di Franco Ricciardiello
“Alphaville”, con cui Jean-Luc Godard vince d’Oro al festival di Berlino 1965, è un film crepuscolare, un gioco di forme plastiche immerse in un alone di luce lunare; un bianco e nero fortemente contrastato, una sfida alle tenebre, volti e forme scolpite da una luce incidente, effetti fortemente voluti e straordinariamente ottenuti. In Italia viene distribuito con il titolo “Agente Lemmy Caution, missione Alphaville.” Malgrado la trama piuttosto banale, con soluzioni addirittura naïf, l’estetica del film è estremamente curata, il risultato di una attenta ricerca sulle tecniche del suono e dell’immagine che con il tempo trasforma “Alphaville” in un cult malgrado le contestazioni dei puristi al Festival del Film di Fantascienza di Trieste (dove vinse il primo premio).
Non è la prima volta che Godard sconfina nella fantascienza (l’aveva già fatto con il corto “Le Nouveau Monde” inserito nel film collettivo RoGoPaG (ROssellini/GOdard/PAsolini/Gregoretti), e come allora rinuncia a effetti speciali e scenografie elaborate. Il suo modello sono i film di serie B che andava a vedere dieci anni prima insieme a un altro cinefilo, François Truffaut, e che entrambi preferivano alle riduzioni cinematografiche della “Qualité Française”. Non a caso il protagonista di Alphaville è l’attore americano Eddie Constantine, divenuto famoso in Francia per le trasposizioni dei romanzi della serie Lemmy Caution scritti dall’inglese Peter Cheyney (10 volumi pubblicati tra il ’35 e il ’45). Il produttore cinematografico André Michelin, figlio dell’industriale dei pneumatici, vorrebbe rilanciare Constantine con una nuova avventura di Lemmy Caution; l’attore, che presagisce il viale del tramonto, cerca il riscatto con una pellicola d’autore e pensa a Godard, che l’ha già diretto in “La Pigrizia”, un cortometraggio inserito nel film collettivo “I sette peccati capitali.”
La fantascienza gode di un momento di fortuna in Francia, Truffaut ha messo in cantiere una grossa produzione internazionale, la trasposizione del romanzo “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury che girerà l’anno seguente; ma nelle mani di Godard, i soggetti si trasformano sempre in maniera imprevedibile. Invece di costruire una scenografia di fantascienza, il regista preferisce cercare il futuro nell’architettura contemporanea: Parigi contiene già in sé Alphaville. Le riprese in esterni sfruttano edifici e luoghi che nella città del presente rappresentano per Godard l’idea di un mondo futuro, e non sono pochi in questa capitale che negli anni Sessanta aggiorna la sua architettura: i grattacieli della Défense in via di costruzione (in particolare quello della Esso), l’Union Bancaire dell’avenue Kleber, un tratto del lungosenna nel XVI Arrondissement con la Maison de la Radio appena inaugurata, il palazzo della Bull Engineering nel XX. Le condizioni di lavoro sono pessime: si gira quasi sempre di notte tra gennaio e febbraio 1965, uno degli inverni più rigidi del dopoguerra, sotto la pioggia e persino la neve; un conflitto sindacale oppone quasi subito le maestranze al produttore, che non vorrebbe pagare gli straordinari ma cede di fronte alla minaccia di uno sciopero. Altro motivo di turbamento è il fatto che accanto a Eddie Constantine, Godard sceglie come protagonista femminile Anna Karina, l’attrice franco-danese dalla quale ha appena divorziato.
La trama del film si discosta parecchio dal soggetto presentato per ottenere il finanziamento di 220.000 dollari. Nelle prime scene, l’agente segreto Lemmy Caution arriva sul pianeta Alphaville per rintracciare il suo predecessore Dick Tracy, che non da più notizie; deve inoltre riportare sulla terra il professor Leonard Nosferatu, l’ideatore del supercomputer Alpha 60 che regola ogni aspetto della vita in questa società tecnocratica; Nosferatu in realtà è un ricercato terrestre di nome von Braun. Lemmy si scontra subito con l’iper-razionale Alphaville, dove ogni emozione viene bandita: nell’hotel dov’è alloggiato viene avvicinato da una “seduttrice di terza classe”, Natacha von Braun (Anna Karina), che è naturalmente la figlia del professore. La giovane prostituta non conosce neppure il significato della parola Amore perché determinati vocaboli sono soppressi, come nel Newspeech di George Orwell. Lemmy rintraccia Dick Tracy in un lurido alberghetto; divenuto un emarginato della società del futuro, il collega fa in tempo a consegnargli un libro di morire di infarto: la sua eredità è il volume di poesie “Capitale de la Douleur” di Paul Éluard.
Come tutti gli stranieri, Lemmy deve registrarsi e farsi interrogare da Alpha 60, che è disturbato dalle sue risposte poco ortodosse. Il supercomputer è una delle invenzioni migliori del film: la sua voce impura, rauca al limite dell’esibizione del dolore (che potrebbe avere influenzato la voce di HAL in “2001 Odissea nello Spazio”) non è il risultato di un’elaborazione sintetica: il doppiatore di è un uomo in carne e ossa le cui corde vocali sono rimaste lesionate per una ferita di guerra, e per questo (nell’originale francese) riesce a trasmettere un’angoscia che è la colonna sonora di un mondo sottoposto a un controllo disumano. Purtroppo l’effetto si perde in parte con il doppiaggio italiano, come pure l’accento esotico di Natacha, che è il francese straniero della danese Anna Karina.
Natacha è turbata dai tentativi di risvegliare la sua emotività con la lettura delle poesie di Éluard, vorrebbe assecondarli ma non riesce neppure a afferrare cosa siano i sentimenti. Lemmy le chiede di fargli incontrare il padre, lei lo accompagna a un crudele spettacolo a metà tra l’evoluzione ginnica e l’esecuzione capitale, altra toccante invenzione del film: atlete in costume da bagno si tuffano in una piscina e vi compiono evoluzioni di danza; contemporaneamente, uomini condannati a morte salgono sul trampolino e vengono fucilati per comportamento irrazionale; uno per uno sfilano e proclamano i propri sentimenti prima di essere abbattuti e precipitare in acqua accanto alle danzatrici. Godard vorrebbe anche un cameo, con la partecipazione di Roland Barthes che dovrebbe apparire in una scena ambientata in un “Istituto di semantica generale” sotto la supervisione di Alpha 60, ma i tempi di lavorazione non coincidono con gli impegni del linguista e non se ne fa nulla. Improvvisamente lo status quo va in pezzi: Alphaville dichiara la guerra ai Pianeti Esterni, il computer si appresta a dirigere le ostilità; ma Lemmy Caution penetra nell’ufficio del professor Nosferatu e riesce a ucciderlo. Alpha 60 impazzisce, senza la sua guida onnipresente gli abitanti della città/pianeta sono disorientati, la società si disintegra. Lemmy riesce a salvarsi e porta Natacha con sé, fuggono da Alphaville per tornare sulla Terra (in automobile, naturalmente). Venuto meno l’opprimente controllo mentale, Natacha riesce finalmente a dire “Ti Amo”.
Il film vince l’Orso, il successo nelle sale ripaga i costi di produzione. Godard è uno sperimentatore di nuove vie e nuove tecnologie; in questo film gioca su una serie di conflitti audio/video: le linee geometriche degli edifici, le composizioni astratte di forme, luce e ombra, gli inserti di scritte al neon che lampeggiano nella notte, i primi piani alla Ingmar Bergman, l’inquietante voce off di Alpha 60 che accompagna quasi tutta la pellicola. La scena dell’interrogatorio è un alternarsi di suono e immagine, lampadine che si accendono e spengono con le domande di Alpha 60; tutto il film è giocato sulla luce, con ombre che variano in continuazione, spie che ammiccano dai quadranti dei vecchi computer, scritte luminose, il flash a bulbo della ridicola fotocamera usa-e-getta di Lemmy Caution. Godard utilizza una pellicola molto sensibile, la Ilford HPS già impiegata per le scene notturne in “À bout de soufflé”; il direttore della fotografia Raoul Coutard è pessimista e con ragione, alla fine se ne dovranno gettare via almeno 3 mila metri inutilizzabili — ma il materiale che rimane è esattamente quello che il regista vuole. Godard ha esaminato alla Biennale di Parigi il lavoro del GRAV (Gruppo di ricerca d’arte visuale), la cui filosofia — tratta da un manifesto di Julio Le Parc — sembra un precetto dell’Internazionale Situazionista: “Guerriglia culturale contro lo stato attuale delle cose: combattere tutto ciò che accresce lo stato di dipendenza, di apatia, di passività legato alle abitudini, ai criteri stabiliti, ai miti e agli schemi mentali nati da un condizionamento complice delle strutture del potere.” L’estetica di Alphaville è già in nuce negli esperimenti di “arte cinetica” del GRAV: indicazioni luminose, lampi al neon, tutto un ammiccare alla segnaletica urbana della città nuova, la città del futuro. Parigi è già Alphaville.
Come se non bastasse, Godard si documenta con cura sullo stato dell’arte dell’intelligenza artificiale; il produttore Michelin lo mette in contatto con la Bull, la multinazionale francese d’informatica, per visionare l’ultima generazione di computer. Tuttavia, non è nella fantascienza tecnofila che “Alphaville” trova ispirazione, ma nel bizzarro e luddista “La France contre les Robots” (1947), saggio dello scrittore George Bernanos, l’autore de “I grandi cimiteri sotto la luna”. Durante la guerra, esiliato in Brasile, Bernanos immagina un mondo futuro spartito fra tre “democrazie moderne” che assomigliano sinistramente alle tre potenze perpetuamente in guerra del successivo 1984 di Orwell, Eurasia, Estasia e Oceania (pubblicato nel 1949); le “democrazie” di Bernanos in realtà sono vere e proprie dittature tecnologiche, stati “socialisti” dominati dal culto della scienza: l’Impero Inglese, la Plutocrazia Americana e l’Impero Sovietico. “Parigi-Marsiglia in un quarto d’ora, formidabile! Perché i vostri figli e le vostre figlie possono crepare, il grande problema da risolvere sarà sempre il trasporto della carne fresca alla velocità della luce.” Per Bernanos solo la Francia, con la sua cultura e con i principi della Rivoluzione, è in grado di opporsi agli Stati-Robot. Alphaville a prima vista è la visualizzazione di questo “paradiso dei robot” di indubbio gusto kitsch. A chi domanda spiegazioni su questa scelta così poco cinematografica, Godard risponde: “Non ho voluto immaginare la società dell’Avvenire, come Wells. Al contrario, io racconto la storia di un uomo di vent’anni fa che scopre il mondo di oggi e se ne stupisce, o, se preferite, la storia di un uomo del tempo del Fronte Popolare che arriva nell’epoca del gaullismo.”
Per Eddie Constantine, il film significa l’ingresso nel pantheon del Cinema. Oggi “Alphaville” si identifica con il suo volto butterato e con i primi piani di Anna Karina — e non è un caso che sia lei, l’ex moglie, a impersonare Natacha von Braun. Mai più Anna Karina apparirà così bella sullo schermo: diafana, angelica malgrado il mestiere di “seduttrice”, in questa luce nebbiosa, lunare, gli occhi sottolineati da un filo di nero carbone all’interno delle palpebre, perché Godard ha chiesto alla truccatrice Jacky Reynal di farla somigliare a una diva del muto, “come quelle attrici nordiche che recitavano con il proprio corpo”. È il ricordo di “Sommaren med Monika”, il film di Ingmar Bergman che nel ’58 gli ha fatto capire come il Cinema sia un’arte solitaria e non un mestiere di squadra: il suo bianconero ideale sono le spalle nude di Harriet Andersson che assorbono il sole dell’arcipelago di Stoccolma, la sensualità sulla pellicola, la libertà di rivendicare i propri desideri (il titolo italiano è “Monica e il desiderio”), tutto trasfuso nell’immagine di Anna Karina/Natacha von Braun.
E, in ultima istanza, il ruolo che Godard assegna alla ex-moglie è simbolico: la donna che non sa più dire “Ti Amo”, o che non può più dirlo. Invece, un messaggio criptato per Anna è “Capitale de la Douleur”, il libro che Lemmy Caution riceve dall’agente che l’ha preceduto: la raccolta di poesie di Paul Éluard scritta al tempi della separazione dalla moglie Elena Djakonova, la storia del suo amore struggente per questa donna russa che lui ribattezzerà Gala, e che lo tradirà con Max Ernst e poi divorzierà dal lui per diventare la musa, la modella e la moglie di Salvador Dalí — proprio lei, Gala, il volto di “Leda atomica” regalato per sempre all’arte. Perché “Alphaville” è la storia di un amore, di due amori che muoiono, Gala/Paul e Anna/Jean-Luc, la Capitale del Dolore è la città dove non si conosce il significato della parola Amore, dove non può risuonare il canto di dolore del poeta: La curva dei tuoi occhi gira intorno al mio cuore, / un cerchio di danza e dolcezza, / aureola del tempo, culla notturna, sicura / e se non so più tutto ciò che ho vissuto / è perché i tuoi occhi non mi hanno visto ogni momento. / Foglie di giorno e spuma di rugiada, / canne di vento, sorrisi profumati, / ali che coprono di luce il mondo, / battelli carichi di cielo e di mare, / cacciatori di scandali e fonti di colore. / Profumi in fiore di una nidiata di aurore / che giace sempre sulla paglia degli astri, / come il giorno dipende dall’innocenza / il mondo intero dipende dai tuoi occhi puri / e il tuo sangue cola nei loro sguardi