di Marilù Oliva
Il codice Dante. Cruces della “Commedia” e intertestualità novecentesche di Daniele Maria Pegorari, è il punto conclusivo di anni di ricerca intorno alla Commedia come codice di un complesso sistema semiotico nutrito di citazioni dirette o allusioni nascoste che si struttura su tre differenti livelli: il primo è quello delle fonti attraverso le quali Dante instaura un affascinante rapporto con tutta la tradizione letteraria occidentale (pagana, cristiana e medievale), costruendo il Poema come una summa della cultura del suo tempo; il secondo livello è quello delle relazioni intratestuali che s’instaurano fra le singole parti della Commedia e fra questa e le altre opere del Fiorentino; il terzo livello si concentra sul Poema come codice ‘genetico’ della letteratura italiana e occidentale, con particolare riferimento a quel fenomeno che in età contemporanea abbiamo preso a chiamare ‘dantismo’, per il quale numerosi autori non hanno saputo sottrarsi al magistero di Dante. A dimostrazione di quest’ipotesi convergono i sei corposi saggi su Marx, Gramsci, Gozzano, Montale, Pasolini, Luzi e Loi, che consentono di dimostrare come i singoli prestiti siano indispensabili per il commento delle rispettive filosofie e poetiche.
Sorprendente è il corpus di circa cinquanta romanzi e parodie pubblicati dal 2000 in poi, passato in rassegna e analizzato nel lungo saggio finale; qui si dimostra come il fenomeno di ‘riscrittura’ che si riscontra nella più sofisticata letteratura italiana e straniera dell’Otto-Novecento, si sia spinta negli ultimi anni a interessare la letteratura di massa e persino le narrazioni extraletterarie (come il fumetto, la fiction televisiva e il videogioco), fino a penetrare largamente nel linguaggio comune e nell’immaginario diffuso e popolare. Il doloroso attraversamento dell”aldiquà’ della Storia, più spesso infernale e purgatoriale che paradisiaco, in compagnia di Dante, può così divenire, in pieno gusto postmodernista, il riuso divertito della più prestigiosa rovina culturale dell’Occidente, come materiale di recupero per edificare le nuove basiliche del consumo e dell’indifferenza. L’autore Daniele Maria Pegorari (1970) interpreta in maniera originale la critica militante sul doppio versante dell’insegnamento universitario e delle attività editoriali. È, infatti, docente di Letteratura italiana contemporanea e Sociologia della letteratura nel Dipartimento FLESS — Filosofia, Letteratura, Storia e Scienze sociali di Bari, dirige il semestrale «incroci» e diverse collane di ricerche e testi per alcuni editori pugliesi ed è tra i curatori scientifici della rivista internazionale di studi «Dante». Dal 1993 a oggi ha pubblicato una dozzina di libri e circa centotrenta articoli, perlopiù dedicati alla lirica in lingua e in dialetto, al dantismo internazionale e alla letteratura pugliese otto-novecentesca. Si segnalano i volumi: “Dall’«acqua di polvere» alla «grigia rosa». L’itinerario del dicibile in Mario Luzi” (1994), “Vocabolario dantesco della lirica italiana del Novecento” (2000), “Metrica dei giorni. Poesie per un anno” (2000), “Mario Luzi da Ebe a Constant” (2002), “Contesti della “Commedia”” (con F. Tateo, 2004), “Non disertando la lotta. Versi e prose civili di Mario Luzi” (con l’omaggio di 41 poeti, 2006), “Dal basso verso l’alto. Studi sull’opera di Lino Angiuli” (2006), “Puglia in versi” (2009), “Critico e testimone. Storia militante della poesia italiana 1948-2008” (2009), l’edizione di “Uebi Scebeli. Diario di tenda e cammino della spedizione del Duca degli Abruzzi in Etiopia” (1928-1929) di V. Cosimo Basile (2010), “Les barisiens. Letteratura di una capitale di periferia” (1850-2010) (2010) e “Il codice Dante. Cruces della “Commedia” e intertestualità novecentesche” (in corso di stampa). Ha collaborato anche con le seguenti riviste militanti e accademiche: «in oltre», «Hortus», «Studi medievali e moderni», «l’immaginazione», «Pagine», “Annuario di poesia” di Crocetti, «Pelagos», «Le passioni di sinistra», «Atelier», «L’Alighieri», «Fogli di periferia», «Proa Italia», «Cerignola Città», «Il parlar franco», «Resine», «Anterem» e «Critica marxista».
A seguire proponiamo la prima parte di un saggio estratto dal libro. (La seconda parte verrà pubblicata la prossima settimana)
Il codice Dante: Marx e Gramsci o della solitudine dell’eresiarca (parte I)
Quando si pensa alla presenza di Dante nella letteratura politica, la mente s’indirizza rapidamente agli autori del Risorgimento, recentemente ‘rinfrescati’ dalla ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, a cominciare da Rossetti, Balbo, Pellico, Gioberti e Cattaneo fino a Settembrini, Mazzini, Mauro, Tenca e Carducci, per non dire di alcune figure minori, ma interessantissime sul piano delle letterature regionali, fra le quali mi è grato ricordare almeno quelle di pertinenza della mia Puglia, come Leonardo Antonio Forleo e Giovanni Francesco Jatta (1). In tutti questi casi il grande poeta medievale rivestì i panni del prototipo dell’intellettuale nazionale, del profeta dell’Unità, anzi di più, del fondatore di una Unità su basi linguistiche e morali prima e più intimamente che statuali. In questo senso si può dire che, sia pure ancora molto timidamente, l’Ottocento pose le basi, se non certo di una sostituzione del primato poetico di Dante a quello secolare di Petrarca (di cui senz’altro il nostro maggiore lirico di quel secolo, Leopardi, fu ancora uno dei maggiori alunni), quanto meno di una riabilitazione ideologica utile alternativamente ad ambo le sponde del dibattito politico pre e post-unitario, sia sul fronte del neoguelfismo (qualora se ne esaltasse il monumentale valore teologico), sia su quello laico-liberale (ove se ne sfruttasse il pervicace attacco contro il potere temporale della Chiesa, pronunciato con costanza, dal fondo dell’Inferno fino alle soglie della contemplazione di Dio). Di questa riabilitazione furono evento simbolico le celebrazioni per il sesto centenario della nascita di Dante, giusto a quattro anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, con i lavori di recupero, il 27 maggio 1865, dei resti mortali del poeta dal muro esterno della cappella Braccioforte del convento dei Frati Minori in Ravenna e il loro riposizionamento nel sacello attiguo restaurato per l’occasione.
Proprio in questi stessi anni, però, si rivolse all’auctoritas etica e civile di Dante un autore molto distante dalla tradizione italiana, il più politico e il meno letterario fra i pensatori che influenzeranno gli scrittori del secolo XX. Mi riferisco a Karl Marx, il quale in conclusione della Prefazione alla prima edizione della sua opera più nota, ma insieme la più tecnica e complessa, Il capitale (di cui, nel 1867, l’autore tedesco portò a compimento solo il libro I: Il processo di produzione del capitale), egli scrive sorprendentemente:
Sarà per me benvenuto ogni giudizio di critica scientifica. Per quanto riguarda i pregiudizi della cosiddetta ‘opinione pubblica’, alla quale non ho mai fatto concessioni, per me vale sempre il motto del grande fiorentino: «Segui il tuo corso, e lascia dir le genti» (2).
In realtà Purg. V, 13 riporta: «Vien dietro a me, e lascia dir le genti», e a pronunciare queste parole è Virgilio che sollecita il suo ‘alunno’ Dante a non lasciarsi distrarre dai dubbi dei pigri (la seconda schiera dei negligenti dell’Antipurgatorio) e a proseguire la sua lenta ascesa al secondo balzo del monte, pena lo smarrimento dell’alto fine ch’egli si sta proponendo, ovvero l’espiazione. Il passo (vv. 10-18) precisamente è il seguente:
«Perché l’animo tuo tanto s’impiglia»,
disse ‘l maestro, «che l’andare allenti?
che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta’ come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti;
ché sempre l’omo in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga l’un de l’altro insolla».
Il rimprovero è di quelli che ai commentatori della Commedia paiono sproporzionati alla circostanza; in fondo Dante si era solo accorto del fatto che i pigri da cui si era congedato erano stati colti dallo stupore per il suo aggirarsi in carne e ossa nel regno degli espianti: «una gridò: “Ve’ che non par che luca / lo raggio da sinistra a quel di sotto, / e come vivo par che si conduca!”» (Purg. V, 4-6). Ma il Purgatorio, più delle altre due cantiche, propone situazioni che hanno il compito di mostrare come lo stesso Dante sia coinvolto nel processo di purificazione, dismettendo i panni del mero spettatore delle vicende dei dannati, e a tal fine possono soccorrere anche talune massime dal tono ammonitorio e mortificante: il pellegrino, «[…] che al divino da l’umano, / a l’etterno dal tempo […]» (Par. XXXI, 37-38) si sta conducendo, sta intercettando nel Purgatorio una dimensione temporale che accomuna il destino delle anime purganti a quello dei viventi.
Per le une e per gli altri il tempo scorre secondo l’ordinario cammino delle ore, al movimento corrisponde un mutamento di stato e ogni indugio può quindi rivelare un rinnovato contrasto fra l’invitta volontà umana e il piano provvidenziale che il divino ha predisposto per le sue creature. Dunque è interessante che Marx abbia ricordato questo passo (riportandolo in italiano come tutte le edizioni del Capitale non mancano di segnalare) proprio quando sta per varare il cammino della critica scientifica al processo capitalistico, associando implicitamente ma eloquentemente la «cosiddetta ‘opinione pubblica’» ai pigri, naturalmente con un’accezione che in questo caso si fa tutta intellettuale: lo scetticismo, la superficialità o addirittura l’indifferenza di molti dinanzi alle tesi economiche di Marx equivalgono a una negligenza ideologica, a un’inerzia del pensiero che non si preoccupa di contestare le ragioni dell’avversario attraverso argomentazioni altrettanto analitiche, ma si accomoda nel conformismo del già noto, nella placida immutabilità degli assetti socio-economici e politico-culturali determinati dalla modernità.
Ciò che attira l’attenzione del dantista, però, è la strana circostanza del riporto testuale manipolato nel primo emistichio, con quel «Segui il tuo corso» che sostituisce il corretto «Vien dietro a me», ricostituendo però perfettamente l’unità metrica dell’endecasillabo a minore; considerando che il passo è riportato in italiano (e, dunque, non è conseguenza di un errore di traduzione dal toscano antico al tedesco) e che la variante riportata non è attestata nella tradizione manoscritta della Commedia, costituisce ancora un problema filologico ed esegetico di non poco conto comprendere come Marx abbia potuto rielaborare quel verso, rimanendo fedele a quella natura sentenziosa, gnomica che alcuni passi dell’opera dantesca conservano nella memoria collettiva, il che, come si è detto, vale in una maniera particolare proprio per questo passaggio di Purg. V. Da un punto di vista tecnico, siamo di fronte a uno di quei casi di manipolazione della fonte in cui i materiali verbali funzionano come i fregi monumentali antichi sottratti ai contesti architettonici di provenienza e poi riutilizzati alla bisogna con assemblaggi a volte anche curiosi: qui, infatti, si sarebbe ‘restaurata’ una tessera autentica (la seconda parte del verso: «e lascia dir le genti») con un emistichio pseudo-dantesco, cioè falso ma del tutto credibile in quanto ritmicamente coerente e realizzato con espressioni che altrove sono presenti nel Poema. L’esortazione a «seguire» i propri passi è più volte pronunciato da Virgilio a Dante e pertanto è equivalente all’invito «Vien dietro a me» (tre casi, tutti curiosamente nella stessa posizione versale: Inf. I, 112-113: «Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno / che tu mi segui, e io sarò tua guida»; Inf. XI, 112: «Ma seguimi oramai che ‘l gir mi piace»; Purg. I, 112: «[…] Figliuol, segui i miei passi»), mentre Beatrice non avrà mai bisogno di rivolgere al pellegrino celeste alcuna analoga esortazione.
A queste memorie si sarà sovrapposta quella di luoghi metaforici in cui si accenna alla necessità di «seguire» un destino provvidenzialmente segnato, con precedenza assoluta alla profezia pronunciata dalla più importante icona magistrale dell’Inferno dopo lo stesso Virgilio, ovvero Brunetto Latini che in Inf. XV, 55-56 dice al suo antico allievo: «[…] Se segui tua stella, / non puoi fallire a glorioso porto», con probabilissima interferenza del celebre incipit di Par. VI, dove il destino tracciato e poi trasgredito dalla volontà di un imperatore romano riguarda non l’individuo, ma addirittura l’impero universale: «Poscia che Costantin l’aquila volse / contr’ al corso del ciel, ch’ella seguio / dietro a l’antico che Lavina tolse». Quest’ultimo intertesto è interessante, poiché si nota la comparsa, accanto al verbo «seguire» del sostantivo «corso», con riferimento al movimento apparente del sole, come anche in Purg. XV, 4-5 («tanto pareva già inver’ la sera / essere al sol del suo corso rimaso») e in Par. I, 40 («con miglior corso e con migliore stella»), dove la mera designazione astronomica assume un’accezione premonitoria e benedicente, in quanto anticipa la sicura conclusione positiva del viaggio, in accordo con l’uso estensivo della voce «corso» nel senso di ‘svolgimento della vita secondo un dettato provvidenziale’, che si registra in altri due luoghi dei canti XV dell’Inferno e I del Paradiso ora richiamati: «Ciò che narrate di mio corso scrivo» (Inf. XV, 88), «così da questo corso si diparte / talor la creatura […]» (3) (Par. I, 130-131) . Ecco, quindi, come può essersi creata questa sorta di centone dantesco, «Segui il tuo corso, e lascia dir le genti», ma rimane da capire com’esso sia potuto giungere nella pagina di Marx, escludendo come remote o azzardate o inverificabili le ipotesi ch’egli maneggiasse così bene l’opera dantesca da ritenere non necessaria la sua consultazione materiale, limitandosi a una citazione a memoria, che l’avrebbe tradito con una riproduzione non fedele ma ‘a orecchio’, o che si sia trattato della ripresa di una riscrittura già diffusa negli ambienti colti tedeschi come luogo eccellente, ma trasformato per un riutilizzo più duttile alle diverse circostanze. C’è invece qualcosa che mi fa considerare più plausibile che il filosofo avesse, sì, una grande familiarità con la Commedia e che la leggesse abitualmente in italiano, ma che in questo caso abbia optato per un’eccellente manipolazione volontaria (4), con un risultato fortunatissimo, se si considera l’enorme quantità di riprese che questo verso ha avuto nel campo delle arti, della pubblicistica e delle comunicazioni, sempre nella forma inautentica coniata dal teorico comunista.
Al suo ragionamento, piuttosto che un «maestro» per lui inesistente (quello che avrebbe dovuto dire: «Vien dietro a me»), doveva essere ben più funzionale un più generico «corso», da intendere laicamente come concezione materialistica della storia di classe. Ciò che m’inclina verso questa ipotesi è che questo è il più celebre, ma non l’unico debito dantesco presente nel Capitale, poiché in altri due casi è convocata la memoria del capolavoro medievale italiano. L’ultimo di essi è di tipo generico e non testuale: siamo nella sez. III dell’opera (Drittes Kapital. Die Produktion des absoluten Mehrwerts, “La produzione del plusvalore assoluto”), cap. VIII (Des Arbeitstag, “La giornata lavorativa”) (5) e Marx, descrivendo le terribili condizioni di sfruttamento e miseria in cui erano tenuti in Inghilterra dal 1833 in poi i «lavoranti in fiammiferi», in gran parte sotto i diciotto anni e numerosi persino sotto i dieci, secondo la Children’s Employment Commission del 1863, riferisce che la «giornata lavorativa […] andava dalle dodici alle quattordici, alle quindici ore», prevedendo anche «lavoro notturno; pasti irregolari, per lo più presi negli stessi locali di lavoro, che sono appestati dal fosforo. Dante avrebbe trovato che questa manifattura supera le sue più crudeli fantasie infernali» (6). Qui siamo di fronte a un uso di Dante come spontaneo elemento di comparazione per le situazioni più drammatiche e violente della contemporaneità, lasciando intravedere gli esiti cospicui che questo procedimento avrà, ad esempio, nella letteratura europea della Shoah.
Più interessante, per le conclusioni che consente di trarre a proposito dello pseudo-dantismo della Prefazione, è il prelievo testuale di un’intera terzina che si legge nella sez. I (“Merce e denaro”), cap. III (Zirkulationsmittel, “Il denaro ossia la circolazione delle merci”) (7), laddove il filosofo spiega la funzione del denaro come fondamento della circolazione della ricchezza: l’«equivalente» in oro di una qualunque merce (ad esempio «una tonnellata di ferro») rappresenta la sua «forma ideale di valore», cioè il «prezzo» al quale essa può essere scambiata con «una determinata quantità» di «oro reale» (ad esempio «un’oncia»), che è l’unica condizione che consente alla merce di «esercitare praticamente l’azione di un valore di scambio» nelle società moderne non più fondate sul baratto. «Il possessore del ferro» che cercasse di ottenere l’equivalente di un’altra «merce mondana» in nome del «prezzo del ferro che è forma di denaro», ma non sua sostanza, si vedrebbe riconosciuto il valore nominale del suo prodotto, ma non un’immediata disponibilità d’acquisto, se non dopo il passaggio intermedio della vendita del ferro cioè della sua sostituzione con l’«equivalente generale». Per spiegare questa nozione basilare del mercato, Marx non si pèrita di scomodare un sofisticato passaggio del Paradiso, attinto addirittura al primo dei canti teologici, laddove s. Pietro interroga il pellegrino circa la nozione di Fede e, riscontrato il pieno possesso dottrinale di quella virtù, chiede all’aspirante teologo di dimostrarne il possesso reale. Questa la terzina riportata da Marx, ancora una volta in corretto italiano: «[…] Assai bene è trascorsa / d’esta moneta già la lega e ‘l peso; / ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa» (Par. XXIV, 83-85), cioè: sono stati molto valutati la lega e il peso di questa moneta; ma ora dimmi se ne sei in possesso.
Marx, dunque, rammenta che Dante aveva arditamente usato una metafora proveniente dal linguaggio dei cambiatori di valute (si ricordi ch’era il mestiere del discusso padre del poeta) per parlare di una ricchezza ben più spirituale, quale la Fede, e, attuando un processo di prosaicizzazione materialistica (8), riporta l’immagine al significato elementare, travestendo questo dialogo celeste nei panni di una contrattazione in un mercato di città. A parte l’arguzia dell’operazione, che dimostra la conoscenza approfondita e non meramente scolastica della Commedia da parte del teorico tedesco, questo nuovo prelievo (sicuramente non attinto alle risorse della memoria individuale e troppo lungo per essere tramandato in forma proverbiale) dimostra ch’egli disponeva di un’edizione italiana da cui poter ricopiare i passi di suo interesse, come di certo sarà accaduto anche per il v. 13 di Purg. V, utilizzato per chiudere la Vorwort, la Prefazione alla prima edizione, rendendo, a mio avviso, molto più plausibile che l’invenzione del primo emistichio sia stata una rielaborazione volontaria attuata con invidiabile perizia tecnica e dettata dallo scopo di adeguare la fonte a una condizione, per così dire, autobiografica, quella dell’intellettuale che sconta il proprio anticonformismo con un «corso» o un destino di solitudine e di disprezzo della pigrizia ideologica.
NOTE
1. Interessante il confronto fra i due autori pugliesi, collocati sui fronti opposti del dibattito e della lotta risorgimentale, ma entrambi affascinati dal mito politico di Dante: reazionario e borbonico era il brindisino di Francavilla Fontana LEONARDO ANTONIO FORLEO, autore di un Liceo dantesco ovvero guida allo studio di Dante (Petruzzelli, Bari 1844); liberale e antiborbonico era il barese di Ruvo GIOVANNI FRANCESCO JATTA, autore del poema politico di imitazione dantesca e montiana Agesilao Milani. (Stabilimento dei classici italiani, Napoli 1863), meritoriamente riedito da Anna Maria Cotugno nella collana “Biblioteca di Letteratura Pugliese” della Stilo (Bari 2011).
2. In italiano nel testo. L’edizione italiana che seguo è quella che costituisce i voll. 4 e 5 della “Piccola biblioteca marxista”, K. MARX, Il capitale. Critica dell’economia politica, libro I, trad. it. di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 35.
3. Cfr. F. VAGNI, Corso, in Enciclopedia dantesca, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1970.
4. D’altra parte il passo è commentato come «abgewandeltes zitat» (citazione modificata), suggerendo implicitamente, dunque, la volontarietà, nel tomo di Apparat che accompagna Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, erster band (Hamburg 1867), che costituisce il vol. II, libro V del monumentale Karl Marx, Friedrich Engels Gesamtausgabe (MEGA), a cura degli Istituti per il Marxismo-Leninismo del Kommunistischen Partei der Sowjetunion e del Sozialistischen Einheitspartei Deutschlands, per i tipi di Dietz Verlag, Berlin 1983 (il passo è a p. 15). D’ora in poi si citerà come MEGA, seguito dalla pagina.
5. MEGA, p. 191.
6. K. MARX, op. cit., p. 281: il nome di Dante è in corsivo anche nell’originale.
7. MEGA, p. 65.
8. Di questo processo di inversione delle similitudini e delle metafore, dalla rivelazione di verità celesti all’affidamento alle sole scienze positive, sarà maestro il maggior poeta italiano dell’inizio del sec. XX, come si vedrà nel prossimo capitolo: Cercando «il volume foglio a foglio»: il dantismo di Gozzano fra anticapitalismo e scientismo.