di Simone Sarasso
Pubblichiamo il prologo del nuovo romanzo di Simone Sarasso, Invictus. Costantino, l’imperatore guerriero, Rizzoli, Milano 2012, pp. 592, € 8,80
[…] tutto sono stato io, eppure nulla mi giova.
attrib. a Settimio Severo
Nicomedia, 22 maggio 337 d.C.
Il vento, che sa di sale. E la luce d’alabastro delle finestre.
L’Impero, là fuori, con il cuore in gola. È il tramonto. La fine d’una vita intera.
Costantino fissa la porpora gettata sul pavimento, la veste bianca che ha indosso, leggera come lo scirocco. Guarda le proprie mani. Mani che hanno stretto il mondo, ora buone a malapena per aggrapparsi alla sedia accanto al letto.
Vacilla. La testa ingombra di febbri e di pensieri. Si specchia negli occhi umidi di Eusebio.
Il vescovo sbatte le palpebre e lo osserva come si ammira un prodigio. Come Cristo sceso in terra.
Costantino non l’ha mai sopportato: quel piglio contrito, quelle manine da sarta, la continenza a mezza voce. E quell’insopportabile puzzo d’arianesimo che ancora si porta appresso.
«Reggimi» gli comanda. «Non voglio morire prima d’aver visto un altro tramonto».
Eusebio china il capo. Afferra i polsi ossuti dell’Imperatore, lo sostiene come fosse d’argilla.
Costantino si allaccia alle spalle del metropolita. Non ha quasi più fiato in corpo.
La bifora, a Occidente, regala una visione da spezzare il respiro: oro e rosso, a perdita d’occhio. Acqua e vento impastati di sole. Dipinto di fuoco che strazia.
«È questo, dunque, che mi aspetta tra le braccia dell’Altissimo?» la voce dell’Augusto è delusa. «Bellezza senza fine?».
«E molto di più, mio signore. Il Padre ti accoglierà alla Sua corte: dimorerai con gli spiriti eletti, contemplerai il Suo volto, banchetterai alla Sua tavola.» Eusebio è in estasi, cerca di darsi un contegno.
Il momento è prossimo. L’Imperatore Santo è sul punto di ricongiungersi con Dio.
E la Provvidenza ha scelto proprio lui, il figlio di un ignobile contadino di Palestina, per assistere al miracolo.
Dio Padre è davvero misericordioso.
Costantino è colpito da un accesso di tosse. Schizzi vermigli sul mosaico del pavimento, ombre scure sulla seta vescovile, convulsioni, singulti, risate asfittiche: «Certo, come no? Siederò alla Sua destra…».
Eusebio sorregge: braccia, gomiti e spirito. Aiuta il vecchio sovrano a sedersi sul letto. Gli monda la fronte e la bocca con il lino umido. Sangue nell’acqua, a scandire secondi eterni.
Eusebio rassicura: «Mio signore — l’Altissimo perdoni la mia impudenza —, ne saresti certo degno. Hai dedicato la vita intera a Dio. Alla gloria Sua e del Suo popolo. Tu meriti la Grazia eterna più di ogni altro…».
Costantino scuote il capo. Respira.
«No, prete. Ti sbagli: il Regno dei Cieli è chiuso a doppia mandata per quelli come me. Una coltre d’orrore mi grava sull’anima. E finché non me ne sarò sbarazzato, non ci sarà nessuna salvezza…».
Eusebio salta in piedi, molla di colpo la mano del padrone. Scatta, richiamato all’ordine da parole pesanti come macigni: «Mio signore, perdona questo servitore sbadato e incosciente. Sono sopraffatto dalle emozioni, dimentico l’ovvio. Tutto è pronto per il battesimo: possiamo iniziare subito».
E, senza nemmeno finire la frase, cinge la vita di Costantino. Tenta di risollevare dal letto di piume i lombi sfiniti.
Ma l’Imperatore lo allontana in malo modo, scuote il capo grigio: il collo secco ed enorme che ciondola a destra e sinistra. «Tieni le mani a posto, prete. E non darti pena: non è ancora tempo di abluzioni. Comunque non parlo del peccato originale e nemmeno di tutte quelle sciocchezze che ho sussurrato alle orecchie dei confessori…».
Gli occhi dell’Imperatore s’incendiano: «Parlo di sangue! Un mare di sangue innocente!».
Eusebio molla la presa. I palmi roventi.
L’Imperatore riprende, intreccia le dita, sfrega calli antichi: «In nome della maggior gloria di Dio e della libertà del popolo cristiano ho ucciso, ingannato, saccheggiato e messo a ferro e fuoco metà del mondo conosciuto. Ho visto la croce macchiarsi del sangue degli ignobili. E l’ho sporcata di quello dei giusti. Quella che tu chiami grazia, Eusebio, io la chiamo opportunità. Quella che tu chiami libertà, io la chiamo guerra».
Eusebio è occhi negli occhi con l’Augusto, adesso. L’azzurro salato precipita nel nero senza fondo.
Una luce magra attraversa Costantino. Un’ombra fulminea che gli cambia l’umore d’un soffio. Afferra il vescovo per il bavero. Strazia il verde della veste, non smette di fissarlo nemmeno un minuto: «Questa è la fine della strada, vecchio. Indietro non si torna. Per tutta la vita ho creduto che Lui non mi guardasse, che si accorgesse solo del meglio e ignorasse l’orrore. Ma oggi so che non è così. Morirò questa notte: Costantino il Grande abbandonerà il mondo, dopo averlo unito. Ma a nulla saranno valsi gli sforzi, la fede, i morti e il tempo sprecato, senza la Verità».
Gli occhi dell’Imperatore sono lucidi.
«È per questo che ti ho fatto chiamare, amico mio. Voglio che tu sappia ogni cosa. Che Dio Padre ascolti quello che ho da dire. Ogni singolo passo compiuto per giungere fino a qui. Ogni sacrificio, ogni battaglia. Ogni sopruso. Tutto quanto deve finire sulla bilancia. Allora, solo allora, quando avrai finito di ascoltare…», la voce s’abbassa d’un tono, «e quando Lui avrà finito di pesare…».
Un sospiro leggero.
«…sarai libero di battezzarmi».
Il cuore di Eusebio perde un battito.
«Ma forse, a quel punto, non avrai più tanta voglia di armeggiare con l’acqua santa…».
L’Imperatore si accomoda sul giaciglio. Rizza la schiena, appoggia il capo dolente. Il vescovo afferra uno scranno e lo sistema al suo capezzale.
Costantino inizia a narrare.
Il tempo si ferma, scorre a ritroso. Storie di sabbia, sole e terre lontane.
Eusebio beve ogni parola dalle labbra spaccate del vecchio.
Il vecchio parlerà per ore.
Là fuori, sul porto, un cielo di lava cola in silenzio nel mare gelato.
L’ultima notte è arrivata.
Arriva sempre.
La fine è appena iniziata.