di Irene Incarico

Spiritidellacqua.jpg[Il presente racconto è da poco apparso in un volume collettaneo dal titolo Spiriti dell’acqua. Quindici racconti ispirati alla magia del mondo sommerso, Delmiglio Editore, Verona 2012, presentato lo scorso 20 luglio alle Antiche Terme di Giunone di Caldiero.]

sognando, correvo / in un campo di grano
il cemento invece / brilla, buio
ovunque vada / le lampade al sodio
sembrano stelle / con cui non puoi
orientare il cuore.

IL TEATRO DEGLI ORRORI, Rivendico

Stavo scappando da quasi dieci ore quando mi sono ritrovato a Caldiero.
Se non siete mai stati inseguiti dalla policija della Repubblica Federale dell’Est, non credo che possiate avere idea di cosa significhi veramente scappare.
E per di più, quando sono arrivato al confine, ho scoperto subito che non era servito a niente.
Il Veneto e la Confederazione dovevano aver fatto qualche accordo con gli Slavi. I bastardi del Centro di Sicurezza erano già lì ad aspettarmi, pronti a prendermi. Li vedevo chiari e limpidi sul display del mio Novat. Nemmeno tre chilometri di distanza. Armati.
‘Fanculo gridai, solo, nell’abitacolo.
Mi restavano solo due possibilità: cercare di arrivare a Venezia oppure tornare indietro, verso Nord, e puntare al Tarvisio. Essendo quasi impossibili entrambe, presi per buona la prima e continuai a scappare.


Abbandonai la macchina in una piazzola della vecchia A4, subito oltre Verona, vicino a un posto che si chiama San Pietro Tre, o qualcosa del genere. L’avrebbero localizzata subito, ne ero più che sicuro, ma non avevo tempo per i dettagli. Se volevo anche solo provare ad arrivare a Venezia, non potevo perdere tempo. Né continuare a viaggiare su una Fiat sgangherata di quarant’anni prima, segnalata agli agenti di entrambe le federazioni. Venezia, una delle ultime città-stato fuori dalla giurisdizione del Nord, e apertamente ostile all’Est, era a prova di estradizione. In pratica, se ci fossi arrivato, la fuga sarebbe finita. Finita una volta per tutte.

Una Fiat, ho detto. Come diavolo mi fosse venuto in mente di rubare quel rottame, non riuscivo a capirlo allora e continuo a chiedermelo ancora adesso. Forse perché macchine del genere, in arrivo dall’Est, erano molto comuni e davano poco nell’occhio. Fabbricate in Italia per una clientela mediocre — quando l’Italia come nazione esisteva ancora, si intende — venivano rivendute all’Est vent’anni dopo, ad ancor più mediocri acquirenti. E poi facevano ritorno al paese natio altri dieci anni più tardi, guidate da qualche disperato come me, quando erano ormai appena in grado di mettersi in moto. Tornavano a morire in patria, si potrebbe dire.
A questo stavo pensando, mentre scivolavo tra la spazzatura del terrapieno a lato dell’autostrada. Un nastro di asfalto crepato e rappezzato a colate di catrame, una strada in mezzo al niente. Mi immaginavo come poteva essere stata l’Italia di quei tempi, quando la gente viveva ancora nei paesi, quando non c’era la Confederazione, quando non era ancora arrivata la Sindrome. Quando tutti si lamentavano del terzo governo tecnico e non immaginavano che i guai veri dovevano ancora arrivare. Il trattato di Strasburgo, firmato in piena notte dalle quattro potenze europee. La guerra lampo con l’Est, e i cosiddetti stati belligeranti consegnati in mano agli stronzi della Commissione. Per non parlare del gran finale: Italia, Grecia, Albania e territori dell’ex-Jugoslavia fatti a pezzi e scambiati come le caselle di quel vecchio, stupido gioco. Quello con Vicolo Corto e Parco della Vittoria.
Un gran miscuglio di storia, ipotesi e incazzature mi ribolliva in testa, mentre correvo via da quello schifo di auto rubata, col respiro come un sibilo nelle orecchie, e tutti i casini che avevo fatto a Batajnica che mi scorrevano davanti agli occhi come vecchie pellicole. Casini seri, stavolta. E non c’era verso di patteggiare.

Stavo scappando da quasi dieci ore quando mi sono ritrovato a Caldiero. Questo l’ho già detto, ma è complicato tenere tutti i pensieri a posto, con quello che c’è stato dopo.
Ci sono arrivato per caso, seguendo i cartelli azzurri dei centri abitati, ormai ridotti a paesi fantasma. Stava scendendo la sera e le uniche fonti di luce in quel mare piatto di buio uniforme venivano dalla direzione di Caldiero. Le ho seguite. Solo più tardi ho scoperto che erano vecchi lampioni alimentati da pannelli solari, ad accensione automatica. Luci accese da nessuno, per nessuno. Luci spioventi su case sfitte, palazzi vuoti e strade sbarrate.

Mi ritrovai solo, spaventato, immobile in mezzo a quella regionale 11 su cui crescevano folti ciuffi d’erba e pallidi fiori biancastri. Un vecchio cartello rugginoso recitava: Via Vicenza. Mi fermai a guardarlo, preda di uno sgomento in cui si mescolavano, nell’ordine, desiderio di pisciare e voglia di piangere. Esaudii il primo e cercai di combattere ferocemente la seconda.
Guardai verso destra e intravidi solo altri edifici neri, muti e deserti. Il primo posto, il più scontato, in cui gli agenti sarebbero venuti a cercarmi. Mi voltai a sinistra, e consultai il mio Novat per cercare di capire qualcosa in quelle stupide tenebre. Ma non funzionava più. Nero. Muto.
Provai ad accendere e spegnere in rapida successione. Nulla. Inserii una batteria di scorta. Ancora nulla. ‘Fanculo, sbottai di nuovo, sempre da solo, contro il buio.
Lasciai vagare lo sguardo sulla campagna nera, sentendomi ancora più solo. Alberi contorti e cespugli. Una luna crescente che saliva con la rapidità di un conato di vomito. E nient’altro.
Nel silenzio profondo, l’accenno di un motore lontano. Voci. Squilli di telefono.
Arrivano, cazzo! Presi verso sinistra, senza starci a pensare, e ricominciai a correre.

Stavo scappando da più di dieci ore quando mi sono ritrovato in quel posto. Lo chiamo così perché una parola non ce l’avevo, sul momento, per definirlo. E ancora oggi non ne ho trovata una veramente adatta.
Non mi ricordo come ho fatto a entrarci, ma in qualche modo devo aver saltato il muro di cinta. C’erano avvisi di rischio biologico, tariffari, orari, sigilli dell’Ufficio d’Igiene e vecchi cartelli turistici, attaccati gli uni sopra gli altri, in un’accozzaglia minacciosa e nostalgica che aveva quasi un che di artistico.
Il posto, nella scarsa luce della luna, faceva quasi paura. Sembrava uno di quei giardini all’inglese, un po’ incolti e misteriosi, in cui qualcuno con uno strano senso dell’umorismo si fosse divertito a piazzare delle vasche da centrale elettrica.
Acqua e vegetazione, terra e piastrelle, muffa e marmi, tutto era mescolato in un bianco e nero fumoso e indefinibile. Il risultato dava l’impressione di qualcosa che doveva essere stato moderno, qualche decennio o anche qualche secolo prima, ma che era finito preda di foglie e rami, fango e radici, di una natura strisciante e umida che si era riappropriata di ciò che l’uomo le aveva sottratto.

Camminai piano, tenendo gli occhi fissi a terra, cercando per l’ennesima volta di rianimare il mio Novat fuori uso. Un cartello coperto di rampicanti e viscido di guazza calda mi si parò davanti, diceva solo: Brentella. Alzai gli occhi e mi accorsi di trovarmi dentro una specie di enorme cilindro bianco. Davanti a me, un cerchio perfetto di acqua spandeva nebbia sottile e rifletteva la luna ormai alta. Non poteva essere la vasca di una centrale, no. Nemmeno una piscina. Mi inginocchiai, tesi la mano: l’acqua era tiepida, la pietra bagnata era tiepida, anche l’aria sembrava di colpo tiepida.
Il mio Novat diede un fuggevole lampo verdognolo, poi si spense definitivamente. Io mi sdraiai sul bordo della vasca e, altrettanto di colpo, mi addormentai.

Mi svegliai in un altro posto ancora. Al chiuso. Uno stanzone. Caldo, odore di panni bagnati, rumori di fondo. Candele e lampadine nude. Statue accatastate, prive di naso e braccia. Catini pieni di stoffe fradice. Un vecchio portatile attaccato ad un’antenna analogica, che vomitava un notiziario a basso volume. Un grammofono e un telaio a mano in un angolo. Una cucina economica sibilante, col fuoco acceso sotto un bricco smaltato bianco e blu.
In fondo, dietro un tavolo su cui si ammucchiavano elettrodomestici sventrati e stracci da rammendare, c’era una donna. Sui cinquant’anni. Portati male. Poteva essere mia madre. Aveva addosso una felpa fuori moda e teneva in mano il mio Novat, smontato. Ci stava armeggiando su con due cacciaviti sottilissimi e un cavo che pendeva fuori da una batteria per auto.
«Dove siamo? Chi sei? Cosa cazzo stai facendo col mio…».
La donna ghignò, scoprendo una fila di denti un po’ irregolari e mettendo fine senza parole alla mia raffica di domande.
«Terme di Giunone.» decretò «Per tutto il resto, non ti troveranno e arriverai a Venezia».
Ammutolii, senza sapere cosa ribattere.
«Saresti tu, Giunone?» balbettai. Non mi resi nemmeno conto di quanto suonasse ridicolo.
Lei invece sorrise, scoprendo di nuovo quei suoi denti un po’ storti.
«In un certo senso».
Indicò il fornello con un cenno del mento. «Il latte è quasi pronto».
Mi alzai, totalmente incredulo e meno indolenzito di come immaginavo. Quasi inciampai su un intreccio di rami e foglie. Sembravano piante selvatiche e grondavano una linfa biancastra.
«Ma tu vivi qui?» le chiesi, continuando con la mia ironia involontaria. Ero troppo turbato e affascinato dall’assurdità di quel posto per trovare qualcosa di logico da dire.
«Da sempre» borbottò lei. Poi mi porse il mio Novat riassemblato, decretando: «Funziona».
Mentre la donna si affaccendava intorno a quella preistorica cucina, la TV passò una mia fotografia, con un commento in tre lingue diverse. La donna prese una specie di telecomando rappezzato col nastro isolante e guardandomi di sottecchi cambiò canale. Mi allungò una tazza un po’ sbeccata, piena di latte bollente e disse ancora: «Arriverai a Venezia».

«Negli anni Trenta, questi del Duemila, hanno chiuso le terme». Mentre io bevevo, lei cominciò il suo racconto. «Sono stati i servizi sanitari, per la Sindrome. Era già successo, comunque, sempre negli anni Trenta, ma quelli del Seicento. Allora era stata la peste. E prima ancora, altri trecento anni indietro, era stata la Chiesa. Nihil sub sole novum. Però la gente non ha mai abbandonato questo posto e non lo farà mai del tutto. Sono sempre tornati. Per curarsi. O anche solo per macerare il lino nelle vasche. E per il resto».
La donna parlava lentamente, raccontava le alterne fortune e sfortune del luogo, come se fosse stata presente ad ogni cosa. Parlava di ville, medici antichi, frati e marchesi. E poi commentava la mia storia, nei dettagli, come se fosse stata anche lì, a Batajinca.
Ogni cosa, dentro di me, si confondeva sempre di più. Nel vapore caldo del latte, nel chiacchiericcio della TV, nell’odore di quella stanza: un misto di panni tiepidi, foglie umide e polvere.
Mentre bevevo, ogni paura mi abbandonava. Quel posto mi diventava familiare. Ogni singolo oggetto assumeva un nome e una logica perfetta, ovvia. Caprifico, pensai di colpo, guardando le foglie intrecciate che giacevano a terra, senza sapere da dove venisse quella parola.
Avevo voglia, avevo bisogno di fare domande, ma la donna non me ne diede il tempo. Ammiccò, nella luce mobile della televisione, e mi sembrò di colpo molto più giovane di come mi era apparsa appena sveglio. Forse era uno scherzo della luce bassa.
«Vieni», sussurrò, «Andiamo a fare il bagno».

Abbandonai la tazza e in pochi passi ci ritrovammo fuori da quel posto, all’aperto. La foschia biancastra che si levava dall’acqua rendeva strane le distanze e già dopo pochi passi non riuscivo più a capire dove fosse l’edificio in cui mi ero svegliato e da cui eravamo appena usciti. Solo la grande vasca che avevo già visto era chiara, inconfutabile e riconoscibile davanti a me. Una circonferenza liquida, bianca, lunare. Quasi sepolcrale.
La donna si sfilò la vecchia felpa e sciolse i capelli. Era davvero molto più giovane di quanto avevo pensato all’inizio. Poteva avere trent’anni. Mi si parò davanti nuda, con i seni grandi e lucidi, pallidi come il marmo. Dai capezzoli colavano sottili rivoli bianchi.
«Vieni», ripeté.
Scesi nell’acqua tiepida con lei. Il nero del cielo e il bianco del vapore offuscarono tutto il resto.

Mi risvegliai, per la seconda volta, stavolta sul bordo della vasca. Solitudine, stanchezza, paura, tutto era svanito. Era giorno pieno, gli uccelli cantavano, il cielo era piatto e azzurro, il luogo del tutto abbandonato e deserto.
Intravidi subito un edificio dall’altro lato dell’acqua, e senza nemmeno pensarci, mi alzai e presi in quella direzione.
La porta era rotta, socchiusa. C’erano i soliti fogli dell’ufficio d’igiene, staccati e buttati per terra. Una biglietteria chiusa, un ufficio vuoto. Niente più stoffe, cucina, aggeggi di alcun tipo. Nulla di ciò che avevo visto durante quella specie di sogno, o di allucinazione, o qualsiasi altra cosa potesse essere stata.
Mi aggirai senza capire, ponendomi molte domande stupide, che restarono tutte senza risposta.
Quando già stavo per tornare indietro, una sagoma coperta da un telo attirò la mia attenzione. Era in un angolo, in mezzo alla spazzatura. La scoprii con uno strattone, sollevando polvere umida, e muffa. Non era una statua di marmo, solo una brutta e dozzinale copia di gesso. Ma era lei.
Niente felpa, niente bricco del latte, niente seni materni. Una pettinatura antica e un folto panneggio. Ma il viso era il suo, della donna del sogno.
Il mio Novat, in quel preciso momento, si mise a vibrare. Rilevamenti nel raggio di cinquecento metri. Rifunzionava, perfettamente.
Corsi fuori, attraversando le stanze al volo, colpito più dalla paura di quello che stavo ipotizzando che dall’idea degli agenti in avvicinamento.
Colsi solo di sfuggita, con la coda dell’occhio, le foglie del caprifico, fresche, disposte per terra, tra le chiazze di umidità e i vecchi giornali. Colsi solo per un attimo la verità.
E in quel momento seppi che sì, sarei arrivato a Venezia.