di Andrea Scarabelli
[Questo racconto è uscito originariamente sul numero 754 de Il calendario del popolo, dedicato a Il default della democrazia, edito da Sandro Teti Editore, uscito nello scorso marzo.]
Quando suona la sveglia Giulio è di nuovo lucido, perfettamente cosciente, incapace di stabilire da quanto tempo stia lottando per tornare del dormiveglia. Tiene il mondo sotto le palpebre chiuse. Si alza. Lo cerca fuori dalla finestra. La sua schiena è un groviglio di cordoni duri, sfibrati. È oggi. Lo farà oggi. Michele intanto dorme. Tra di loro ci sono una ventina di chilometri. Tra poche ore dovranno azzerarsi.
I gesti di Giulio — la colazione, la doccia, i vestiti — sono come fuoriusciti dal loro asse abituale. Hanno perso l’equilibrio mantenuto a fatica negli ultimi trent’anni. Il sonno di Michele si contorce in una successione di sogni sminuzzati. Giulio si mette al computer, lento, a fissare le prime pagine dei quotidiani online. Le notizie sono ridotte a sintagmi che si avvitano concentrici verso un’identica mancanza di senso. Spartiscono solo un senso di allarme eccitato, come sei i giornalisti fossero feticisti delle cattive nuove. Sua moglie gli porge in silenzio un’altra tazza di caffè. È preoccupata. Giulio guarda l’orologio digitale nell’angolo in alto a destra dello schermo. È ancora troppo presto. Lo è sempre, da due mesi a questa parte. Oggi deve trovare le parole per dirlo a Michele.
Michele si sveglia con il rumore di vetri rotti. È il giorno del ritiro dei rifiuti condominiali. Si butta a sedere sul letto stropicciandosi gli occhi. Perché non ha sentito la sveglia, perché? È tardi e non riesce a muoversi in modo coordinato. La bocca impastata gli fa ricordare la serata di ieri. Con un amico, qui a casa. A bere troppo. Le notti in giro per locali sono solo un ricordo, neanche molto rimpianto. Resta sotto la doccia a lungo. Prova a fare colazione ma si deve limitare al caffè, la nausea è forte. Intanto sul computer controlla posta e notizie. Le nuove mail sono spam o newsletter indesiderate. La pubblicità automatica dice: cerchi lavoro? Noi cerchiamo te! I titoli di testa sono amputazioni in stampatello. Michele si accorge dell’ora. Cristo, com’è possibile che sia già così tardi? Ormai mio padre sarà in viaggio.
Giulio è in macchina. Esce dal recinto protetto del condominio in cui abita. Esce dal centro abitato. Dalla cittadina di provincia in cui vive da ormai vent’anni. Dalle sue imitazioni limitrofe. L’autoradio spenta. Il rumore del riscaldamento. S’immette nella strada statale. I suoi occhi imprigionano e rilasciano capannoni, prostitute, detriti, macchine, furgoni, cartelli anneriti, erba marrone, cielo bianco opaco. Meglio muoversi in anticipo. Di questi tempi non si può mai sapere. Non c’è sciopero dei mezzi, oggi, almeno in teoria, ma non sono da escludere blocchi imprevisti. Settimana scorsa è successo. È poi ci sono i taxisti che protestano. I camionisti sulla tangenziale. Le nuove regole d’accesso in città e le corsie preferenziali. Ci sono incidenti, tram che deragliano, fuoristrada che macinano pedoni, ciclisti schiacciati dagli autobus, motorini invisibili, l’emergenza inquinamento, lavori in corso per grattacieli fantasma, nuove linee promesse da sempre, maratone, cortei, telecamere, tombini intasati che minacciano alluvioni. Ma tanto non piove.
Michele capisce che non ce la farà mai ad arrivare in tempo. Non può prendere i mezzi: dall’appuntamento lo separa meno di un’ora — dov’è scomparsa la mattinata, in quali crepe è defluita? — e abita in estrema periferia, dalla parte opposta della città rispetto a Giulio. C’è chi si sposta il meno possibile dai propri genitori. Lui ha bisogno di chilometri per respirare. La distanza fisica in effetti è poca, ma lo salva il traffico. Ora però gli fa meno comodo. Deve per forza prendere la macchina: è l’unico strumento con cui è possibile forzare i tempi. Certo è grottesco raggiungere in quel modo suo padre, considerato ciò che deve dirgli: vuole restituirgli l’automobile. L’utilitaria relativamente nuova (immatricolata sei anni prima) che i suoi genitori avevano sostituito con una nuova station wagon. Michele aveva polemizzato. Non andate mai da nessuna parte! E poi, papà, per il tuo lavoro l’utilitaria va benissimo. Tanto la lasci in stazione e prendi il treno. Ma loro avevano insistito. Era giusto che anche lui avesse la sua macchina. Certo, in una grande città non è necessaria, ma non si sa mai. È una questione di libertà. Metti che vuoi farti un viaggio.
Gliel’avevano data lucida, profumata, senza traccia tangibile di acari. Entrando nell’abitacolo, Michele pensa che quella scatola di lamiera ormai è come lui. Ubriaca di immondizia. Butta sul sedile di dietro un sacchetto, una felpa, alcune custodie di dischi. Ripassa il discorso: pagherà il passaggio di proprietà, la porterà finalmente a lavare. Il motivo? Semplice, papà. Ho fallito. Sì, è inutile che mi guardi così, ho fallito. Devo reagire in qualche modo, e incomincio da qui. Non riesco a pagare l’assicurazione. Il bollo. I tagliandi. La revisione. La benzina. Le multe, le poche volte che la uso. La manutenzione. E sai perché non riesco? Sai dove ho fallito? Esatto, il lavoro. Michele non vuole neanche entrare nell’esplosione di significati che questa parola porta con sé. Ha spiegato mille volte, con le lacrime sparite e la voce rotta di rabbia, la sua presunta carriera imposta da freelance. Freelance. Che parola del cazzo. Si cerca di dare una dignità e persino un retrogusto romantico e avventuroso al fatto che nessuno vuole assumere. Nessuno vuole pagare, e bisogna accettarlo. La prossima volta che sento la parola precariato, pensa, ammazzo qualcuno. Sono le parole a fotterci. Si accorge di stare stringendo troppo il volante. Sta guidando da due minuti ed è già in coda. Strano, non dovrebbe essere un orario di punta. Riflette: è stato suo padre a chiamarlo, a domandare d’incontrarsi. Senza sua madre. Stranissimo. Da quando hanno fissato l’appuntamento, Michele ha catalogato la data come quella in cui affrontare finalmente la questione automobile. Non si è mai chiesto però le ragioni dell’incontro, forse suo padre ha qualcosa da dirgli? Cerca dei precedenti, prova a concentrarsi. Il mal di testa continua a interferire. Non riesce a immaginare una possibile comunicazione.
Giulio è un guidatore prudente, in città si sente sotto attacco continuo. Ha paura, intimamente. Non riesce ad arrabbiarsi con chi taglia la strada, con chi prova ad andargli addosso senza neanche guardare, certo che si sposterà. La situazione oggi è quasi violenta. A ogni incrocio le macchine si contendono il passaggio, che abbiano il verde o meno. Non sembra essere rimasto un solo metro quadro disponibile. Giulio prova un percorso alternativo, a memoria. Ha vissuto qui dalla nascita fino al trasferimento in provincia, però sono anni che si limita agli stessi tragitti, e infatti viene tradito dai sensi unici. Si ritrova al punto di prima. Non deve perdere la calma, è partito con largo anticipo; che però si sta assottigliando.
Michele sputa fuori dal finestrino, bestemmia, litiga con un altro al volante, lascia perdere. Non si riesce ad avanzare. La città ha smesso di funzionare, questa l’unica spiegazione. L’autoradio, accesa, continua a utilizzare parole straniere per non avvicinarsi troppo all’unico concetto che monopolizza da mesi le notizie come una bestia feroce, finita chissà come in libertà: hanno fallito. Tutti. Ovunque. E il crollo è in corso. Qualcuno dovrà pur pagare, no? Michele, dall’inizio, ha capito che di certo sarebbe toccato anche a lui.
Giulio ha il cuore che batte forte e la tentazione di piangere. Non era così, pensa, una volta non era per niente così. Negli altri abitacoli da cui è circondato vede uomini e donne soli, mai più di uno per vettura. Parlano agli auricolari, al telefonino, a sé stessi; cantano con la radio. Ma soprattutto urlano insulti e mimano aggressioni isteriche. La città, intorno, non gli è mai sembrata così lontana dal concetto di metropoli. Arriverà in ritardo, ora lo sa con certezza. Manca ancora troppo alla meta, senza contare ovviamente la ricerca del parcheggio, ma tanto la metterà nel solito silos a pagamento. Anche se, ormai, dovrebbe stare più attento con i soldi. È questo che deve dire a Michele: da due mesi è stato licenziato. A cinque anni dalla pensione. Forse a dieci, se passerà la nuova riforma. Certo, alla sua età non sarà per niente facile trovare un nuovo impiego. Non lo è neppure per Michele, che non ha alcuna pretesa economica, e intanto sta prosciugando il serbatoio dei vent’anni. Deve dirgli: ho fallito e non so cosa fare. Un po’ di soldi da parte ci sono, ma chissà. Qualcuno ha spogliato la sua vita di ogni senso, e non ha idea di chi sia stato e perché.
Una volta non era così, ripete Giulio, convinto, immobile in un punto qualsiasi della città.