di Filippo Casaccia
È là che devi andare, laggiù
Oltre il sole, e navigare…
Anche noi italiani abbiamo avuto i nostri piccoli Hendrix.
E venivano tutti da Genova.
Uno era Nico Di Palo, chitarra visionaria e acida dei New Trolls prima maniera; l’altro era Pier Niccolò “Bambi” Fossati, il sognatore dei Garybaldi, uno dei migliori gruppi rock italiani di sempre.
Non so, nell’acqua della mia città, tra gli anni Sessanta e Settanta, doveva esserci qualcosa di particolare e alla generazione dei cantautori era succeduta quella dei rocker: in un laboratorio musicale vivacissimo nacquero band straordinarie come i Delirium (con un altro Fossati, Ivano), i Nuova Idea, gli Osage Tribe, il Duello Madre, i Latte e miele, i futuri Matia Bazar che allora si chiamavano Jet… c’erano fermento e idee e soprattutto grandissima libertà. E veramente il più libero, il più magicamente hippie di tutti loro, era Bambi, chiamato così per il suo amore per la natura e per la poetica abitudine di perdersi nei boschi sopra Tiglieto.
Quando l’ho conosciuto, è stato un incontro che mi ha riempito il cuore, perché Bambi, generoso e povero in canna, gentilissimo e politicamente incazzato, è una persona innocente e talentuosa, che suonava realmente in maniera disinteressata. La musica, per lui, non si faceva per denaro, carriera o affermazione personale, ma per inseguire un sogno di condivisione, pace e libertà.
E questa visione naif e sincera della vita, Bambi l’ha pagata, rimanendo uno splendido segreto per molti appassionati ma non per il grande pubblico.
Ma andiamo con ordine; dunque: per nove anni ho curato sul mensile Rolling Stone una rubrica chiamata “Hard Rock Cafone”. Avevo licenza di sparare in un’ampia riserva di caccia: il rock degli anni Settanta e dintorni, partendo dall’hard rock e divagando allegramente. E tra i primi sfizi che mi son tolto uno è stato raccontare la storia di Fossati, appunto.
Nel 1992 suonavo in gruppo di rock blues e mi capitava di provare in un cubotto di cemento armato che si trovava proprio sopra il cimitero di Staglieno, una location più adatta al death metal sepolcrale che alle mie ignoranti svisate sulla Eko.
A differenza dei miei compagni io ero cane come pochi e lasciavo spesso l’immonda sala prove per fumarmi una sigaretta. Il cubotto era una specie di silo a più piani; ci andavamo la sera tardi, per cui non ho mai appurato cosa fosse stato realmente, in origine, però da un piano inferiore per nulla insonorizzato arrivavano note celestiali: con una certa riverenza mi avevano detto che era Bambi che provava, una gloria underground degli anni Settanta, e io non avevo mai trovato il coraggio di presentarmi per conoscerlo e magari, attraverso l’imposizione delle mani, ricevere un po’ della sua perizia strumentale.
Dopo quindici anni ho recuperato il suo numero di telefono e l’ho chiamato. Mi ha risposto, incredulo che qualcuno volesse intervistarlo (“Ma Rolling Stone, quello? Ma sei proprio sicuro?”), e sono riuscito a organizzare un incontro. Abitava sopra la stazione ferroviaria di Brignole e per raggiungere casa sua bisognava farsi parecchie centinaia di gradini in salita, una fatica che sarebbe stata ben ripagata. Infatti Bambi, finito di impartire una lezione di chitarra, mi ha accolto e mi ha raccontato la sua storia, quella di un ragazzo innamorato della musica.
Genovese purosangue dall’accento marcato, capelli raccolti in una coda, la sigaretta sempre accesa, Bambi individua un preciso punto di svolta nella sua vita: il 23 maggio del 1968, quando Jimi Hendrix suona al Piper di Milano. Lui ha saputo del piccolo tour italiano (Milano, Bologna e Roma) leggendone su un Melody Maker comprato all’edicola della stazione Principe. Assieme al compagno di banco e di avventure Ronzani prende il maggiolone di suo fratello (“Come Thelma e Louise…e nessuno di noi due aveva la patente!”) e affronta notte e nebbia per vedere il concerto. Che è uno shock: “Sembrava fosse atterrata un’astronave… Jimi era un alieno!”; e con una piccola soddisfazione: “Finita l’esibizione, dietro le quinte mi son fatto dare una delle sue sigarette, una Philip Morris senza filtro che ho ancora, tutta sbrindellata…”. Nel frattempo il giovane Pier Niccolò suonava col suo primo gruppo, i Gleemen, che — dopo una frizzante cover di Lady Madonna — arriva all’esordio discografico con l’album omonimo, un disco che trascende il beat dipingendo affreschi psichedelici, sfiorando l’hard come all’epoca solo i Trip avevano osato, e regalandoci il primo compiuto blues elettrico italiano, Chi sei tu, uomo.
Poi si decide di dare una svolta: il gruppo cambia ragione sociale e col singolo Marta Helmuth i Gleemen diventano Garybaldi, le sonorità si induriscono (tra Hendrix e i Deep Purple di Mandrake Root) e arrivano anche le prime censure: la canzone narra di una strega bruciata dall’inquisizione e la Rai non gradisce. Poi l’album che consegna i Garybaldi alla storia, il folgorante Nuda (1972) che è impreziosito dalla più bella copertina del rock italiano, un triple gatefold con una Valentina come da titolo, disegnata da Guido Crepax: semplicemente spettacolare.
Il disco è bello e fresco e tra suite, cascami hendrixiani, improvvisazioni ed esperimenti progressive (nel senso migliore del termine, quello autentico e dell’epoca) rimane uno dei documenti più validi di quella stagione. Bambi non è un chitarrista particolarmente tecnico (anche se leva la pelle a tanti giovinastri di oggi che polverizzano senza senso scale misolidie), ma ha un feeling impressionante e il suo sound in Italia non ha eguali. È la stagione dei grandi raduni pop e i Garybaldi ci sono sempre; aprono per i Van Der Graaf Generator, i Santana e anche i Bee Gees (!) e suonano ovunque, molte volte a fianco degli amici Area. L’imperativo di quegli anni viene abbracciato in pieno da Bambi: “Essere originali e unici, prima di tutto!”. E poi condividere, la musica e la visione del mondo: “Ero uno hipster, uno hippie con una tendenza politica, chiaramente di sinistra… parlarne oggi fa strano, ma comunicare — per noi — era la cosa fondamentale!”. Le foto ci restituiscono sul palco un Bambi baffuto, capellone e sempre con la bandana (“Quando suonavo, sudavo come una bestia. La mettevo per questo, mica per imitare Hendrix… ma vallo a spiegare ai critici musicali!”). Dopo il più sperimentale Astrolabio (1973, a Bambi è accreditata una Chitarra Cosmica!) i Garybaldi si fermano. Lui non dà retta a De André: (“Ci siamo scolati qualche bottiglia di whisky, assieme. Mi diceva sempre: devi andare via da Genova!”) e compone il lirico, solare e sognante Bambibanda e melodie (1974), album dove è più forte l’influenza di Carlos Santana e la chitarra spazia libera su tappeti di percussioni, come nella clamorosa Pian della Tortilla.
Intanto il clima politico si è incattivito e Fossati mette da parte la chitarra elettrica, scomparendo un po’ dal giro: “Avevo un progetto che si chiamava Acustico Mediterraneo… ci facevamo i cazzi nostri!”. Quando torna ai watt sparati dal Marshall, la musica è cambiata ancora e il pubblico vuole ballare, figuriamoci ascoltare un improvvisatore. Sono gli anni in cui Genova conosce la crisi nera, con la ritirata del comparto siderurgico, la disoccupazione, la paralisi del porto, l’eroina che quando arriva viene venduta a troppo buon mercato per non destare qualche sospetto… Anche Bambi soffre, ed è pure genoano: “Non ci siamo ritirati: abbiamo continuato, ma in disparte… siamo così a Genova, ci nascondiamo nei caruggi”. Nelle classifiche dominano porcate sintetiche che cresceranno una generazione di zombie, ma il vero problema — pratico e quotidiano — è che non si trova più da suonare dal vivo. Bambi non ha grandi royalties da ricevere e si arrangia insegnando a suonare a tanti ragazzi, da ottimo cattivo maestro, tornando alla ribalta solo nel 1990 con il bel Bambi Fossati e Garybaldi, solido rock blues e un curioso rap in genovese. Come per tanti chitarristi di matrice hendrixiana, lo stile diventa croce e delizia. Bambi ha una sua via personale ma “se in concerto non faccio qualche cover di Jimi, mi mangiano vivo”. Seguono a distanze abbastanza regolari Bambi Comes Alive (1993) e poi, via via incattivendosi sonicamente, Blokko 45 (1996) e La ragione e il torto (2000), in uno stile che il musicista definisce “psycho metal blues”. Del resto, a differenza di tanti suoi coetanei, Bambi non si affida alla nostalgia ma ascolta cosa succede in giro ed è entusiasta dei Pantera e soprattutto dei Rage Against the Machine, micidiale miscela molotov di rap, metal e consapevolezza politica. A proposito, gli chiedo: dov’eri durante il G8? “Qui, a casa mia… in piazza a prendere le mazzate!”. Parecchie sigarette dopo, la chiacchierata finisce facendo il punto sul Sistema che lui già attaccava più di trent’anni fa: “T’incula da quando hanno inventato l’orologio. Capisci? L’universo in una sveglia!”. Lo lascio come se lo conoscessi da sempre.
Da allora, Bambi l’ho visto ancora due volte; mi sembrava stanco, alle prese con mille difficoltà, anche economiche: “Se avessi un euro per ogni sito che parla di me, sarei ricco sfondato!”. E invece…
Poi ho saputo che i Garybaldi si sono riuniti, senza di lui, purtroppo malato. Nessuno pensi a sciacallaggio, anzi: i riuniti Garybaldi — con la straordinaria chitarra di Marco Zoccheddu, un tempo Gleemen e poi con gli Osage Tribe e De André — sono un omaggio a uno dei nostri poeti, uno che ci ha fatto sognare senza usare le parole ma una chitarra.
Da ascoltare:
Nuda (1972)
Bambibanda e melodie (1974)
Da vedere:
Vicino in un momento, Dvd documentario contenuto nel Cd Note perdute (2010)
Da leggere:
Codice Zena di Riccardo Storti (2005)
Jimi Hendrix, 5 giorni a maggio — Italia 1968 di Roberto Bonanzi e Maurizio Comandini (1998)
Anni 70 — Generazione rock di Giordano Casiraghi (2005)