di Filippo Casaccia
Nobody knows you when you’re down an’ out,
in my pocket not one penny
an’ as for friends, I ain’t got too many
È sempre stato un mio vezzo involontario: innamorarmi perdutamente di musicisti sfigatissimi, beautiful losers che mai hanno ottenuto il successo meritato in vita e che solo da morti (e non sempre) hanno reso felice qualche erede. Il caso più eclatante è quello di Roy Buchanan, uno che neanche Mike Bongiorno avrebbe accolto gridando “Allegria!”, perché Roy aveva lo sguardo torvo e diffidente e glielo leggevi in faccia che qualcosa non andava.
Lui s’era fatto 20 anni di circuito rock’n’roll girando in lungo e in largo gli USA, accompagnando altri artisti famosi e rimanendo sempre in disparte con la sua prodigiosa chitarra. Perché un chitarrista non è altro che un sideman, uno pagato da orchestrale, uno sostituibile. Però nel giro si sapeva che questo qui, un burino figlio di un predicatore dell’Arkansas, intriso di superstizioni religiose e cacciaballe inveterato (asseriva con convinzione di essere mezzo uomo e mezzo lupo) aveva capacità tecniche eccezionali. Tanto che nel 1971 la tivù pubblica americana gli dedicò un documentario intitolato Introducing Roy Buchanan che gli valse subito il discutibile onore di essere definito il “miglior chitarrista sconosciuto del mondo”.
La cosa fece girare le palle al trentacinquenne Roy, ma dopo due decenni a zonzo e senza un dollaro in tasca — al punto che si era messo a fare il barbiere pur di avere un salario sicuro —, fu la spinta decisiva per rilanciare la sua carriera. John Lennon lo esaltava pubblicamente e si disse che i Rolling Stones lo avevano cercato (la solita manfrina inverificabile, non si sa se messa in giro da Buchanan stesso).
Gli album incisi nei primi anni ’70 sono bellissimi: un originale mélange di country, rock’n’roll, blues e gospel, arricchiti dal magico suono di una Telecaster butterscotch del 1953 (battezzata “Nancy”) che urlava e singhiozzava, ti accarezzava e ti scorticava, suadente e imbufalita. Il segreto era nelle dita di Roy, nel suo tocco, nella sua capacità — in anticipo su tutti — di far fischiare le corde e di ottenere l’effetto “violino” col controllo del volume, prima che con i pedali ci riuscisse qualunque chitarrista cialtrone.
Jeff Beck gli rese omaggio con la lirica e commovente ‘Cause We’ve Ended As Lovers, nel fondamentale album Blow By Blow, ma il profilo pubblico di Buchanan rimase basso.
Del resto non lo aiutava un look sconcertante: talvolta con coppola fantozziana e bustina portaocchiali appesa al collo, talaltra conciato con camicia hawaiana e paglietta, come un turista, completando poi il disastro con un riporto maestoso che neanche lo Strippoli della Golden Era di 90° Minuto: tutto decisamente poco accattivante per il grande pubblico.
La timida affermazione iniziale, inoltre, divenne subito un ostacolo: Buchanan preferiva un bar da cento persone a qualunque sala da concerto perché temeva il successo, che gli avrebbe imposto disciplina e obblighi. Odiava provare e diffidava di tutti: musicisti che avrebbero potuto copiarlo e manager che lo avrebbero fregato ancora una volta. In sovrappiù a casa lo aspettava Judy, madre dei suoi 8 figli (la religione deve c’entrare qualcosa) e stracciacazzi di dimensioni abnormi, gelosa della vita on the road del marito, evidentemente devoto fino a un certo punto. Se ci mettiamo anche una pericolosa propensione per alcol e droghe, unite al carattere impossibile e paranoico e a un’attitudine manesca, si capisce perché la carriera e la vita del chitarrista siano stati un continuo saliscendi, tra euforia, peccato, pentimento e redenzione.
Da metà degli anni ’80 però arrivano finalmente i riconoscimenti che merita, con la pubblicazione di diversi album molto eleganti (e anche un po’ sbulacconi, onestamente) per la prestigiosa etichetta Alligator. Sembra tutto procedere per il meglio finché una sera dell’agosto 1988, ubriaco come una zampogna, Roy minaccia la moglie e finisce a sbollire i fumi etilici in cella, dove poi lo trovano impiccato.
Suicidio, versione della polizia contestata anche da Judy (il cadavere aveva dei lividi, difficilmente autoprocurati) e caso mai chiarito. R.I.P., Roy.
Questo genio musicale incapace di convivere serenamente con la sua arte ricorda per tanti motivi un altro gigante della Telecaster, un suo allievo: Danny Gatton, che invece suicida lo fu senza dubbi, nel 1994.
Anche lui aveva timore del successo e preferiva esibirsi nei piccoli locali vicino casa piuttosto che affrontare lo stress delle tournée e il grande pubblico. Che evitava i suoi dischi, infatti. Ma gli appassionati e tantissimi artisti sapevano di questo prodigio del Maryland: stessa chitarra di Buchanan e stessa capacità miracolosa di suonare, tanto da essere soprannominato The Humbler perché umiliava chiunque lo sfidasse a un confronto.
Gatton univa sensibilità blues e bluegrass a una tecnica jazz da far impallidire. Il risultato era un mix mai prevedibile, pressoché perfetto e a una velocità ridicola, tanto che Steve Vai, uno che di chitarre se ne intende, una volta disse che — dopo aver premesso che è impossibile stabilire chi sia il miglior chitarrista del mondo etc., etc.,— se ne esisteva uno più vicino degli altri a esserlo, quello era senza dubbio Danny Gatton.
Ora, esser considerato il best axeman dell’orbe terracqueo e vendere dischi nell’ordine delle centinaia di copie includendo i parenti, dev’essere cosa da far girare i coglioni come due avioturbine. E infatti, dopo aver prestato la sua chitarra a tanti musicisti e aver provato ogni formula magica per ottenere un po’ di visibilità coi suoi splendidi dischi solisti, la depressione ha vinto e Danny un giorno s’è sparato. Fine.
Un altro cui ho voluto bene è stato Randy California, uno che hippie lo è stato sul serio e da hippie ha vissuto ed è morto, generosamente: nel 1997, affogato nelle acque delle Hawaii dopo aver salvato il figlio catturato da un’onda malevola. Eroe per una generazione di fattoni, poeta lisergico della sei corde, compositore eclettico e arguto, ha avuto il torto di non morire giovane e oggi lo ricordano in pochi.
Nato nel 1951, Randy cresce frequentando vecchi bluesman nel locale dello zio, a Los Angeles. Impara così bene il blues che quando a 15 anni va a New York, jamma con Hendrix (che lo battezza “California” per distinguerlo dal Randy “Texas” della band) ed entra nei suoi Jimmy James and the Blue Flames. Per tre mesi la coppia sconvolge il Village, poi però Jimmy diventa Jimi e va a Londra a cambiare il mondo. Da solo, perché Randy deve obbedire a mammà, che non vuole, e del resto il ragazzo ha solo 15 anni. Per cui torna a casa sulla West Coast e col padre adottivo (un batterista jazzista che oggi, a 89 anni, s’è ritirato da poco!) mette su gli Spirit, magnifico quintetto rock che vive in una comune nella Topanga Valley e mescola folk, blues, psichedelia e jazz in maniera mai eguagliata da nessun altro. Giuro, nessuno.
I primi ottimi quattro album hanno vendite discrete ma un successo vero, ecumenico, gli Spirit non lo otterranno mai. Però le intuizioni c’erano eccome, come potrebbe ammettere Jimmy Page che dal brano Taurus ha preso pari pari gli accordi con cui parte Stairway to Heaven, quella che tutti i chitarristi scarsi suonano nei negozi di strumenti musicali (va anche detto che parlare di plagio è insensato, Stairway è un’altra cosa. Però quel lestofante geniale di Page, tant’è…). La carriera degli Spirit va alle cozze dopo la mancata partecipazione a Woodstock (per fare alcune date promozionali insignificanti… alle volte, la sfiga) e poi, passato il festival e affermatosi un nuovo rock da grandi folle, non è più tempo per ritorni a natura, fratellanza e pace.
Comincia il caos: Randy è confuso e scalognato, tenta il suicidio da un ponte di Londra e a casa cade da cavallo, spaccandosi la faccia. Si cala diversi acidi, tira coca e gli bloccano un album folle dedicato a Potatoland, un’America popolata da ciambelle, pesci fritti e ovviamente patate. Allora lui si disillude e va a vivere per un po’ alle Hawaii, facendo anche il giardiniere. Ma la musica chiama e i decenni seguenti sono un rosario di dischi (alcuni belli) che non vendono, reunion, liti e anche incidenti grotteschi, come la volta che Randy non riconosce Neil Young con un nuovo taglio di capelli e lo spintona sul palco prendendolo per un ubriacone molestatore che la security non ha allontanto.
California, ingobbito sulla chitarra e con l’eterna bandana, è stato dimenticato, più o meno come Arthur Lee, genio dei Love scomparso 6 anni fa nel silenzio generale. Bisogna arrendersi al Pensiero Unico: di quella magnifica stagione losangelina sono rimasti solo i Doors. Jim Morrison era belloccio e sapeva blaterare rimasticature da liceale dei miti greci. E anche se è morto gonfio come un fusto di birra, la censura e il marketing hanno lavorato benissimo. Succede.
E la maledizione di Morrison, nella mia testolina, era stata responsabile anche della mancata affermazione globale di un altro bluesman, Johnny Winter. Al liceo, tutti a perdere le bave per l’apollineo Jim che ti guardava intenso, a torso nudo, glabro e misterioso. Ma per me quello rivoluzionario era Johnny: un chitarrista texano albino che non s’inculava nessuno, rauco, violento, emotivo e brutto. Mamma mia, orrendo: albino sparato, strabico e con gli occhi come due spilli, allampanato e con lunghe dita adunche a stringere il manico della sua Firebird, una sei corde tutta storta come lui. E a Woodstock Winter c’era, ma nel film no, per le solite questioni stupide (c’erano anche gli immensi Creedence Clearwater Revival e non lo sa nessuno!). La mia battaglia culturale era persa in principio perché uno così, che si vestiva come la strega Bacheca, schitarrava come un forsennato e cantava Too Much Seconal, era inspiegabile.
Insieme al fratello Edgar, Johnny Winter comincia prestissimo a suonare e a tentare di far comunella coi vecchi neri che suonano il blues. Ma era troppo bianco per i bianchi (anni dopo scrisse un verso fenomenale: “Tanta merda in Texas che finirai per pestarne una”) e figuriamoci per i neri stessi, che non capivano come mai quel giovane scheletrico gli stesse appresso. Dagli e ridagli il ragazzo apprende il mestiere come pochi altri e viene lanciato da un articolo di Rolling Stone che descrive questo prodigio: un redneck hippie albino che suona Delta e Chicago blues con estrema naturalezza. Contratto senza precedenti con la Columbia, dischi che vendono e una progressiva tendenza all’hard, anche grazie alla partnership con Rick Derringer, genietto dal punto di vista compositivo e produttivo.
In questo caso — a differenza degli altri musicisti citati in questo mio pezzo — parlare d’incomprensione è sbagliato: Winter ha un buon successo e riempie gli stadi col suo hard rock fenomenale. Ma va in malora in un men che non si dica, stordito dalle droghe come pochi. Johnny ha il discutibile primato di essere uno dei primi musicisti a cominciare il classico rosario di disintossicazioni e ritorni: diventa una sorta di simbolo e allo stesso tempo caricatura dello sballone hippie e il successo scema pian piano. Dai festival davanti a centinaia di migliaia di spettatori (letteralmente) degli anni ’70 si torna ai club a suonare diligentemente il blues. E con una missione meritoria: il rilancio del “vecchio” Muddy Waters (aveva 62 anni, all’epoca: se pensate che Mick Jagger, ora, ne ha 69, come Mario Monti tra l’altro…).
A Winter va il plauso della critica e degli appassionati e sostanzialmente il mercato della nostalgia per qualche occasionale tour negli anni ’90. La salute va e viene, tra un’anca rotta, problemi al tunnel carpale e una pesantissima dipendenza da psicofarmaci (probabilmente indotta dal suo ex manager, il caso è aperto). Siamo ormai nel nuovo millennio e all’ennesimo ritorno (Winter è un revenant, senza dubbio), quando ho l’occasione di incontrarlo.
Lo intervisto in un pullman prima di un suo (bel) concerto a Trezzo, vicino a Milano, nel 2010. Era arrivato a pesare 40 chili e ora siamo sui 60, distribuiti su un corpo fragilissimo: è un fagotto divertito, coi capelli lunghi e bianchissimi e gli occhi spersi (è legalmente cieco, praticamente non vede un cazzo). Mi ringrazia e mi imbarazza subito: “Se sono qui, è per merito del tuo giornale!”. Questo serafico Zia Tibia non è bruciato, è incenerito proprio: tatuato come un tappeto iraniano, le dita arancioni per la nicotina, la risata da Sandro Ciotti, l’accento incomprensibile. Sta fumando un cannone clamoroso e ride rievocando il passato e gli straordinari musicisti con cui ha condiviso tratti di strada: come BB King che non voleva jammare con lui, temendo che fosse del fisco, oppure Jimi (“unbeeelievable!”) e Janis Joplin (jam musicale e amatoria tra texani ribelli: Johnny non si poteva certo definire un bel manzo, ma all’epoca era molto conteso dal gentilsesso… potere del rock).
Gli ricordo una puntata dei Simpson dove era protagonista (unico reduce simil-zombie da un olocausto nucleare!) e lui sghignazza compiaciuto ringraziando Matt Groening per l’omaggio. Maledice Bush, rimpiange Woodstock ed è orgoglioso delle copertine degli album che gli ha dedicato il grande Richard Avedon. Poi l’entourage mi fa presente che Johnny deve riposare: ho davanti l’ultimo grande bluesman, il mio punto di contatto con Muddy Waters. Lo abbraccio. Ride. Mi commuovo.
In questa parata di incompresi, l’ultimo è un grande che ho sfiorato tante volte. La notizia della sua morte l’ho saputa per caso da un bravo — lui sì — giornalista, Paolo Madeddu, venti giorni dopo che era avvenuta: leggo ogni giorno più quotidiani, ma la cosa m’era sfuggita completamente. Per Stevie Ray Vaughan (1990) ricordo un taglio alto commemorativo, per Rory Gallagher (1995) un boxino. Questa volta zero, a occhio nudo: giusto due righe in corpo infinitesimale, nell’ultima pagina degli spettacoli.
E anche in Rete, sui quotidiani più importanti, pressoché nulla, sepolti piuttosto da vaccate tipo gol nel campionato saudita, cellulite di starlette e le ultime foto della Minetti in consiglio regionale, perché non contano più le notizie, ma quanti click fai. Maledizione.
Eppure, vent’anni fa Gary ha sbancato le classifiche col lentazzo Still Got the Blues, che ricordo in heavy rotation molesta su VideoMusic. Il long playing omonimo fu un exploit da una milionata di copie e gli diede fama, grano e immense rotture di palle. Infatti i soliti puristi del blues sentenziavano che l’album era troppo moderno, e poi lui non è neppure nero; d’altro canto i metallari ignoranti trovavano il disco troppo retrò. Tutte minchiate perché Still Got the Blues è un capolavoro senza tempo.
Gary Moore — giovanissimo protegé irlandese di Peter Green, che poi avrebbe omaggiato con lo splendido Blues For Greeny — ha fatto bei dischi a suo nome, ha jammato con divinità nere come Albert Collins, B.B. e Albert King, ha lasciato il segno nei Thin Lizzy e ha messo la sua chitarra a disposizione anche di uno come George Harrison, che forse qualcosa ne capiva.
È morto per arresto cardiaco dopo una ciucca esagerata a base di champagne e brandy. Aveva solo 58 anni e qualche bimbominkia ha scritto esaltato in Rete: “è morto da rocker!”. No, è morto da stronzo, solo, dimenticato. Le cicatrici che aveva in faccia riflettevano quelle dell’anima: 40 anni di carriera, dal jazz all’hard, sempre un po’ in disparte, riservato, in fuga da quel business che ti succhia l’anima. E stufo anche delle solite domande dei giornalisti luogocomunisti e sciatti.
Al punto che quando è uscito il penultimo album della sua ricca carriera, Close As You Get, s’è inventato una bella cosa. Si trattava di blues rock con le palle, démodé forse, ma meglio di tanta roba anemica che vi vendono come irrinunciabile e che infatti voi vi scaricate e poi cancellate e amen. Bene: per la stampa, insieme al Cd era allegato un dischetto promozionale con incise le risposte alle domande a cui Moore non voleva più rispondere, come dire: se volete chiedermi ancora quali chitarre ho usato, chi sono le mie influenze e se suonerò di nuovo hard rock, la risposta è già qui. E sottinteso: però questo mi autorizza, se mi fate queste domande vis à vis, a beccarvi un ceffone, capito?
Io volevo e dovevo intervistarlo da tanti anni, ma la pigrizia e gli impegni me lo hanno sempre impedito. C’era sempre qualcosa d’altro da fare o dava buca lui, come a Pistoia nel 2003 e nel 2004.
Risentirò quel promo, prima o poi, e farò finta di avergli fatto io alcune di quelle domande stupide.
Da ascoltare
The Family That Plays Together (Spirit, 1968)
Johnny Winter (Johnny Winter, 1969)
Live (Johnny Winter And, 1971)
Live Stock (Roy Buchanan, 1975)
When a Guitar Plays the Blues (Roy Buchanan, 1985)
Still Got the Blues (Gary Moore, 1990)
In Concert 9/9/94 (Danny Gatton, 1998)
Da leggere
Roy Buchanan: American Axe di Phil Carson (2001)
Unfinished Business. The life and times of Danny Gatton di Ralph Heibutzki (2003)
Raisin’ Cain: The Wild and Raucous Story of Johnny Winter di Mary Lou Sullivan (2010)
Da vedere
Gary Moore: Live At Montreux 1990 (2008)
Johnny Winter: Live Through The 70s (2008)
Roy Buchanan: Live at Rockpalast, 1985 (2011)