di Sandro Moiso
Pino Casamassima, Gli irriducibili. Storie di brigatisti mai pentiti, Editori Laterza , Bari — Roma 2012, pp.260, euro 18,00
È una storia ancora in gran parte da scrivere quella della lotta armata in Italia a cavallo tra gli anni settanta e ottanta del secolo appena trascorso.
Esistono numerose testimonianze dirette di alcuni degli attori principali (Moretti, Morucci, Segio, Franceschini, Gallinari e Fenzi, solo per citarne alcuni) ed esiste la monumentale opera di documentazione portata avanti da Renato Curcio con il suo “Progetto Memoria” edito da Sensibili alle foglie, ma non esistono opere di ricerca meticolosamente redatte da storici di professione – con l’eccezione dell’ottima Storia delle Brigate Rosse di Marco Clementi, pubblicata da Odadrek nel 2007.
Esclusa la storia orale dei detenuti di Prima Linea, Vite sospese, curata molti anni fa da Nicola Tranfaglia per l’editore Garzanti e il più recente Ordine nero, guerriglia rossa di Guido Panvini edito da Einaudi, ma che si occupa prioritariamente della violenza politica in Italia tra gli anni sessanta e settanta, ben poca ricerca ha prodotto l’accademia su un fenomeno che ha visto coinvolte in Italia migliaia, forse decine di migliaia, di persone e che ha visto nello stesso paese il maggior numero di detenuti politici tra le cosiddette democrazie occidentali.
È, infatti, ancora oggi un tema scomodo vuoi per la persistenza delle cause che provocarono la scelta armata di quegli anni, vuoi per il protrarsi di episodi di guerriglia a bassa intensità e di omicidi politici che ancora hanno segnato gli anni del nuovo secolo; vuoi, ancora, per gli strascichi giudiziari e i meccanismi repressivi e giuridici messi in atto a partire da allora e mai più abbandonati; vuoi, last but not least, per la siatematica rimozione e demonizzazione di ogni forma di antagonismo dichiaratamente classista messa in atto dai media, dalle istituzioni e dalla cultura di sinistra.
Abbondano però i resoconti cronachistici e giornalistici del fenomeno, anche se , spesso, pur appartenendo gli autori a differenti orientamenti politici, sono caratterizzati più dalla pruderie complottistica o dalla dettagliata elencazione dei fatti di sangue e delle loro dirette conseguenze che dalla volontà di ricostruire organicamente motivi, ragioni, errori ed orrori dei miltanti comunisti armati. Soprattutto se si tratta di opere dedite a ricostruire la vita e la morte delle vittime delle azioni terroristiche, scritte con il supporto di, o direttamente da, qualche familiare delle stesse.
Pino Casamassima, giornalista, editor e saggista, da diversi anni si occupa del terrorismo italiano di sinistra e dello scontro che tra gli anni settanta e ottanta oppose le organizzazioni armate comuniste prima alla violenza fascista e poi allo Stato tout-court.
Sono infatti una decina i volumi che ha avuto modo di curare, negli ultimi anni, sia come autore che come editor, sull’argomento e può quindi essere considerato in materia quasi un’autorità .
L’ultima sua opera, Gli irriducibili, ha richiesto un lavoro di più di un anno e mezzo, tra ricerca sul campo (con la raccolta di testimonianze rilasciate dai protagonisti o dai loro familiari ed amici) e successiva stesura.
Già in passato Casamassima aveva pubblicato una vasta ricostruzione della storia del brigatismo rosso che era stata pubblicata, con il poco entusiasmante titolo “Il libro nero delle Brigate Rosse” non condiviso dall’autore, da Newton Compton nel 2007.
Il testo recente, pubblicato da un Editore serio (è la prima volta che Laterza mette in catalogo un titolo su tale argomento), non è sfuggito alla regola del titolo scelto dall’editore che può, per alcuni versi, risultare fuorviante anche se più accattivante. Comunque, fin dalle prime pagine, l’autore sottolinea la vastità del fenomeno e annota in una nota a piè di pagina che:”Sono stati 20.000 gli inquisiti per i fatti di lotta armata; 4200 sono stati incarcerati a seguito dell’accusa di banda armata o associazione sovversiva; 300 hanno avuto pene con meno di dieci anni, oltre 3100 più di dieci anni, quasi 600 più di quindici anni, centinaia gli ergastoli. Oltre 50000 anni di galera sono stati nel complesso già scontati. Dei 4200, circa 200 (tra cui 40 donne) sono ancora detenuti, parzialmente o totalmente. Tra loro 77 sono ergastolani” (pag.16).
La parte più importante del testo è sicuramente quella costituita dalle testimonianze rilasciate a Casamassima da alcuni dei diretti protagonisti della scelta armata: Renato Curcio, Tonino Loris Paroli, Piero Bertolazzi, Prospero Gallinari e Raffaele Fiore.
Tale importanza non è dovuta tanto all’autenticità delle testimonianze, quanto piuttosto al fatto che dalle parole degli intervistati è possibile risalire ad una ricostruzione più accurata di quello che fu l’intricato percorso, sia soggettivo che politico-militare, della principale formazione della lotta armata italiana a cavallo tra gli anni settanta e ottanta.
Su questo punto Casamassima è chiarissimo: non vi è discontinuità nella storia delle BR di Curcio e quelle di Moretti , come talvolta la vulgata complottistica del caso Moro potrebbe fare pensare. Se mai la differenziazione di obiettivi, scopi e metodi di intervento si è andata accentuando dopo l’affaire Moro, con la nascita del partito guerriglia e tutte le sue successive implicazioni.
Anche se, nel presentare e commentare le diverse testimonianze, raccolte in capitoli separati, l’autore tende a sottolineare la dialettica esistente, talvolta contraddittoria fino al limite della rottura o della reciproca espulsione, tra militanti detenuti e militanti in libertà.
Ma tale dialettica, si sottolinea, non è stata mai dovuta all’uso o meno della violenza, quanto piuttosto alle differenti urgenze poste in atto dall’essere carcerati o dal porsi ancora all’interno della classe operaia delle grandi fabbriche (di Torino e Milano in particolare) e in libertà.
All’interno di questi percorsi, talvolta coincidenti e talvolta in contrasto, anche per i differenti caratteri degli attori principali, particolare attenzione è riservata alla figura della compagna Mara: Margherita Cagol.
Dopo il primo arresto di Renato Curcio sarà lei a riprendere in mano le redini dell’organizzazione, insieme a Moretti, e a organizzare la clamorosa evasione del primo dal carcere di Casale Monferrato il 18 febbraio 1975. Sarà però anche la prima a cadere sotto il piombo di Stato, in una sorta di vera e propria esecuzione sommaria, seguita a un conflitto a fuoco in cui rimangono feriti gravemente anche due carabinieri, il 5 giugno dello stesso anno.
Le cronache di Casamassima delle vicende della lotta armata sono state sempre molto attente alla storia delle donne in armi, a partire da un suo precedente testo intitolato, appunto, Donne di piombo. Undici vite nella lotta armata, edito nel 2005. Così oltre alla figura di Margherita Cagol, l’autore ricorda anche che nel processo contro la colonna Walter Alasia “della sessantina di imputati una quarantina erano donne, cioè oltre la metà” (pag.79).
Questo dato femminile non è dovuto alla necessità di inserire note di colore all’interno della narrazione degli avvenimenti, ma risponde alla finalità, perseguita con attenzione, di ricostruire le origini sociali dei militanti, le loro precedenti esperienze politiche (spesso legate, per i più anziani, al PCI), le ragioni del disincanto e delle delusioni che li hanno portati al salto verso la clandestinità.
L’identità proletaria, fin dall’infanzia, caratterizza molte delle esperienze e delle scelte qui analizzate, a differenza di altre esperienze di lotta armata (italiane, europee, americane e giapponesi) che, spesso hanno visto entrare in azione studenti, intellettuali oppure sottoproletari.
Ma due temi sembrano uscire con particolare rilevanza dalle testimonianze e dalle riflessioni contenute nella parte più soddisfacente del testo: il primo è quello del pentitismo e della dissociazione come strumento di delegittimazione e indebolimento non solo della lotta armata, ma dello stato di diritto e della verità storica nel loro insieme; il secondo è quello della tortura applicata scientemente per intimorire e costringere a confessioni, anche false, gli imputati.
Proprio questi problemi sono, forse, ancora oggi alla base della scarsa diffusione di indagini storiografiche accademiche sulla lotta armata, più ancora forse del suo procrastinarsi in forme più o meno perniciose e diffuse nel momento storico attuale.
Là dove il movimento reale è sempre più facilmente accusato di terrorismo, là dove le torture applicate in occasione del massacro della Diaz e di svariati altri arresti “preventivi” e là, ancora, dove lo strumento del pentitismo è diventato essenziale per la ricostruzione, presunta o reale, di ogni percorso di illegalità, politica o meno, la ricostruzione dei processi non solo giuridici, ma anche militari, repressivi e carcerari di quegli anni non può essere cosa gradita al potere accademico, politico ed economico.
L’epigrafe tratta da Tony Judt, storico ed accademico britannico di origini ebraiche ma profondamente critico della pratica sionista che pur aveva precedentemente appoggiato, vale a spiegare, in buona parte, l’intento del libro di Casamassima:”Il passato è un paese straniero e non possiamo tornarci. Ma c’è qualcosa di peggio che idealizzare il passato (o raffigurarlo a noi stessi e ai nostri figli come una stanza degli orrori) ed è dimenticarlo”.
Ciò che non convince del testo, però, è l’ultima parte, quella dedicata, da un lato, agli irriducibili veri e propri e, dall’altro, ai percorsi esistenziali delle vittime.
Questa parte, che comprende gli ultimi tre capitoli, sembra rispondere più a esigenze di completezza volute dall’editore che non alle intenzioni reali dell’autore che proprio qui, a differenza del resto del testo e degli altri suoi testi, scivola su qualche buccia di banana posta sul suo cammino dalle cronache giornalistiche, insieme a testimonianza di membri delle forze dell’ordine o di familiari e amici, utilizzate al posto di testimonianze dirette, non concesse per volontà dei singoli militanti oppure non raccolte per espresso divieto delle autorità giudiziarie all’ingresso del redattore all’interno delle strutture carcerarie.
È questo aspetto a costituire, in tempi di fin troppo facile criminalizzazione dell’antagonismo, il neo, non del tutto secondario, di un testo che, per altri e numerosi aspetti già sottolineati, stimola l’interesse e l’attenzione di chi ne affronta la lettura. Pertanto, in mancanza di testimonianze non filtrate dai media o da ragioni di interesse affettivo o giudiziario e di sentenze definitive, sarebbe stato, in alcuni casi, meglio soprassedere.