungere Zurigo e consegnarle all’esponente di Wikileaks che risiedeva in quella città. Dopo, la deflagrazione sarebbe stata devastante, e forse si sarebbero dimenticati di lui. Forse.
“Il… partito?” disse la ragazza, come se parlasse nel sonno.
“Sì, il Partito Democratico. Ha una rete capillare di informatori così fitta che non passerebbe neanche uno spillo. Ha sedi in tutte le città, nei quartieri, nei paesi, nelle fabbriche, negli uffici, nei supermercati, nei caselli autostradali, ovunque. In confronto la CIA è un’organizzazione di boy scout. E a guidare la caccia è un mastino senza pietà, un duro, uno che non si ferma davanti a nulla e a nessuno.”
“Un… mastino?” bofonchiò la ragazza.
“Sì, il suo nome è Luciano Violante, il braccio armato del Partito Democratico.”
“Lu… Luciano… come quello stronzo del mio ragazzo… le foto… dove sono… le foto?”
Ormai stava delirando, tra il sonno e la veglia. Sì, era ora di lasciarla. Non si sarebbe neanche accorta della sua partenza. Si sarebbe svegliata il giorno dopo, a pezzi, con la testa pesante come un macigno, e non avrebbe più trovato la sua macchina.
“Buona fortuna, piccola punk drogata” mormorò Giova. “E buona fortuna anche a me.”
La ragazza gemette, gli prese una mano, evidentemente aveva capito. Ma non aveva il pieno controllo dei suoi movimenti, si agitava, si contorceva, gemeva.
“Dove sono le altre foto?”
Giova rise di nuovo, con cinismo, con disperazione. Non li avrebbe mai convinti, mai.
Rise, prima di rendersi conto della stranezza di quella domanda. E della sua voce, che d’un tratto era cambiata. Si girò di scatto per guardarla, mentre il suo cuore sembrò fermarsi nel petto. Due occhi duri, vigili, erano puntati nei suoi. E qualcosa di freddo era a contatto con la sua gola. La lama di un coltello.
“Se ti muovi ti sgozzo come un maiale” disse la ragazza, con voce tagliente. Nessuna traccia della cantilena di prima, della lingua impastata. I gesti erano sicuri ora, bruschi, energici. “Venite, ragazzi!” gridò rivolta verso il varco della portone, col battente di legno marcio che pendeva da un cardine.
Entrarono alcuni uomini con le torce elettriche. In un secondo lo circondarono. Le luci delle torce sciabolavano nella notte, si abbattevano sulla sua faccia, lo abbagliavano.
I militanti del Partito Democratico. Tutto era perduto.
Un uomo alto si piazzò di fronte a loro, gli puntò la luce in faccia.
“Brava Deborah” disse.
“E’ proprio un idiota” disse la ragazza, sprezzante. “Non si è accorto che mi sono iniettata dell’acqua distillata. Se questo coglione mi avesse osservata avrebbe notato che le mie pupille sono normali, non le capocchie di spillo di una tossica.”
Giova era senza parole, coi pensieri e i gesti bloccati. La fine di tutto, che era piombata su di lui all’improvviso, lo aveva paralizzato, come il veleno di un cobra.
“Chiama Luciano” disse l’uomo rivolto a un militante alla sua destra, “digli che l’abbiamo preso, grazie a Deborah”. L’altro si allontanò, con un cellulare appoggiato all’orecchio. “Allora, ci sono altre foto oltre a queste?” soggiunse l’uomo.
“Credo proprio di sì” rispose la ragazza. “Ha esitato quando gliel’ho chiesto. Sicuramente le nasconde da qualche parte.”
“Ora ci dirai dove” sibilò l’uomo. A tratti vedeva la sua faccia, illuminata dalle torce. Conosceva quella faccia, l’aveva vista in televisione. Era una faccia che non si dimenticava: testa pelata, una corta barba nera che partiva dalle basette, occhi piccoli. “Lo vedi questo?” disse, mostrandogli un bastone che teneva in mano. Sembrava il troncone di un manico di scopa. L’uomo lo illuminò con la torcia. Giova rabbrividì, sentì il sangue che fuggiva via dalla testa quando vide i chiodi che sporgevano come spine dalla superficie del legno. “Lo sai dove te lo infileremo questo? Lo sai?” ringhiò l’uomo, mimando lo sfregamento del bastone tra le dita dell’altra mano. “Vedrai come scorre bene. Lo sentirai, dentro di te, sarà interessante. Mi dirai tutto, te lo assicuro, piccolo bastardo.”
La ragazza sghignazzò. Anche i militanti del Partito Democratico sghignazzarono.
Sì, conosceva quella faccia. Era un deputato, uno di quei predicatori televisivi onnipresenti nei talk show.
Proprio lui, Fausto Rimondi, onorevole e membro della direzione nazionale, sarebbe stato il suo carnefice.
Le vicende qui narrate sono finzioni letterarie. In esse compaiono nomi e circostanze reali in qualità di pure occasioni narrative. I nomi di personaggi del mondo della politica vengono usati soltanto ai fini di denotare figure, immagini e sostanze dei sogni collettivi che sono stati formulati intorno ad essi, e si riferiscono quindi a un ambito mitologico che non ha nulla a che vedere con informazioni o opinioni circa la verità storica effettiva degli avvenimenti o delle persone su cui questo racconto elabora una pura fantasia.