di Alessandro Bresolin
30 aprile
Nel centro di Tunisi, alle prime ore del pomeriggio l’atmosfera si surriscalda. Sull’avenue Bourguiba sfilano due diversi cortei che rappresentano in sé due esigenze importanti, due tra i tanti nodi che la Tunisia dovrà cercare di sciogliere. Da un lato gli studenti universitari dell’Union Générale des Etudiants Tunisiens (UGET) sfilano reclamando ua modernizzazione del sistema, una sua messa a norma rispetto agli standard internazionali, dall’altro i ragazzi della regione mineraria di Gafsa, nel sud, che da due settimane sono in sit-in davanti al Ministero del Lavoro. Entrambi hanno le idee chiare. Gli studenti di medicina distribuiscono un opuscolo bilingue arabo/francese in cui spiegano chiaramente le loro posizioni e le loro richieste al governo, mentre i ragazzi di Gafsa sono disperati e gridano la loro rabbia. Le cause della loro disperazione, che ha spinto alcuni di loro a cominciare uno sciopero della fame e altri a tentare il suicidio (tre ospedalizzati nei giorni scorsi), sono la miseria e la disoccupazione al 40%, una media doppia rispetto a quella nel resto del Paese. Le regioni dell’interno non hanno ancora avuto alcun vantaggio dalla rivoluzione: «Siamo stati noi a fare da volano alla rivolta, il bacino minerario di Gafsa si è ribellato a Ben Alì per primo, già nel 2008, e ora la troika dei partiti al governo si perde a discutere su come distribuire i posti pubblici, sul niqab da imporre alle donne, sul controllo dell’informazione, e si dimentica di noi!»
Verso le 19.00 torna la calma, ma nel tratto dell’Avenue che va dalla Medina a Piazza 14 gennaio 2011, persiste una certa preoccupazione per le manifestazioni del giorno dopo. Oltre a quella organizzata dall’UGTT e dai movimenti laici, il governo ha autorizzato in extremis una seconda manifestazione ufficiale in cui confluiranno le correnti politico-sociali islamiste. Numerosi assembramenti di gente che discute. L’agitazione tradisce il timore di nuovi scontri. Il ricordo di quanto è successo appena tre settimane fa è ancora fresco: si commemoravano i martiri del 9 aprile 1938, una data simbolo di quando il partito indipendentista neo-Destour aveva invitato a un grande sciopero unitario contro il potere coloniale, che represse nel sangue le manifestazioni. Quest’anno le manifestazioni del 9 aprile erano due, contrapposte: la prima, ufficiale, governativa, con militanti e vertici del partito islamista Ennahdha in prima fila; la seconda, non autorizzata, sull’avenue Bouguiba, raggruppava associazioni, partiti politici e deputati dell’opposizione, difensori dei diritti umani, disoccupati, giornalisti e semplici cittadini, che sfilavano contestando la decisione del ministro dell’Interno di vietare quella stessa manifestazione. La giornata è finita con violenti scontri con la polizia, aiutata e pilotata da gruppi di civili armati di bastoni e spranghe di ferro. Gran parte dei manifestanti hanno riconosciuto in quelle bande i militanti di Ennahdha e i salafiti, che da mesi stanno alzando il livello della violenza e dell’intolleranza. Per quanti hanno fatto la rivoluzione sembra il materializzarsi dell’incubo peggiore, cioé un ritorno ai metodi securitari dell’ancien regime. La paura di un doppio sistema repressivo, uno legale e uno informale. Il sindacato e l’opposizione laica ripartono quindi dal primo maggio per protestare contro la crisi economica e contro un governo che, si teme, voglia imporre a metà del popolo tunisino il modo in cui vivere.
La prima cosa che balza agli occhi a chi conosceva la Tunisia sotto Ben Alì, è lo sguardo della gente, poterci discutere liberamente. Non si percepisce più quella silenziosa e opprimente cappa che pervadeva la vita quotidiana. I tunisini non hanno più paura, da una parte e dall’altra. Chi è religioso, non ha più paura a farsi crescere la barba o a mettersi il niqab, ma allo stesso tempo, per ora, chi vuole essere e sentirsi libero può cercare di esserlo. Oltre alla crisi economica, dovuta anche alle lentezze della fase post-rivoluzionaria, oggi la tematica più sentita è quella della libertà d’espressione. C’è il tentativo del governo provvisorio di riportare all’ordine i giornalisti, a colpi di minacce o progetti di legge e il caso paradigmatico di questa situazione è il processo intentato contro il canale televisivo Nessma, colpevole di aver trasmesso il cartone animato Persepolis, tratto dall’omonimo fumetto di Marjane Satrapi. Un film che tratta in modo diretto e anticonformista della rivoluzione iraniana e che dà un’immagine iconoclastica dell’islam. Dopo la sua proiezione, gruppi islamici hanno assaltato la sede dell’emittente, aggredendo alcuni giornalisti. Il direttore e due giornalisti di Nessma sono stati denunciati per «attentato all’ordine pubblico, al buoncostume e ai valori della religione» da parte di una madre che sostiene che suo figlio è stato male tutta la notte, dopo aver visto Persepolis. La sentenza del processo, seguito da manifestanti pro e contro Nessma e da decine di giornalisti, osservatori stranieri e di Amnesty International, è attesa come una cartina di tornasole per capire dove sta andando il Paese. La clemenza o la severità verrà interpretata come il nuovo indirizzo poltico. A conferma dell’importanza simbolica che ormai ha assunto questo processo, la sentenza è prevista il 3 maggio. Strana coincidenza, durante la Giornata mondiale della libertà di stampa.
Alle 21.00 sulle scalinate del Teatro Municipale comincia un concerto di musica popolare organizzato dall’UGTT. La folla che assiste è composta da donne con e senza velo, famiglie con bambini, giovani, alcuni rasta, e i caffé attigui sull’avenue sono pieni. La polizia assiste e osserva, discretamente presente fino alla fine del concerto e oltre. I militanti del Parti Socialiste de Gauche (PSG) distribuiscono volantini che invitano al rassemblement previsto per l’indomani, alle undici.
1 maggio
Fin dalle 9-9.30 sotto un sole battente comincia ad affluire in modo esuberante ma ordinato una gran folla con striscioni e bandiere. Le forze dell’ordine pattugliano numerose l’avenue e aspettano, intorno ai loro pullman gialli posteggiati in alcune vie laterali. Lo striscione più grande campeggiava anche la sera prima al concerto alle spalle dei musicisti, recita il motto principale di questo 1 maggio tunisino: La dignité des travailleurs fait partie de la dignité de la patrie.
La folla si fa numerosa già alle 10.30, e ad un certo punto vedo sfilare manifestanti che tirano dritto per l’avenue Bouguiga, dirigendosi oltre, verso l’avenue Mohamed V. Hanno altri simboli, esclusivamente in arabo. Sono quelli della manifestazione autorizzata in extremis dal governo. Alcuni barbuti passano sfidando con lo sguardo i ragazzi che stanno finendo di organizzare il corteo. Ci sono frizioni, un gruppo di salafiti davanti al Teatro Municipale cerca lo scontro con la troupe televisiva di Nessma che è lì a fare il suo lavoro. Un salafita isola una giornalista, comincia a insultarla e poi, dopo minacce e insulti, la spinge con una manata in faccia. Interviene la polizia, che circonda gli islamisti e protegge la giornalista. I salafiti intonano i loro inni e dei giovani dell’UGET li affrontano a muso duro issando un cartellone provocatorio. Quando la situazione sembra volgere al peggio, interviene una mediazione tra un dirigente dell’UGET, un salafita e un poliziotto, per separare i due schieramenti. La situazione torna presto alla calma.
Seguo i salafiti e mi dirigo verso av. Mohamed V tenendo come punto di riferimento diversi giornalisti con la pettorina Press, che mi spiegano in presa diretta: «Qui manifesta l’Union Tunisienne des Travailleurs (UTT), un sindacato nuovo che c’è da dopo la rivoluzione, diverso rispetto alla storica UGTT, di tendenza laica e di sinistra. L’UTT dice di voler tenere lontana la politica dal sindacato, ma c’è il sospetto che dietro a lei ci sia Ennahdha, che così cerca di dividere il movimento sindacale. Anzi, posso dirti che è così».
«La gente ha paura che gli islamisti si approprino della rivoluzione, all’interno della quale i religiosi hanno avuto un ruolo marginale, attendista fino all’ultimo. I quadri di Ennahdha erano all’estero o in galera, così hanno vinto sull’onda dell’emotività, perchè tra un candidato che aveva subito la galera e uno che magari sotto Ben Alì era sì represso ma che riusciva comunque a esistere la gente ha preferito il primo. Ma una volta uscita dalla clandestinità Ennahdha deve scontare due limiti, da un lato i dirigenti non capiscono più la società tunisina, che è andata avanti, e dall’altro non hanno personale politico adeguato. E di questo sono consapevoli».
«Oggi i tunisini sono in strada per ricordare alla politica: attenzione, siamo qui».
Sull’avenue Mohamed V i manifestanti sono tanti ma non così numerosi, e scandiscono a gran voce «lavoro, libertà, dignità». Meno donne e quasi tutte velate, ma soprattutto niente bambini. Il corteo dell’UTT è più claustrofobico e meno colorato di quello dell’UGTT e ritorno sull’avenue Burguiba. A metà strada tra le due manifestazioni, alcuni cartelli issati da donne richiamano al rispetto reciproco e all’unità: «Per una Tunisia moderna, musulmana, tollerante», «Dobbiamo imparare a vivere insieme come fratelli». Essendo una manifestazione sindacale non sono presenti vessilli e bandiere di partiti politici ma, poco oltre, sull’avenue Burguiba, distinguo i ragazzi del PSG con i loro striscioni, le foto dei martiri della rivoluzione e il cartello NO CONTROL! Ci sono quelli del Parti Démocratique progressiste (PDP) che volantinano e dicono «bisogna fare fronte tra movimenti progressisti», e i comunisti con le effigi di Marx, Engels, Lenin e Che Guevara. I militanti dell’UGTT scandiscono slogan a favore del lavoro, della libertà sindacale, della dignità e dell’unità nazionale. Tanta gente comune, tante mamme con bambini, uno di questi avvolto dalla bandiera tunisina e in faccia la maschera di Anonymus.
Il corteo finisce con il discorso del segretario del sindacato, Hassine Abbasi, incentrato sulla necessità di una riconciliazione e sull’imperativo del dialogo. Abbasi non risparmia durissime critiche al governo, lo mette davanti alle sue responsabilità per l’immobilismo e lo stallo che si è venuto a creare in questa fase post-rivoluzionaria. Al termine la gente defluisce senza problemi, tornando a casa o finendo di discutere nei caffè. I fantasmi della vigilia sono svaniti, nessun intervento particolare delle forze dell’ordine, nessuno scontro tra manifestanti.
2 maggio
La stampa parla di un primo maggio riuscito, partecipato, con oltre ventimila persone. Tutti elogiano il sindacato, riconoscendogli un ruolo importante nella democratizzazione del Paese per la sua capacità di unire. Ma la gente che ha voglia di parlare si sfoga in ogni direzione. C’è lo scettico di sinistra, che se la prende con la scelta dei partiti laici di stare all’opposizione di un governo che è comunque costituente e transitorio, visto che la Tunisia tra un anno dovrebbe tornare al voto per le prime vere elezioni: «dopo le elezioni vinte da Ennahdha i tre principali partiti hanno rifiutato l’offerta di entrare a far parte del governo che doveva scrivere la costituzione. Hanno detto no, con Ennahdha non collaboriamo. Ma è stata una scelta miope, perchè così hanno lasciato campo libero a Ennahdha. La quale, non avendo uomini preparati, ha comunque scelto uomini di diversa estrazione per certi posti. Non era quello il momento di stare all’opposizione, ma di stare dentro e farsi valere».
Uno studente dice che «fino all’anno scorso la politica era vietata e di conseguenza non interessava a nessuno, mentre adesso la politica è la prima cosa, tutti seguono e discutono. E non è vero che adesso c’è meno sicurezza, la libertà è la migliore sicurezza. Sotto Ben Alì la situazione appariva tranquilla, in realtà la gente viveva nel terrore, era spaventata, e quindi insicura. Ora c’è molta meno polizia in giro tutto sembra meno controllato, ma in realtà questo è compensato dal fatto che i cittadini sono molto più partecipi».
A preoccupare maggiormente la gente è la crisi economica. Il turismo di massa è crollato e il sistema produttivo stenta a ripartire. Le differenze e le fratture qui sono tra nord e sud, ma anche tra interno e costa. La situazione in alcune aree del paese non è affatto tranquilla, come nei distretti di Tozeur e Gafsa, dove c’è un distretto minerario in cui i lavoratori sono in lotta e i salafiti hanno fatto proselitismo. Infatti, dalla radio e dai giornali giungono notizie di un primo maggio tranquillo anche a Sfax, seconda città del Paese, ma di gravi incidenti a Gafsa e Tozeur. La situazione di quella regione mineraria del sud è in sé paradossale. La Tunisia è il 5° produttore al mondo di fosfati, una grande ricchezza per il Paese, ma della quale non resta nulla alle popolazioni locali, che da mesi manifestano nei modi più diversi la loro insoddisfazione: scioperi, blocchi delle autostrade, sit-in, incendi di commissariati. Due settimane fa, l’intensità delle proteste ha costretto le autorità a decretare il coprifuoco notturno. Davanti a tanto conflitto, le richieste della popolazione del bacino appaiono concrete e ragionevoli: chiedono che si sblocchi una tranche di investimento già concordata per 400 milioni di dinari, la quale, da sola, consentirebbe la creazione di una banca regionale, di un cementificio, di alcune infrastruture e il finanziamento di servizi sociali per l’istruzione, la salute, la cultura…
3 maggio
Se la prima cosa che sorprende nella gente sono gli occhi, la seconda, che discende dalla prima, è la voglia di partecipazione. Se sotto Ben Alì dei telegiornali i tunisini arrivavano a seguire solo lo sport e poco altro era perché il primo quarto d’ora veniva consacrata alla quotidiana uscita di casa del presidente. Ora la discussione e il dibattito politico sono diventati fondamentali e si temono i tentativi di tornare indietro. Per questo la Giornata Mondiale della Libertà di Stampa è così sentita. Nel suo rapporto annuale sullo stato della libertà di stampa in Tunisia, il Syndicat National des Journalistes Tunisiens (SNJT) da un lato constata che la libertà di stampa è una delle principali conquiste della rivoluzione, dall’altro denuncia che le aggressioni ai giornalisti stanno raggiungendo il limite di guardia: più di cinquanta aggressioni tra il 3 maggio 2011 e il 3 maggio 2012, una media di un’aggressione a settimana. E’ però opinione comune che sotto la dittatura i giornalisti non venivano aggrediti perché non si sognavano nemmeno di parlare, si autocensuravano in partenza. Quello che è cambiato secondo Aymen Rezgui, dell’Ufficio esecutivo del SNJT, è che “prima si sapeva chi imbavagliava e picchiava i giornalisti, facilmente identificabile tra i membri della polizia politica. Ora la polizia non detiene più il monopolio della repressione e dell’intimidazione, a lei si sovrappongono alcuni uomini politici e delle milizie al soldo di alcuni partiti politici».
Il rapporto parla anche di una campagna denigratoria contro i giornalisti, orchestrata dal governo. Si fanno gli esempi di alcune dichiarazioni di membri di Ennahdha, tra cui quella del Ministro ai Diritti Umani, Samir Dilou, che ha accusato i giornalisti di voler «cercare di passare una notte in prigione per cancellare il loro passato e purificarsi dei loro peccati». In realtà, il partito islamista ritiene che i giornalisti siano troppo vicini all’opposizione e cerca in tutti i modi di imbavagliarli, lanciando sospetti annunci di voler privatizzare i canali pubblici. Questi fatti tradiscono una volontà esplicita di voler controllare i media. A questo proposito, la SNJT contesta la nomina ai vertici del sevizio pubblico, lo scorso gennaio, di alcuni ex-propagandisti del regime di Ben Alì, così come il ritorno della censura in nome del religiosamente corretto, come lo testimonia il processo contro Nessma Tv.
Già, il processo a Nessma si chiude oggi, nella giornata in cui si moltiplicano, in radio tv e giornali, i forum e i le tavole rotonde sul ruolo dell’informazione libera in una società che ha conquistato alcune libertà, ma che teme di perderle. Accettare che il processo si svolga contro i giornalisti aggrediti e non contro i loro aggressori di per sé è un fatto che sfugge alla logica, ma non è questo il punto, bisogna ricordarsi che siamo in una fase transitoria tra Ancien Regime e democrazia. Una fase in cui, se da un lato ci sono stati significativi cambi ai vertici di alcuni apparati, dalla polizia all’esercito all’informazione, dall’altro molti uomini degli apparati dello Stato risalgono ancora alla dittatura. Una fase in cui si stanno scrivendo le regole, tra cui quelle che definiscono la libertà d’espressione. La sentenza arriva in giornata: il direttore di Nessma, Nabil Karoui, viene condannato a una multa di 2400 dinari (circa 1200 euro); Nadja Jamel, doppiatrice del film incriminato e Hedi Boughnim, responsabile di redazione, vengono condannati a una multa di 1200 dinari (circa 600 euro) ciascuno.
Un verdetto abbastanza pilatesco, metà fico e metà uva come dicono qui, che viene generalmente considerata clemente. I giudici hanno fatto cadere il capo d’accusa più dirimente, quello di «attentato ai valori della religione». L’accusa voleva che i giornalisti fossero giudicati secondo i codici del diritto penale, invece è stato seguito il nuovo decreto-legge sulla libertà di stampa, che non prevede in alcun modo il carcere. Ma c’è chi sostiene che la sentenza non è affatto clemente, che si tratta comunque di una forma di limitazione della libertà d’espressione visto che non c’è stato alcun disturbo all’ordine pubblico con la diffusione di un cartone animato. Così, i tre condannati sono ben determinati nel voler ricorrerere in appello.
La Giornata mondiale della libertà di stampa in Tunisia è segnata da dubbi e incertezze in un susseguirsi di rapporti, nazionali e internazionali, sullo stato delle cose nel paese. Grosso modo i loro giudizi convergono e le loro conclusioni sono dei moniti che riassumono la situazione: «Il silenzio uccide la democrazia», «Il cantiere è appena aperto». Se nel primo anno post-rivoluzionario si è assistito alla nascita di molte nuove pubblicazioni e a una maggiore libertà, spesso i media si sono ritrovati a dover fare scelte coraggiose, portando avanti nuove esperienze a loro rischio e pericolo. Affrontando restrizioni, aggressioni fisiche e verbali, vuoti legislativi, la mancanza di preparazione professionale dei giornalisti stessi, poco abituati all’imparzialità, alla deontologia, a generi giornalistici diversi dalla cronaca come ad esempio il giornalismo investigativo. Molta strada è stata fatta verso la libertà ma molta resta da fare. Il cantiere è appena aperto, in un paese che tra un anno conta di tornare alle urne per eleggere il primo vero governo e chiudere la fase di transizione.