di Alex Calvi
L’amava più della sua stessa vita.
Ma il destino aveva voluto, ironia della sorte, che proprio Lui fosse testimone dell’incidente.
L’auto non si era fermata, e come darle torto in un sistema che punisce allo stesso modo chi fugge e chi presta soccorso? Con la differenza che chi scappa riesce a farla franca nove volte su dieci.
Ma a Lui non interessava la macchina, aveva occhi solo per Lei.
Distesa sull’asfalto, un fagotto di stracci sporchi e laceri, come un manichino disarticolato.
Sembrava non avere quasi più niente di umano.
La corsa verso l’ospedale fu folle, mentre, goccia dopo goccia, il sangue di Lei si spandeva sul pavimento della macchina. Poi gli sguardi vacui dei medici e delle infermiere, e Lui che avanzava barcollando per il pronto soccorso, reggendola tra le braccia. Tutto sembrava svolgersi al rallentatore. Avrebbe voluto urlargli di muoversi, di fare più in fretta, ma il groppo che aveva in gola era troppo grande perché potesse parlare.
L’attesa fuori dalla sala operatoria sembrò durare giorni.
Seduto. In piedi. Continuando a camminare su e giù per il corridoio deserto. Dei genitori di Lei neanche l’ombra, ancora non sapevano, nessuno li aveva avvertiti. E Lui certo non avrebbe osato. Con quali parole, poi, se non riusciva neanche a pensarle?
Intanto si guardava le mani, ancora sporche del suo sangue. Non voleva crederci. La testa piena di domande: aveva fatto abbastanza in fretta? Aveva perso troppo sangue? Doveva aspettare l’ambulanza? Era stato un errore spostarla? Ma non aveva pensato, aveva solo agito d’istinto.
Finalmente il medico uscì e gli parlò, ma le parole arrivavano da una distanza siderale: distorte, piene di eco, quasi incomprensibili.
Una cosa sola era chiara. Un colpo alla testa. Forte. Troppo forte. Coma.
Lui non voleva crederci, non poteva essere vero. Lei ne sarebbe uscita presto, ne era sicuro.
Così le stette vicino.
I genitori di Lei probabilmente non capivano neanche chi Lui fosse. Un ragazzo che non avevano mai visto, eppure così legato alla loro figlia che non era neanche lontanamente fidanzata. Evidentemente fingevano di non vederlo, di non sapere che Lui fosse lì, tutte le notti, a vegliare su di Lei. Forse lo accettavano e basta, come fosse stato parte dell’arredamento.
Di giorno, Lui si stordiva di lavoro. Teneva occupato ogni istante della sua giornata scrivendo, ascoltando musica, suonando. Era un artista e non c’era campo dal cinema, alla fotografia, alla pittura, alla musica, alla letteratura, in cui non cercasse una via di fuga dalla realtà. Perché, se si fermava un attimo, era solo a Lei che riusciva a pensare.
Tutte le notti era lì, accanto a Lei. A parlarle, a pregare per Lei, a piangere. Sempre tenendola per mano, cercando di richiamarla alla vita.
I giorni passarono e divennero settimane, le settimane mesi.
Lui sempre al suo fianco. Tanto che ormai aveva quasi smesso di dormire. Le uniche ore di sonno che si concedeva era quando crollava sotto il peso delle lacrime, seduto accanto al letto.
Poi, una notte, Lui si sveglia.
E lo vede.
È in piedi nell’unico angolo non illuminato della stanza. Eppure la sua figura si scorge distintamente, nera, più delle ombre stesse. E alta, quasi fino al soffitto.
Lui sbatte le palpebre, sta forse sognando? Chi è quell’uomo? Perché è lì? È forse un parente?
Guarda Lei, poi di nuovo verso lo sconosciuto. Ma è scomparso.
Forse ha sognato. Sì, dev’essere andata così.
La stanchezza, le ombre.
Ha immaginato tutto.
Ma la sera dopo quell’uomo è di nuovo lì.
Immobile come nessun essere vivente potrebbe mai. Così alto da sembrare deforme, le braccia lunghissime che pendono come tirate da pesi invisibili.
Lui è sconvolto, frastornato. Pensava di aver immaginato tutto, e ora non può credere ai suoi occhi. Lo vede, immobile in quell’angolo in ombra. Soprattutto lo percepisce, con ogni fibra del suo essere. È un brivido lungo la spina dorsale: paura.
Prima che possa muoversi, prima che possa trovare la forza di aprire bocca, lo sconosciuto si è già spostato verso di Lui.
Un passo dopo l’altro avanza, il volto sempre in ombra, come se anche la luce temesse di avvicinarvisi.
Poi parla.
Solo un nome, quello di Lui.
La bocca non si apre, la lingua non si muove, ma la voce rimbomba, come proveniente da abissi che la mente umana non sopporterebbe di guardare. Solo allora Lui si rende conto di chi sia quella persona.
Quella che prima era stata solo una sensazione fisica diviene consapevolezza e il terrore gli artiglia lo stomaco. Ma, subito dopo, anche la rabbia monta in Lui: non gli permetterà mai di portarla via.
Le parole, che prima aveva tanto faticato anche solo a pensare, sgorgano come un fiume in piena e si alzano di tono a ogni sillaba.
“Vattene! Non me la porterai via! Lei ce la farà, Lei vivrà, hai capito?!? LEI VIVRÀ!!!”
Come un’onda che si infrange sugli scogli, la furia di Lui non fa neanche lontanamente vacillare l’alta figura che gli sta di fronte.
Ieratico, impassibile, lo sconosciuto resta immobile. Poi parla di nuovo.
E a Lui si gela il sangue nelle vene.
“Non sono venuto per Lei… ma per Te. Vieni con me, ci sono cose che devi vedere…”.
Un braccio spropositato si allunga fino a mettergli una mano sulla spalla e lo guida attorno al letto. Poi i due, fianco a fianco si avviano nell’ombra e scompaiono.
I mesi scorrono a ritroso, velocissimi, e si fermano al momento in cui Lui era tornato a casa dopo averla portata in ospedale.
“Ricorda…”.
Lui sta camminando per la stanza, avanti e indietro, sempre più velocemente. Sta piangendo. Ha una crisi isterica, ma non vi è nessuno che possa aiutarlo. Si ferma, una strana luce negli occhi. Corre in cucina. Prende un coltello affilato e comincia a colpirsi su un braccio. Dopo una iniziale esitazione i tagli son sempre più profondi. Un ultimo gesto e l’acciaio affonda dal polso all’incavo del gomito. Poi tocca all’altro avambraccio. Il sangue sgorga a fiotti, orribile a vedersi, ma Lui non sente dolore, solo una grande pace. È questione di secondi e si accascia a terra, svenuto, mentre il rosso fluido vitale scorre sul pavimento. Lasciando il suo corpo per sempre.
Indietro di qualche altra ora.
“Ricorda…”.
Attorno a loro nessuno per chilometri. Lei è di fronte a Lui, a terra, in mezzo alla strada. Non sembra neanche un essere umano. Una scarpa è rotolata lontano, la borsa da ginnastica è finita chissà dove. I pantaloni e la maglietta sono strappati in più punti. Molte di più sono le macchie di sangue. I capelli scarmigliati le coprono il volto. Forse è meglio così. Il resto del corpo assomiglia a una marionetta gettata in un angolo dopo lo spettacolo. Una posizione che nessun contorsionista potrebbe mai assumere.
Lui la fissa senza sapere che fare. Senza sapere che sentimenti provare.
Indietro di qualche minuto.
“Ricorda…”.
Lui è in macchina. Davanti agli spogliatoi. Sta aspettando che Lei esca dopo la partita. È sempre l’ultima a finire di cambiarsi. Lui lo sa e aspetta per poterla vedere almeno un attimo. La ama così tanto. Eppure Lei neanche si accorge di Lui. Anzi, sembra odiarlo con tutto il cuore. Più cerca di dimostrarle il suo amore e più Lei lo disprezza. Non sa che fare. Lei neanche gli rivolge più la parola. Quando lo fa è con risentimento e rabbia. Come se la facesse infuriare il fatto che Lui viva solo per Lei.
Eccola, finalmente sta uscendo. Si guarda attorno. Che l’abbia visto? Lei distoglie subito lo sguardo, infastidita. Sì, lo ha visto. Lui ripensa a tutto quello che ha fatto per Lei. A quello che ha passato. Ai regali. A quello che prova. E a come Lei lo ha sempre trattato. Al suo odio. Solo perché per Lui, Lei è la ragazza più bella che sia mai esistita.
Chiude gli occhi, non vuole più pensare. Non vuole più esistere. Vuole solo che tutto questo smetta.
È un attimo.
Neanche se ne accorge.
Schiaccia l’acceleratore e parte.
Lo schianto è terribile, ma Lui prosegue, come ipnotizzato. Non sa neanche quello che ha fatto o che sta facendo. Continua a guidare. Solo molto dopo torna in sé. Torna indietro. Scende dalla macchina.
Lei è ancora lì, in mezzo alla strada.