Appunti di storia siderurgico-mineraria, con finale horror
di Alberto Prunetti
[In coincidenza con l’acclarata pericolosità del lavoro siderurgico e con la ribadita nocività degli impianti industriali, salite entrambe alla ribalta (forse troppo fugacemente) con la notizia del sequestro dell’Ilva di Taranto, pubblico un estratto da un mio manoscritto che sarà pubblicato a novembre da Agenzia X con il titolo di “Amianto, una biografia operaia”] A.P.
Andavo all’Ilva già a sette anni. No, niente lavoro minorile.
Ascoltate questa storia.
Centocinquanta anni fa a Follonica ─ toponimo che si può far risalire alle arti industriali, cioè a una tintoria o a un generico opificio, secondo la voce latina fullona ─ c’erano solo dei forni fusori dei metalli estratti nelle Colline Metallifere (inclusa ovviamente l’ematite elbana) e un molo che si allungava dalla spiaggia per lo scarico del minerale e il carico dei bandoni d’acciaio. Era insomma una città-fabbrica murata con un portone monumentale in ghisa, una chiesa anch’essa in ghisa per il ricovero spirituale degli operai e una strada, via Roma, che conduceva fino al molo per il carico e lo scarico del materiale. Fuori dalla fabbrica c’era un mulino, qualche capanna di pescatori a Senzuno, la zona più povera dove abitava chi non aveva neanche un quattrino, poi un paio di abitazioni signorili in muratura e il castello di Valli. Qui si fondevano metalli da sempre, anche se all’epoca del Granduca di Toscana la produzione si fermava d’estate perché gli operai morivano di malaria: era la cosiddetta “estatura”. Prima del dominio dei granduchi sulle sponde del Golfo di Follonica si fondevano metalli già nel Medioevo e prima ancora lo facevano gli etruschi, che fondevano l’ematite dell’isola d’Elba, che appunto in latino si chiamava Ilva.
Quando ero piccolo ricordo che dentro alle nostre fionde mettevamo i loppi, avanzi di attività siderurgica forse di età etrusca dall’aspetto di pezzi di carbone combusti e vetrificati, probabilmente lavorati nei semplici forni fusori che gli archeologi hanno rinvenuto nei campi circostanti l’abitato. Ricordo ancora le gare in bicicletta da cross sulle collinette nere di loppi, proprio dietro casa mia, le uniche che sopravvissero alla successiva rifusione durante la Seconda Guerra Mondiale, quando serviva acciaio anche di bassa qualità per la guerra e le bombe: su quei loppi, ottimi nella fionda perché vetrificati e quindi taglienti (e su quella terra bruna, di provenienza industriale, estremamente nociva anche se classificata come inerte) le gomme della mia bianchina e poi della nuova bici da cross arancione si lacerarono più di una volta. E si ferirono anche le mie ginocchia.
Quando la produzione aumenta, ai primi del Novecento, diventa difficile imbarcare il metallo per commerciarlo nei moli follonichesi dove i fondali sono bassissimi e pertanto si ricostruiscono gli altiforni a Piombino. Gli edifici dell’Ilva follonichese cominciano a crollare, qualcuno viene occupato da chi non ha un tetto, molti rimangono abbandonati, qualche altro finisce per ospitare le scuole e la biblioteca comunale. Così dov’è che ho fatto le scuole medie? Nei locali dell’ex-Ilva. E in biblioteca andavo all’ex-Ilva, a studiare i minerali e la storia, che dalle mie parti non era storia di personaggi illustri ma storia di minerali, di rame e di pirite, di lignite e di ematite. E per arrivarci, in questa scuola mineraria, dovevo passare davanti a una chiesa costruita in ghisa e quando non avevo voglia di studiare andavo a giocare a pallone in un campo di calcio col fondo in asfalto, che era il campetto dell’Ilva, e non era un campo ma appunto un pezzo d’asfalto che quando cascavi a terra ti grattugiavi la pelle.
Quando ero piccolo e la maestra mi chiedeva che lavoro faceva mio padre, io imparai presto a dire “tubista”, anche se non capivo cosa volesse dire. Poi mi arrivò un’altra spiegazione. “Metalmeccanico”, e questo lo capivo meglio, perché sembrava simile a meccanico, ma un po’ più corazzato. Non mi sentivo affatto sminuito dall’essere un figlio di un operaio, perché a scuola, alle elementari e poi anche alle medie, eravamo tutti figli di operai (almeno nella mia sezione: c’erano tre sezioni a scuola, in una andavano i figli dei professionisti, nell’altra quelli degli operai e nella terza i figli dei contadini e i bocciati della classe degli operai). I babbi dei miei compagni di classe lavoravano a Piombino alle acciaierie, all’Italsider, o al Casone di Scarlino, alla Montecatini, come continuavano a chiamarla tutti anche se ormai era diventata la Montedison. Era un privilegio, dal mio punto di vista, essere figlio di un operaio. I poveracci, per me, per noi, figli dell’officine, erano i figli dei ricchi. Quelli per bene. Quelli che non potevano uscire di casa perché si facevano pestare e mettere sotto e all’Ilva a giocare a calcio non si facevano vedere mai. Che dovevano vestirsi “a modino” e tornare puliti. Che non potevano andare in bicicletta per i quartieri perché non facevano parte di nessuna banda (i figli degli operai erano divisi per bande rionali). Magari dopo no, magari a quindici anni noi eravamo in bicicletta o a piedi e qualcuno già al lavoro e questi avevano prima il motorino, poi la moto e le vacanze all’estero. Ma tra i sette e i quattordici anni, il controllo egemonico del territorio nella città fabbrica era nostro. Dei figli di chi stava al Casone o alle acciaierie dell’Ilva, anzi, come si diceva, dell’Italsider. Dei figli dei “napoletani”, che poi erano i campani che erano saliti a Follonica lavorando per le imprese edili che cavalcavano il boom edilizio del turismo di massa e vivevano tra Senzuno e Cassarello. E dei figli dei trasferisti industriali come me. Di quelli che vivevano nel circuito nazionale dell’Ilva e rimbalzavano tra Piombino, Taranto e Genova e che ogni due anni tornavano a Follonica. Divisi per bande rionali, abituati a rintanarsi alla 167, con i suoi palazzoni popolari nuovi, dove la banda del posto aveva costruito, su ulivi risparmiati dalle ruspe, delle baracche simili a palafitte, sospese sulla biforcazione delle branche dell’albero; o come capitava più spesso a me, con una base nei forni fusori in rovina dell’Ex Ilva, la nostra fabbrica, proprio davanti alla scuola e al campetto d’asfalto, dove eravamo asserragliati stando attenti a non calpestare le siringhe abbandonate dai tossici o a non incontrare Aroldo, un vecchio bizzarro, forse uno degli ultimi operai smobilitati alla chiusura dell’Ilva follonichese. Pare che vivesse nel forno San Ferdinando della ferriera e tenesse nascoste in una barca rovesciata decine di uniformi di tutti i tipi, con le quali assumeva ogni giorno un’identità diversa: di solito si vestiva da garibaldino, con una stupenda camicia rossa incorniciata dalla folta barba bianca. Una volta però si vestì da ammiraglio, prese il treno e scese a Livorno. Appena incrociò dei cadetti militari si mise a dar loro ordini e li fece marciare come cretini fino al mercatino americano. Questi alla fine si resero conto che non era un ammiraglio ma un vecchio svitato e lo fecero arrestare. Il sindaco di Livorno chiamò alla fine quello di Follonica che dovette andare a riprenderselo. Era comunque un tipo strano e ci tenevamo alla larga.
Un giorno scomparve e non lo rividi mai più. Forse l’avevano rinchiuso in qualche ospizio. Ma per le fantasie febbrili di un bambino, le cose seguono strane analogie. Per me era stato risucchiato da una di quelle macchine abbandonate che c’erano ancora nei forni fatiscenti dell’Ex Ilva. Una di quelle macchine che potevo andare a vedere nella biblioteca del ferro, come chiamavamo la biblioteca comunale prima che venisse allestito il Museo della Ghisa, una biblioteca sistemata in un enorme forno della ferriera e che aveva esposte macchine in ghisa dall’aspetto sinistro, assieme a una collezione di insetti trafitti da uno spillo e conservati in bacheche di vetro e a un carro funebre in legno da attaccare a cavalli pesanti. Gli elementi c’erano tutti. Ti stritolavano con le macchine, poi ti inchiodavano come un lepidottero e alla fine ti facevano un bel funerale col carro. Il funerale del vecchio strambo me lo sognai parecchie volte, influenzato da certi discorsi che avevo sentito fare.
Io sono piccolo e credono che non posso capire. Ma li sento parlare. Parlano di quelli che vengono risucchiati dagli ingranaggi e dai rulli di una zincheria, maciullati dai cilindri che schiacciano i nastri d’acciaio. Di quelli ustionati da una colata incandescente sfuggita ai binari di un impianto fusorio. Di quelli incastrati in un nastro trasportatore con la qualifica di “corpo estraneo”, segnalato da un motore che “forzava”. Di quelli con il cranio schiacciato nel laminatoio o investiti dalle tubature esplose. Di quelli ustionati nella sala pompe di una raffineria mentre collaudavano le tubazioni.
Sono racconti che non mi sorprendono. Già in seconda elementare ricordo di aver visto scomparire un mio compagno di classe, Bruno, da un giorno all’altro: ci salutammo come sempre, dicendoci ciao, certi di vederci il giorno dopo, eternamente, con quella concezione del tempo estesa che possono avere solo dei bambini. Bruno non tornò a scuola perché suo babbo, operaio alle acciaierie, era rimasto ucciso in fabbrica, assassinato dalla mega macchina che vomitava acciaio fuso. I miei ricordi sono confusi: io non andai al funerale ma mia madre fece una visita alla sua e portò anche me. Ma non mi fecero entrare in casa e Bruno non lo rividi più. Bruno aveva sette anni e per me quel giorno non era morto suo padre. In fabbrica era morto lui.
[Antefatto: Le moderne acciaierie piombinesi oggi sono di proprietà di Lucchini ma prima della privatizzazione infausta appartenevano al gruppo Ilva-Italsider, con stabilimenti a Genova, Taranto e Napoli. A Piombino le acciaierie si sono sviluppate soprattutto all’inizio del secolo scorso: la data di nascita dell’Ilva piombinese è il 1905. Prima di questa data le acciaierie più importanti in Toscana – anzi: le ferrerie – erano quelle di Follonica, dove per secoli avevano funzionato bruciando il carbone estratto dai boschi dell’Alta Maremma i forni granducali. L’Ilva follonichese continuò a lavorare come acciaieria periferica fino al 1960. I forni fusori follonichesi furono poi abbandonati e solo due grandi edifici vennero riadattati e trasformati in una scuola media e nella biblioteca comunale].